Quello della Risiera fu l’unico Lager, nell’intera area dell’Europa Occidentale, ad essere provvisto di forno crematorio

(Foto: Zapping CC BY-SA 3.0)

A questi “funzionari della morte” fu affidato il compito di gestire lo strumento principale della politica di repressione nazista nella regione: il lager della ex risiera di San Sabba, creato nell’ottobre del 1943, all’interno del complesso industriale dell’ex pilatura del riso, che si trova a Trieste, vicino allo stadio comunale, area periferica della città, nei pressi del popoloso rione di Servola. La scelta della ex risiera era dettata, quindi, da ragioni strategiche e dalla favorevole posizione in relazione alle infrastrutture; inoltre era importante la relativa lontananza dal centro città, un collegamento diretto con la ferrovia e quindi con il porto, un buon accesso sulla principale strada tra Trieste e l’Istria. Infine è stato di grande utilità pratica lo stato di abbandono dello stabilimento <58, fatto che rese di certo immediatamente realizzabile il campo <59.
Il catalogo dei campi di concentramento provvisorio, in quanto risalente al periodo immediatamente successivo alla Liberazione, redatto dalla Croce Rossa Internazionale definisce il lager della ex risiera di San Sabba con il termine Polizeihaftlager, cioè campo di detenzione di Polizia <60. Gran parte delle vittime della ex risiera furono partigiani ed ostaggi catturati e rastrellati nei villaggi sloveni e croati limitrofi, dell’Istria e della zona di Fiume.
L’edificio in un primo tempo fu adibito dai nazisti a campo di prigionia per militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943. Alla fine di ottobre divenne campo di smistamento per la deportazione in Germania e deposito di beni sottratti ad ebrei e alla popolazione dei villaggi dopo i rastrellamenti o azioni di rappresaglia condotti in Istria e sul Carso. Il campo fu quindi misto, ovvero di transito, di detenzione e di eliminazione per resistenti, partigiani catturati ed ostaggi civili. La funzione di annientamento fu tenuta segreta, ma organizzata con la creazione di un forno crematorio destinato alla eliminazione dei cadaveri delle vittime, non ritenendo opportuno da parte dei nazisti utilizzare il vicino cimitero.
Dopo essersi serviti fino al 1944 del preesistente essiccatoio del riso (sala macchine), le SS provvidero a trasformarlo, nella primavera, in un rudimentale ma efficace forno crematorio, secondo il progetto di Erwin Lambert <61, che già aveva costruito installazioni della morte a Treblinka. La presenza del forno crematorio rende la ex risiera di San Sabba un caso unico tra i campi di concentramento nazisti in Italia. Dai primi mesi del 1944 iniziò il funzionamento del forno crematorio che cessò la sua attività solo con la distruzione da parte dei tedeschi in fuga con dinamite, la notte fra il 29 e 30 Aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al loro abbandono.
San Sabba era una zona in cui vi erano insediamenti prevalentemente popolari e operai, con italiani e sloveni. A poche centinaia di metri dal complesso della ex risiera vi era un traffico continuo ed intenso. L’afflusso dei prigionieri provenienti dal Coroneo (Carceri di Trieste) e dai piccoli e grandi centri della regione avveniva in modo continuo, ma discreto <62.
Il lager di Trieste può essere considerato per le sue caratteristiche un luogo tipico del sistema di terrore creato dagli occupanti nazisti.
Secondo i calcoli effettuati da varie testimonianze si deduce che nella ex risiera di San Sabba siano scomparse tra le tremila e le cinquemila persone. Ma sono stati molti di più i prigionieri e i rastrellati transitati dalla ex risiera e da lì smistati nei vari lager tra cui quello di Auschwitz <63.
Il lager vero e proprio fu ricavato dalle SS all’interno del secondo cortile dello stabilimento, facilmente isolabile rispetto agli edifici del complesso industriale. Qui era ubicato il fabbricato che ospitava il forno crematorio <64. Al piano terreno di un edificio che si affaccia sul cortile stesso furono ricavate diciassette micro-celle, vere e proprie anticamere della morte, in cui furono rinchiusi fino a sei prigionieri in attesa dell’esecuzione. Una delle celle era utilizzata per le torture. Gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati alla deportazione verso altri lager furono imprigionati in un fabbricato adiacente, in attesa di essere deportati nel campi nazisti europei.
La presenza di un lager, con forno crematorio, e quindi a tutti gli effetti non solo campo di concentramento ma anche, soprattutto, di sterminio, all’interno di un centro abitato come Trieste ha suscitato molti interrogativi negli storici e in coloro che si sono occupati di deportazione in Italia.
La Città di Trieste ha acquisito consapevolezza di questa vicenda tragica della sua storia, in ritardo. Le motivazioni sono molte. In prima istanza si deve ricordare il clima di contrapposizione nazionale tra italiani, sloveni e croati legato alla “questione di Trieste” nel dopoguerra; in secondo luogo, la politica di insabbiamento voluta dal Governo Militare Alleato, nella lunga fase di amministrazione della Città, durata fino al 1954; in terzo luogo, le vittime della ex risiera sono diventate strumento di una memoria di parte. Naturalmente ha avuto un ruolo determinante il tentativo di cancellare le tracce materiali da parte dei nazisti. Una tappa fondamentale per la presa di coscienza della memoria collettiva della Città di Trieste è stato il processo celebrato nel 1976. Pur con molti limiti, per ragioni burocratiche, legati alla prescrizione dei reati, è stato un momento fondante per interrogare le coscienze, avviare nuovi studi e fare propria anche questa parte della storia dimenticata e polverizzata <65.
58 L’abbandono avvenne dal 1929 al 1943 dopo un inspiegabile fallimento della ditta per la pulitura del riso.
59 Ferruccio Fölkel, La risiera di San Sabba. Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Mondatori, Milano 1979.
60 Tristano Matta (a cura di), Un percorso …., cit., p. 126.
61 Memorial nella Risiera di Trieste. Un terribile percorso dal fondo al fumo, in “Cronache di architettura”, n. 19, 1978, pp. 70-73.
62 Adolfo Scalpelli (a cura di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, ANED Edizioni Lint Trieste, Trieste 1995, pp. 66-67.
63 ANED Associazione Nazionale Ex Deportati Politici nei Campi Nazisti Sede Regionale del Piemonte, Aldo Scalpelli (a cura di), San Sabba: Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, Edizioni LINT, Trieste 1995.
64 Tristano Matta (a cura di), Un percorso …., cit., pp. 127-128.
65 Tristano Matta (a cura di), Un percorso …., cit., p. 132.
Maria Vittoria Giacomini, Memorie fragili da conservare: testimonianze dell’Olocausto e della Resistenza in Italia, Tesi di dottorato, Politecnico di Torino, 2012

«Qui giunto, come prima cosa mi percossero abbondantemente. Il più feroce dei bastonatori era un maresciallo, che al posto della mano aveva un uncino e ci faceva correre attorno alla vasca che serviva per i rifiuti, lavare le gavette e i vasi da notte insieme. Poi fui rinchiuso nelle celle. La mia portava il numero 4. Queste celle erano spesso occupate da 4 persone e provvisoriamente anche da sei. La notte non si poteva dormire, perché una lampadina fortissima era accesa giorno e notte. La sentinella o le sentinelle delle SS molto spesso aprivano le porte, e sempre gridando, e questo per farci vivere in un continuo stato di terrore. Cosicché si può dire che, finché rimasi là dentro, non ebbi pace neanche un minuto».
(Testimonianza di Giuseppe Gianechetti di Trieste raccolta da Giovanni Postogna)

Fonte: Maria Vittoria Giacomini, Op. cit.
Fonte: Maria Vittoria Giacomini, Op. cit.

Il 4 Aprile 1944 entra in funzione il forno crematorio dell’unico campo di concentramento nazista in Italia, la Risiera di San Sabba di Trieste. Il campo denominato dai tedeschi Stalag 339, è stato teatro dell’uccisione di circa 5.000 persone. Ben maggiore il numero di prigionieri passati dalla Risiera e da lì smistati in altri lager.
Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1898 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 (Stalag 339). Verso la fine di ottobre, esso venne strutturato come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.
Nel sottopassaggio, il primo stanzone posto alla sinistra di chi entra era chiamato “cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Secondo testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinati alla cremazione.
Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani in cui erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, dove venivano impiegati i prigionieri, nonché camerate per gli ufficiali e i militari delle SS, le 17 micro-celle in ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri: tali celle erano riservate particolarmente ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane. Le due prime celle venivano usate a fini di tortura o di raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto (tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia). Le porte e le pareti di queste anticamere della morte erano ricoperte di graffiti e scritte: l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria – in definitiva – degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez (ora conservati dal Civico Museo di guerra per la pace a lui intitolato), ove se ne trova l’accurata trascrizione; alcune pagine sono riprodotte nel percorso della mostra storica.
Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare.
A favore di cittadini imprigionati nella Risiera – ed in particolare dei cosiddetti “misti” (ebrei coniugati con cattolici) – intervenne direttamente presso le autorità germaniche il vescovo di Trieste, mons. Santin, in alcuni casi con successo (liberazione di Giani Stuparich e famiglia), ma in altri senza alcun esito (Pia Rimini). Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Una canale sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa il forno alla ciminiera. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino. Dopo essersi serviti, nel periodo gennaio – marzo 1944, dell’impianto del preesistente essicatoio, i nazisti lo trasformarono in forno crematorio, in grado di incenerire un numero maggiore di cadaveri, secondo il progetto dell’”esperto” Erwin Lambert, che già aveva costruito forni crematori in alcuni campi di sterminio nazisti in Polonia. Questa nuova struttura venne collaudata il 4 aprile 1944, con la cremazione di settanta cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima nel poligono di tiro di Opicina. L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie, fu inoltre rivenuta la mazza la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo (l’originale è stato purtroppo trafugato nel 1981).
Sul tipo di esecuzione in uso, le ipotesi sono diverse e probabilmente tutte fondate: gassazione in automezzi appositamente attrezzati, colpo di mazza alla nuca o fucilazione. Non sempre la mazzata uccideva subito, per cui il forno ingoiò anche persone ancora vive. Fragore di motori, latrati di cani appositamente aizzati, musiche, coprivano le grida ed i rumori delle esecuzioni.
Il fabbricato centrale, di sei piani, fungeva da caserma: camerate per i militari SS germanici, ucraini e italiani (questi ultimi impiegati in Risiera per funzioni di sorveglianza) nei piani superiori, cucine e mensa al piano inferiore, ora adattato a Museo.
L’edificio oggi adibito al culto, senza differenziazione di credo religioso, al tempo dell’occupazione serviva da autorimessa per i mezzi delle SS colà di stanza. Qui stazionavano anche i neri furgoni, con lo scarico collegato all’interno, usati probabilmente per la gassazione delle vittime.
All’esterno, a sinistra, il piccolo edificio – ora adibito ad abitazione del custode – costituiva il corpo di guardia e abitazione del comandante. A destra, nella zona attualmente sistemata a verde, esisteva un edificio a tre piani con uffici, alloggi per sottufficiali e per le donne ucraine.
Quante sono state le vittime?
Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra tra le tre e le cinquemila persone soppresse in Risiera. Ma in numero ben maggiore sono stati i prigionieri e i ”rastrellati” passati dalla Risiera e da lì smistati nei lager o al lavoro obbligatorio.


Padri e Madri della Libertà

Le celle della ex risiera di San Sabba, durante l’occupazione tedesca (1943-1945). Teo Ducci
(a cura di), Opere di architetti italiani. In memoria della deportazione, Mazzotta, Milano 1997,
pp. 54-55 – Fonte: Maria Vittoria Giacomini, Op. cit.

 

Graffiti nelle celle effettuati dai prigionieri all’interno della ex risiera di San Sabba, durante
l’occupazione tedesca (1943-1945). Risiera di S. Sabba: un Konzentrationslager nazista a
Trieste, 1994, p. 18 – Fonte: Maria Vittoria Giacomini, Op. cit.

Il processo sui crimini della Risiera ed il dibattito e le iniziative svoltisi intorno ad esso si configurano già, ancor prima della sua conclusione, come un fatto di grande rilievo nella vita della città. Nonostante i gravissimi limiti dell’istruttoria e del rinvio a giudizio, è emersa con prepotenza dalle testimonianze e dai problemi posti via via in margine alle udienze la realtà profonda di quella mentalità e di quella pratica di “antislavismo” e di “anticomunismo” che costituiscono un presupposto fondamentale per capire il fascismo di queste terre e le motivazioni reali del collaborazionismo filonazista maturatosi durante il periodo dell’Adriatisches Küstenland” e quindi per capire anche il perché della Risiera a Trieste, campo di concentramento e di smistamento verso i Lager tedeschi ma anche e soprattutto campo di sterminio strettamente collegato alla lotta e alla repressione antipartigiana.
Sono fatti emersi con grande chiarezza e che rinviano a precise responsabilità politiche, chiamando sul banco degli imputati atteggiamenti, mentalità, azioni, modi di essere che operarono allora, e largamente continuarono ad operare nella nostra regione anche negli anni del dopoguerra. Il fatto stesso che un tale processo si sia celebrato con tre decenni di ritardo, che omertà, silenzi, colpevoli mancanze di iniziativa delle autorità e delle forze politiche maggioritarie abbiano a lungo cercato di cancellare o far dimenticare le tracce della Risiera, attesta esemplarmente quanto l’eredità del passato e il contesto generale grazie al quale la Risiera era potuta nascere abbiano continuato a pesare nelle vicende e negli atteggiamenti della società locale, e negli scontri, nelle lotte, nelle tensioni e contrapposizioni che l’hanno caratterizzata.
Esplicitare tutto questo è necessario, per superare veramente quel passato, per porre basi solide e di massa – nella cultura, nei valori, nella consapevolezza degli uomini e delle donne di queste terre – alle prospettive di un futuro diverso, diversamente costruito ed orientato. Anche per questo, mi pare, bisogna fare di più di quello che si è fatto finora per allargare il dibattito e l’informazione, per portarlo nelle scuole e nei quartieri, seriamente, come un problema che investe e riguarda ancora, da qesto punto di vista, le responsablità di tutti, come un problema che allora ha coinvolto, per consenso, per colpevole silenzio, per supina accettazione, per distorta concezione e pratica di valori e miti più o meno autentici, le responsabilità di tutti. Non si tratta di fare del moralismo astratto e di proporre perciò un discorso del tipo “tutti peccatori”, che nella sua indifferenziata genericità annullerebbe le sempre necessarie distinzioni di responsabilità, di iniziativa, di azioni. Ma di affermare e sottolineare con la forza dei fatti e delle vicende reali che, come il fascismo in queste terre non fu episodio di pochi, ma trovò consensi, appoggi, alleanze in un terreno profondamente disposto ad accoglierlo, così il nazismo – e l’antislavismo, l’anticomunismo, lo stesso antisemitismo che alla esperienza fascista strettamente si riallacciano – poterono operare qui e tradursi negli stermini della Risiera perché larghi strati della nostra società erano già stati orientati ed individuare in certe direzioni l’alleato ed in altre il nemico da combattere.
Ma proprio per questo anche un altro discorso va fatto, con estrema precisione e chiarezza, riguardo al sistematico accostamento tra la Risiera e le foibe, portato avanti con numerosi interventi dal “Piccolo” e dai gruppi della destra locale. Ed è un discorso di netto e radicale rifiuto di tale accostamento, perché Risiera e foibe sono due fatti sostanzialmente e qualitativamente diversi, e perciò assolutamente incomparabili fra loro. La premessa di un tale giudizio non sta nel distinguere le responsabilità di chi è morto – come pure si deve e si dovrà, in un’analisi complessiva di quelle vicende – ma nell’individuare e quindi nel distinguere gli ambienti e le ideologie e le circostanze grazie ai quali quei determinati fatti hanno potuto prodursi. La Risiera è il frutto razionale e scientificamente impostato dall’ideologia nazista, che come ha prodotto Belsec e Treblinka, e Auschwitz e Mauthausen, e Sobibor e Dachau, così ha prodotto la Risiera, e l’ha prodotta qui, ha potuto produrla qui perché, per i fini ai quali doveva rispondere, ha trovato compiacenti servizi in ambienti largamente predisposti dal fascismo. Le foibe (quando non si tratti, come spesso si è trattato, di un modo di “seppellire” dei morti altrui: vi ricorsero i partigiani, vi ricorsero tedeschi e fascisti: e anche questa è una pagina in gran parte ancora da indagare, per evitare facili e troppo frequenti generalizzazioni e amplificazioni) sono la risposta che può essere sbagliata, irrazionale e crudele, ma pure sempre risposta alla persecuzione e alla repressione violenta e sistematica cui per più di vent’anni lo Stato italiano (il fascismo, si dirà, ma il fascismo aveva il volto dello Stato italiano) aveva sottoposto le popolazioni slovene e croate di queste zone. È assurdo parlare, riferendosi ad esse, di genocidio o di programmazione sistematica di streminio, ma sì di scoppio improvviso di odii e rancori collettivi a lungo repressi.
Le foibe istriane del settembre 1943, connesse allo sfasciarsi di ogni struttura politica e militare dello Stato italiano (varie centinaia gli infoibati secondo un rapporto abbastanza preciso proveniente dai Vigili del fuoco di Pola), corrispondono ad una vera e propria sollevazione contadina, improvvisa e violenta come tutte le sollevazioni contadine: colpisce i “padroni” – classe contro classe – perché padroni, padroni che sono anche italiani, italiani che per essere tali sono “padroni”, gli oppressori storici di sempre. Le foibe dell’aprile-maggio 1945, dove finirono quanti vennero presi e giustiziati sommariamente in quella furia di vendetta che sempre accompagna i trapassi violenti di potere, si inquadrano ancora, almeno in parte, in questo contesto: non vi furono giustiziati solo fascisti e nazisti per i crimini che avevano commesso e per l’odio che avevano suscitato (i calcoli del sindaco G. Bartoli, che sembrano peccare eventualmente per eccesso, elencano quattromila scomparsi, ma tra costoro sono compresi anche i caduti nelle azioni belliche locali tra il ‘43 e il ‘45); vi furono certamente coinvolte anche persone che con il fascismo poco o nulla avevano a che fare: è ragionevole pensare che furono coinvolte perché si trattava di italiani. Ma anche qui non si può dimenticare che un tale odio e una tale reazione trovano la loro ragione di fondo e la loro motivazione oggettiva in ciò che fu il fascismo di queste terre, nelle violenze squadristiche, nelle vessazioni, nei villaggi sloveni e croati incendiati, in quell’odio antislavo insomma che è componente anche degli stermini della Risiera e che fu truce prerogativa del fascismo e del collaborazionismo nostrano. Non si possono insomma confondere, né moralmente né storicamente, oppressori ed oppressi, nemmeno quando questi prendono il sopravvento e si vendicano talvolta anche selvaggiamente. E se un collegamento tra i due momenti si vuole stabilire esso sta semmai nella perversione dei rapporti, nell’imbestialimento dei costumi, nello stravolgimento dei valori, prodotto dal fascismo e dal nazismo, che non lasciarono indenni, non potevano lasciare indenni, nemmeno coloro che essi opprimevano (così come, ben più in generale, si può affermare che è una ben stolta illusione pensare che l’Italia fascista non sia riuscita anche a intaccare, coinvolgere, in qualche modo corrompere quell’Italia che pur fascista non era né voleva diventarlo: non si parla, sia chiaro, dei singoli, ma del costume, dei rapporti sociali, dell’insieme della collettività.
Solo avendo ben chiare queste premesse si può parlare delle foibe: e se ne parli e se ne discuta, finalmente, e si indaghi con serietà sulla realtà dei fatti e delle circostanze, anche per mettere fine alle sporche strumentalizzazioni di chi di quegli odii, da cui anche le foibe sono nate, è primo responsabile: per inquadrarle anch’esse, così come vanno inquadrate, tra gli esiti del fascismo ed il conseguente scatenarsi degli odii nazionali. Ma è aberrante e grave l’ipotesi di un processo oggi (auspicato più volte sul “Piccolo” e annunciato come certo in un recente numero del “Meridiano”) dopo tutti i processi degli anni cinquanta (comodamente dimenticati da chi si fa promotore di una tale iniziativa: è la Risiera che non aveva mai avuto un processo, non le foibe, che di processi ne hanno avuti decine, e spesso forzati e immediatamente strumentali alle lotte e alle manovre politiche di allora), che si vorrebbe affiancare al processo della Risiera: perché è un processo che nascerebbe appunto, di fatto e nelle volontà dei suoi promotori, come contraltare dell’altro, in un accostamento storicamente e moralmente infondato se non, ancora una volta, da un punto di vista nazionalista e fascista: un processo non ad un’ideologia e a un sistema, e quindi occasione di crescita e di consapevolezza civile, ma un processo ad una reazione irrazionale e violenta che trovava rispondenza in tensioni e lacerazioni di interi gruppi sociali, e perciò inevitabilmente aperto, per gli equivoci gravi da cui nascerebbe, alla strumentalizzazione fascista e nazionalista. È una prospettiva questa, cogliamo crederlo, che nessuna delle forze democratiche vorrà permettere, a rischio di produure ancora una volta quelle spaccature, quelle lacerazioni e quelle contrapposizioni grazie alle quali in queste terre il neofascismo ha potuto rirprendere a prosperare anche nel dopoguerra.
professor Giovanni Miccoli, Foibe e Risiera, accostamento aberrante, Bollettino dell’Istituto Regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, n. 1/aprile 1976, ripreso in La Nuova Alabarda marzo 2006

La Risiera di San Sabba è un campo di concentramento che sorge alla periferia di Trieste. Svolge diverse funzioni: raccolta e transito per gli ebrei; punizione per gli oppositori a disposizione della Gestapo; esecuzione di prigionieri politici; eliminazione dei corpi dei partigiani uccisi per rappresaglia fuori dal campo <756.
A San Sabba, però, è in funzione anche un forno crematorio.  Sono numerose le testimonianze in proposito.
Il carabiniere Giuseppe Gionechetti, recluso a San Sabba, ricorda: “ […] I prigionieri venivano uccisi in vari modi. Li facevano passare per uno stretto corridoio semibuio. Giunti a un determinato punto dello stesso, erano costretti a passare attraverso una specie di porta e qui ricevevano il colpo di grazia, una forte mazzata sulla nuca. Qualche volta questi colpi, il cui suono era simile a una botta su di un sacco di segatura, arrivavano fino a noi. A volte arrivavano a noi dei gemiti soffocati. I prigionieri, in diversi casi, venivano addirittura sgozzati o strozzati. Dopo l’esecuzione col sistema della mazzata, i cadaveri venivano accatastati, a strati di quattro a quattro, ad uso di “castello”, infine spruzzati di benzina e poi bruciati” <757. Anche il sottufficiale delle SS Heinrich Gley ricorda quanto accadde nella Risiera: “Sapevo che nella Risiera di Trieste esisteva un impianto di cremazione. Questo impianto è stato costruito da Lambert, come la maggior parte degli altri dello stesso genere nei campi di sterminio e negli istituti per l‟eutanasia. […] Io stesso ho visto come le salme venivano cremate nel citato impianto” <758. A San Sabba è in funzione anche una “rudimentale” camera a gas ricavata da un garage nel quale il gas viene immesso con dei tubi di scarico collegati a dei grossi automezzi. Il motore acceso degli automezzi, la musica ad alto volume e il latrato dei cani servono a coprire le urla strazianti e i “rumori della morte”. Ma, in alcuni casi, c’è chi non riesce (o vuole) né ascoltare né vedere <759.
Non è possibile stabilire con esattezza il numero delle vittime della Risiera. Sono comunque tanti. Secondo alcune fonti sono tra i 2.000 e i 5.000; e tra i 10.000 e i 15.000 i deportati. Pochi, invece, saranno i colpevoli riconosciuti dalla giustizia. Nessuno, però, sarà punito <760.
756 Vedi: Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall‟Italia (1943-1945), cit., pp. 932-939. Con Decreto del Presidente della Repubblica 15 aprile 1965, n. 510, “considerata la opportunità che la Risiera di San Sabba in Trieste – unico esempio di Lager nazista in Italia – sia conservata ed affidata al rispetto della Nazione per il suo rilevante interesse, sotto il profilo storico-politico”, la Risiera di San Sabba è dichiarata monumento nazionale.
757 Vedi: Ferruccio Folkel, La Risiera di San Sabba. L’olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Rizzoli, Milano 2000 (1ª ed. 1979), p. 38.
758 Ivi, pp. 39-40. Prima di fuggire, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, le SS faranno saltare con la dinamite la costruzione in cui è situato il forno crematorio.
759 “I nazisti versano diligentemente i contributi INPS! Ecco come il giudice istruttore è venuto a conoscenza dell’elenco degli impiegati italiani che lavoravano presso gli uffici nazisti a Trieste. Senza il collaborazionismo locale non sarebbe stato possibile operare in modo così rapido, così efficace […] In nessun luogo come a Trieste, né in Polonia, né in Belgio, né in Francia, si sono verificati tanti episodi di delazioni scritte e orali fatte agli occupatori dagli abitanti della stessa città”, Renato Sarti, I me ciamava per nome: 44.787 vierundvierzigtausendsiebenhundertsiebenundachtzig – Risiera di San Sabba – da testimonianze di sopravvissuti alla deportazione e allo sterminio nazifascista raccolte da Marco Coslavich e Silvia Bon dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli-Venezia Giulia, Baldini & Castoldi, Milano 2001, pp.43-44.
760 Il 16 febbraio 1976, dopo oltre trent’anni, si apre il processo contro August Ernst Dietrich Allers, Joseph Oberhauser, Christian Wirth, Gottlieb Hering, Franz Stangl, Otto Stadie, altri, come Stadie, non esattamente identificati e militari subalterni. Gli imputati, però, nel frattempo sono tutti morti. Solo Joseph Oberhauser è ancora vivo e la Corte d’Assise di Trieste, con sentenza del 29 aprile 1976, “lo dichiara colpevole del reato ascrittogli e lo condanna alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per tre anni ed al pagamento delle spese processuali. Condanna altresì, lo stesso imputato al risarcimento dei danni nella misura di L. 1.000.000 (un milione) per ciascuna, in favore delle parti civili”. Ma Oberhauser è latitante. Morirà a Monaco, in libertà, il 22 novembre 1979. Sul processo vedi: San Sabba, Istruttoria e processo per il lager della Risiera, 2 voll., a cura di Adolfo Scalpelli, Aned -Ed. Lint, Trieste 1995. (1ª ed. Mondadori 1988); Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera (con il resoconto del processo): Trieste, Istria, Friuli 1919-1945, Comitato di redazione Filibert Benedetic et al., ANED, Trieste 1978. Vedi anche la testimonianza di una ex SS italiana, Dante Fangaresi, Dieci settimane a San Sabba, Polistampa, Firenze 2003 (1ª ed. Diacronia, Vigevano 1994).
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, anno accademico 2010-2011

[…] La Risiera (grande complesso di edifici per la pilatura del riso) venne costruita nel 1913 nel periferico quartiere di San Sabba; questo venne dapprima utilizzato dai nazisti come campo di prigionia provvisorio per militari italiani catturati dopo l’8 settembre del 1943, giorno in cui fu reso noto l’armistizio che venne firmato segretamente il 3 a Cassibile in Sicilia; poi, verso la fine dell’ottobre, venne strutturato come Polizeihaft Lager cioè come campo di detenzione di polizia, destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni sequestrati, sia alla detenzione di ostaggi, partigiani, detenuti politici, ebrei…
Il primo stanzone posto alla sinistra nel sottopassaggio era chiamato “cella della morte”. Qui venivano ammassati prigionieri trasportati dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati a morire. Secondo alcune testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri che dovevano poi essere cremati.
Al pianterreno dell’edificio a tre piani, si trovano i laboratori di sartoria e di calzoleria dove venivano impiegati i prigionieri, camerate per ufficiali e militari delle SS, 17 micro – celle destinate in particolare ai partigiani, ai politici e agli ebrei; queste ultime potevano contenere al massimo 6 detenuti, 2 di queste venivano usate ai fini di tortura o di raccolta di materiale prelevato agli stessi prigionieri. Le porte e le pareti di queste anticamere della morte erano ricoperte di graffiti e scritte: l’occupazione dello stabilimento da parte degli Alleati, dopo l’8 settembre 1943, la successiva trasformazione del campo in raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, la polvere, l’umidità e molte altre cause hanno fatto sparire la gran parte di questi tesori. Nel secondo edificio a 4 piani venivano rinchiusi ebrei, prigionieri politici, militari, destinati alla deportazione in Germania per lo più a Dachau, Mauthausen ed Auschwitz… “Verso un tragico destino che pochi sono riusciti ad evitare”.
A favore dei cittadini imprigionati nella Risiera ed in particolare di ebrei coniugati con cattolici intervenne il Vescovo di Trieste, Mons. Santin che in alcuni casi ebbe successo.
Nel cortile interno vi era l’edificio destinato alle eliminazioni con il forno crematorio unito da un canale sotterraneo alla ciminiera. Oggi, sull’impronta metallica della ciminiera sorge una costruzione in memoria della spirale di fumo che usciva dal camino. Il forno, opera di Erwin Lambert fu collaudato il 4 aprile 1944, con l’inserimento di 70 ostaggi fucilati il giorno prima. L’edificio del forno e la ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai tedeschi in fuga, per eliminare le prove dei loro crimini. Tra le macerie furono rinvenute ossa, ceneri umane gettate in mare tra le quali quelle delle 5000 circa persone sterminate e la mazza la cui fotografia è ora esposta nel Museo. Le esecuzioni usate probabilmente furono queste: gassazione in automezzi, fucilazioni, colpo di mazza alla nuca; ma non sempre la mazzata uccideva all’istante, per cui il forno cremò anche persone ancora in vita. Il fragore dei motori, musiche, latrati di cani…coprivano le grida ed i rumori delle esecuzioni. Il fabbricato centrale di 6 piani era una finta caserma: al piano inferiore che ora è adattato a Museo, vi erano le cucine e la mensa, ai piani superiori c’erano le camerate per i militari tedeschi, ucraini ed italiani, questi ultimi impiegati per sorveglianza. Il casolare, oggi adibito al culto di tutte le religioni, serviva un tempo da garage per i mezzi delle SS; qui forse stazionavano i neri furgoni, con lo scarico collegato all’interno, usati probabilmente per gassare le vittime. Il piccolo edificio, posto a sinistra e all’esterno, costituiva il corpo di guardia e l’abitazione del comandante, oggi è l’abitazione del custode.
Le vittime in questo Lager italiano sono molte, circa 5000, ma la cifra è ben maggiore se si contano le persone prigioniere “di passaggio” verso altri campi o obbligate al lavoro che le distruggeva […]
Redazione, i Lager italiani, I nuovi Partigiani, 5 agosto 2009

Il più importante e significativo centro di repressione fu senza dubbio il Polizeihaftlager della Risiera di San Sabba, cioè campo di polizia e di detenzione.
Questo si inserisce appieno all’interno del sistema repressivo creato dalle autorità di occupazione nell’ottica di ottenere il dominio totale dell’OZAK [Zona d’operazioni (d’occupazione nazista) del Litorale adriatico]. Non è intenzione di questo lavoro descrivere la struttura e raccontarne la storia, già ampiamente trattata in numerosi lavori storiografici semmai, è rilevante collocare il Lager nella realtà dell’OZAK <194.
Il Lager di Trieste fu uno dei quattro Polizeihaftlager realizzati dai tedeschi in Italia dopo l’8 settembre e destinati a detenuti politici ed ebrei; gli altri furono quelli di Borgo San Dalmazzo (Cuneo), Fossoli di Carpi (Modena) e Gries (Bolzano). Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1913 nel periferico rione di San Sabba – già caserma del Regio Esercito, venne inizialmente utilizzato dalle truppe tedesche come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 (Stalag 339). Verso la fine di ottobre venne strutturato come Polizeihaftlager e destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.
In breve tempo i tedeschi riuscirono ad adattare la vecchia struttura industriale nel principale centro repressivo del territorio. Nel marzo del 1944 fu assegnato a Erwin Lambert, ufficiale delle SS, il compito di adattare il forno del vecchio essiccatoio in un forno crematorio da collegare alla vecchia ciminiera <196. L’ufficiale delle SS era oramai un esperto in questo mestiere, precedentemente aveva costruito i forni di Sobibor e di Treblinka. «Era un impianto molto primitivo che adempiva il suo scopo grazie all’alto camino; c’era un forte risucchio» <197. Quello della Risiera fu l’unico Lager, nell’intera area dell’Europa Occidentale, ad essere provvisto di forno crematorio. I grandi saloni dell’edificio principale furono adibiti a camerate per i prigionieri mentre al piano terra vi era il magazzino degli oggetti requisiti. Altra modifica apportata dai tedeschi fu la costruzione di 17 microcelle <198, anch’esse opera dell’abile Lambert.
Una delle caratteristiche più terribili fu la dimensione della struttura: a differenza dei campi costruiti in Germania e Polonia la Risiera manteneva delle proporzioni alquanto modeste. Questa particolarità risalta in tutta la sua tragicità nelle testimonianze dei sopravvissuti: i prigionieri dovevano vivere la loro tragica quotidianità a stretto contatto con gli impianti di morte (il forno crematorio ed il simbolo della ciminiera), quelli di tortura (le microcelle) e i loro carnefici (le camerate della truppa tedesca davano sul cortile del campo, la mensa condivideva un muro con l’edificio del forno, tutto ciò contrariamente ai Lager in Germania o in Polonia dove la zona adibita alle truppe del campo era ben separata dal campo). Tutta la vita del campo si svolgeva nelle poche centinaia di metri quadrati del cortile della vecchia fabbrica. «Questa “intimità”, questo contatto visivo e fisico con l’orrore quotidiano del lager è una originalità della Risiera che la distingue molto dagli altri campi.
«L’orrore poi era accresciuto dal fatto che tale strumento di morte non era isolato nel mistero di una zona inaccessibile alla gente comune, ma si trovava a contatto immediato col mondo circostante» <199. All’epoca, San Sabba era un quartiere operaio, prevalentemente popolare, abitato da italiani e sloveni. Il lager triestino si trovava in una zona semiperiferica, ma abitata e vissuta: nelle vicinanze vi erano altri importanti stabilimenti, come la Ferriera dell’Ilva, la Raffineria dell’Agip, il Cantiere S. Marco, lo stadio comunale e il rione di Servola. In pratica il traffico attorno alla realtà del campo era molto intenso, era zona giornalmente vissuta da cittadini e operai.
Altri fattori, però, avvicinarono la realtà di questo lager a quelli polacchi: per prima cosa il complesso con i suoi “artigiani” cuochi, sarti, falegnami, tutti tratti dalle file dei prigionieri, costituiva un’unità lavorativa autosufficiente; inoltre erano sempre gruppi di prigionieri che gestivano i beni prelevati dai tedeschi ai prigionieri.
Le diverse fasi delleesecuzioni venivano svolte dagli ausiliari ucraini SS (i già descritti Trawniki), giunti a Trieste con l’Einsatzkommando Reinhard (EKR).
La Risiera non fu certo un campo di sterminio, ma fu senz’altro un campo di eliminazione, e non solo. Nella Risiera di San Sabba si sovrapposero e convissero diverse situazioni. Vi furono condotti battaglioni di soldati italiani sospettati di voler disertare, quali il «Battaglione Davide» reparto ausiliario della RSI; vennero acquartierati reparti della SS tedesche e italiane direttamente impegnate nelle operazioni di rastrellamento. Fu inoltre un luogo dove venivano immagazzinati i beni razziati agli ebrei. Rispetto alla questione ebraica è prevalentemente un campo di transito. Passarono per la struttura circa 1450 ebrei (700 circa della comunità triestina dei quali soltanto una ventina tornò), per essere poi condotti ad Auschwitz <200. La repressione in Risiera colpì prevalentemente il movimento partigiano sloveno e croato nonché molto antifascisti italiani. Per quanto riguarda il numero delle vittime del Lager triestino non si ha un dato preciso, si va dalle stime emerse in occasione del processo del 1976, che parlano di 3.000-4.000 persone alle 5.000 ipotizzate dallo storico Fölker. Le modalità di eliminazione non sono state ben definite, ci sono ancora oggi molti lati oscuri nella storia del Lager: si uccise con una mazza ferrata, ci furono fucilazioni e impiccagioni, al processo si parlò per lo più di gassazione negli appositi Gaswagen, precedentemente utilizzati in Polonia. Il forno servì anche a bruciare numerose vittime della violenza nazista perpetrate in altre zone del territorio durante le rappresaglie o le azioni militari <201.
San Sabba fu quindi campo di transito per gli ebrei e campo di eliminazione per gli antifascisti ed i partigiani. Non bisogna vedere solo una di queste realtà, bisogna saperle cogliere nel loro insieme. Una realtà complessa ed eterogenea che rappresenta nella sua tragicità tutto il sistema concentrazionario nazista: il mondo della deportazione e dello «sterminio di massa».
La presenza nel nostro territorio del Polizeihaftlager ha in un certo qual modo catalizzato l’attenzione della storiografia locale facendone risaltare l’unicità e le particolarità isolandola dal suo contesto territoriale e soprattutto dalla struttura di repressione tedesca nella zona. La Risiera invece non costituì l’eccezione, ma la regola dei metodi di lotta antipartigiana e di affermazione dell’egemonia tedesca <202.
[NOTE]
194 Sulla Risiera esiste una vasta e nota bibliografia, si citano i contributi più significativi: F. Fölker, La Risiera di San Sabba. L’olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Milano, 1979; A. Scalpelli (a cura di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, Milano, 1988; AA. VV., Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera. Trieste, Istria, Friuli, Trieste, 1978; M. Coslovich, I percorsi della sopravvivenza. Storia e memoria della deportazione dall’Adriatisches Küstenland, Milano, 1994; S. Bon, La persecuzione antiebraica a Trieste (1938 – 1945), Udine, 1972; T. Matta, La Risiera di San Sabba: realtà e memoria di un lager nazista a Trieste, in A.L. Parlotti (a cura di), Italia 1939-1945. Storia e memoria, Vita e pensiero, Milano, 1996; G. Fogar, La Risiera di San Sabba a Trieste, in AA. VV., Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa 1939-1945, Bologna, 1987; C. Schiffer, La Risiera, in «Trieste», a.VIII, n. 44, 1961; sull’edificio della Risiera e sul suo ruolo di luogo della memoria M. Mucci, La Risiera di San Sabba. Un’architettura per la memoria, Gorizia, 2003; sulla storia relativa alla fabbrica vedi F. Fait, La Pilatura di Riso di San Sabba (1898-1927) storia di una impresa mal congegnata, in «Atti dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste», n. 21, 2005, pp. 217-238; A. Volk, Alcune note sulla proprietà e l’utilizzo della Risiera di San Sabba: tra preistoria e storia del campo di concentramento nazista di Trieste, in «Atti dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste», n. 18, 2001-2002, pp. 425-439.
195 Il Polizeihaftlager di Borgo San Dalmazzo, presso Cuneo, funzionò come campo di raccolta di ebrei italiani (la comunità piemontese era una delle più grosse d’Italia) e non (molti provenivano dalla Francia meridionale in fuga dalle truppe tedesche). Tra il 18 settembre 1943 e il 21 novembre dello stesso anno fu gestito da unità tedesche, poi dal 9 dicembre al 13 febbraio 1944, quando venne definitivamente chiuso, fu amministrato da forze della Repubblica di Salò. Il campo fu collocato in una vecchia caserma degli alpini. Da questo Lager passarono più di quattrocento persone 349 delle quali furono deportate ad Auschwitz. Il Campo di Fossoli inizialmente Campo di concentramento per prigionieri di guerra alleati, dopo l’8 settembre fu adibito a campo di raccolta per prigionieri politici e razziali. Transitarono per il campo circa cinque mila persone tra cui 2.800 ebrei in attesa di essere deportati ad Auschwitz. Gli ultimi mesi prima di essere definitivamente chiuso nel novembre del 1944, a causa dell’avanzata alleata, fu centro di raccolta per la mano d’opera razziata in Italia e destinata al lavoro in Germania. Molti di questi prigionieri furono quindi trasferiti al Lager di Gries a Bolzano. Questo era stato progettato per 1.500 prigionieri su di un’area di due ettari, con un blocco esclusivamente femminile e 10 baracche per gli uomini. Fu successivamente ampliato e raggiunse una capienza massima di circa 4.000 prigionieri. Poté contare sui Lager satellite di Bressanone, Merano, Sarentino, Campo Tures, Certosa di Val Senales, Colle Isarco, Moso in val Passiria e Vipiteno. Il numero di matricola più alto assegnato in questo campo è stato 11.115, ma la cifra dovrebbe essere molto superiore in quanto agli ebrei e ai prigionieri in transito non fu mai assegnato un numero di matricola.
196 Dalle testimonianze raccolte durante il processo sembrerebbe che precedentemente i nazisti utilizzassero già come forno crematorio il vecchio forno dell’essiccatoio o la base della vecchia ciminiera direttamente. La costruzione del forno indicherebbe un aumento del numero delle vittime e l’insufficienza quindi delle strutture già esistenti. Il forno risulterebbe in funzione già nell’aprile del 1944 e utilizzato per la prima volta per eliminare i corpi di 70 persone giustiziate a Opicina.
197 Testimonianza dell’appartenente all’Einsatzkommando Reinhardt Henrich Gley, in A. Scalpelli (a cura di), San Sabba cit. ,vol II, p. 20. Secondo lui di volta in volta potevano essere messe nel forno dalle 8 alle 12 salme per volta.
198 Le celle sono larghe ciascuna metri 1,20 e lunghe 2 metri scarsi, fornite di una piccola apertura di cemento di cm 20×20 sul soffitto. In queste celle venivano rinchiusi di norma prigionieri destinati al forno (politici e partigiani). La capienza di ognuna variava dalle 2 alle 7 persone. Le prime due vengono ora chiamate le celle della tortura per la loro struttura più ampia e per la presenza al loro interno di strutture adibite molto probabilmente a violenze e torture ai danni dei prigionieri.
199 C. Schiffer, La Risiera cit., p. 24.
200 Sulla deportazione cfr.: M. Coslovich, I percorsi della sopravvivenza cit.; sulla questione ebraica cfr.: S. Bon, La persecuzione antiebraica cit.
201 I corpi di 26 partigiani giustiziati in provincia di Udine furono portati alla Risiera. Vedi capitoli successivi. Il forno della Risiera inghiottiva così vittime di tutto l’OZAK.
202 Il Lager diviene lo strumento persecutorio con cui il regime intende creare il suo Stato razziale; contraddistingue il regime sin dalla sua ascesa come luogo di sperimentazione di un potere assoluto. La presenza nel Litorale Adriatico di tale strumento di potere indica una volta di più le intenzioni reali dei tedeschi su questo territorio. Per il controllo totale della zona, per una sua «ripulitura» da ogni nemico si applica anche qui la violenza del KZ. Il nemico è sempre lo stesso, il giudeo – bolscevico che qui si nasconde tra il movimento partigiano. Su tali temi cfr.: H. Friedlander, Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla soluzione finale, Roma, 1997; R. Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori, Milano, 1997; W. Sofsky, L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Roma, 2002.
Giorgio Liuzzi, La politica di repressione tedesca nel Litorale Adriatico (1943-1945), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Pisa, 2004

Furono i tedeschi, invece, a mettere in atto le ultime retate, compiute comunque con il sostegno, l’aiuto e l’organizzazione del capo della provincia e del questore Cordova, che provvide anche al trasferimento nel campo di sterminio italiano di Trieste, la Risiera di San Sabba. Per gli ebrei che arrivarono a Trieste, San Sabba rappresentava solo la prima tappa, il campo di transito verso le strutture progettate per la “soluzione finale” di ebrei e di altre minoranze. Alla professoressa Blumenthal non fu risparmiato nemmeno il lungo terribile viaggio verso Ravensbrük, all’estremo nord della Germania. <383
Liliana Picciotto ha identificato e ricostruito la sorte di più di 7.000 ebrei italiani catturati, dei quali si conoscono la destinazione e la data della morte. Grazie al suo lungo e documentato lavoro di ricerca sulla deportazione degli ebrei dall’Italia sappiamo che la destinazione di Olga Blumenthal fu appunto il lager di Ravensbrük, un campo “di rieducazione e di lavoro” destinato alle donne. Il campo era stato costruito alla fine degli anni trenta nella provincia del Meclemburgo, una pianura acquitrinosa e sabbiosa, ricca di laghi, a ottanta chilometri a nord di Berlino, su progetto del capo delle SS, Heinrich Himmler, da un comando di circa cinquecento deportati che in pochi mesi portarono a termine le costruzioni. Era destinato ad accogliere tutte le donne detenute nelle prigioni tedesche ma durante la guerra diventò il campo di “rieducazione”, di lavoro e di sterminio di prigioniere politiche, testimoni di Geova, zingare ed ebree. Come campo di lavoro era collegato agli stabilimenti Siemens e le donne che vi lavoravano erano praticamente schiave. Chi non resisteva al freddo e alla fatica veniva eliminata. Di Olga, arrivata nel novembre del 1944, non si è potuto nemmeno risalire al suo numero di matricola: negli ultimi mesi del ’44 il campo non era più così efficiente ed organizzato e probabilmente la donna fu destinata alla morte al suo arrivo. I bombardamenti sempre più vicini e frequenti annunciavano che l’esercito russo si stava avvicinando. Numerose testimonianze concordano che le donne inabili al lavoro massacrante venivano subito scartate e destinate alle camere a gas. Pare che Olga sia stata uccisa il 24 febbraio del 1945, anche se sembra impossibile sia riuscita a sopravvivere per tre mesi. <384
[NOTE]
383 L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano, Mursia, edizione del 2002, pp.55-56; 71; 155. Il lavoro della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, condensa vent’anni di ricerche per ricostruire l’elenco degli ottomila ebrei italiani deportati verso i campi di sterminio nazisti. Nella ricerca di Liliana Picciotto, Olga Blumenthal viene così censita: B. O., nata a Venezia il 20.04.1873. Figlia di Carlo e Goldschmidt Minna, coniugata con Secretant***. Ultima residenza nota: Venezia. Arrestata a Venezia il 30.10.1944 dai tedeschi. Detenuta a Venezia carcere, San Sabba campo. Deportata da Trieste il 28.11.1944 a Ravensbrueck. Matricola ***.Deceduta a Ravensbrueck il 24.02.1945. Fonte 1b, convoglio 41 T. Tipologia delle fonti utilizzate per la ricostruzione degli elenchi dei deportati: le Fonti 1b, attestano l’arresto, precedente la deportazione; la notizia si evince dai nomi rilevati da documenti carcerari: i registri di matricola dal carcere di Venezia (dagli anni 1943 al 1945). Il convoglio che portò Olga al campo di sterminio tedesco, fu il 41 T (perché partito come gli ultimi 23 da Trieste), il 41 aveva raccolto gli ebrei rastrellati dagli ospedali di Venezia, dal 6 all’11 ottobre, e altri rastrellamenti successivi. Tra loro, Olga Blumenthal.
384 Per le testimonianze sul lager di Ravensbrück, L.Beccaria Rolfi e A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, Giulio Einaudi, 1978; C.Bernadac, Manichini nudi. Il lager delle donne. Ravensbrück, Ginevra, France Edition e Fermi Edizioni, 1971; M. Massariello Arata, Il ponte dei corvi, diario di una deportata a Ravensbrük, Milano, Mursia 1979.
Emilia Peatini, Olga Blumenthal (1873 -1945). Storie di una famiglia e di una vita, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2018/2019