56 i partigiani russi che hanno perso la vita nella provincia di Brescia

Isaia Mensi, art. cit. infra: «la freccia indica l’area dove c’era la base provvisoria dei partigiani del gruppo autonomo russo. Lì c’era la “casetta” ove è avvenuto lo scontro con i militi della Gnr all’alba del 14 maggio 1944»

I partigiani sovietici hanno normalmente operato nelle formazioni riconosciute dal Corpo volontari della libertà (Cvl), ma talvolta hanno agito come gruppo autonomo, come mette in luce la storia della Valtrompia, con un tragico epilogo che ancora scuote nel profondo la memoria storica e la coscienza antifascista per la logica sommaria esercitata. In Valtrompia sono mancate larghe vedute e politicamente si è optato per il conflitto, condizionati dall’egemonia ciellenistica e dalla bellicosa logica partitica del tempo, poco funzionali all’avvento di una nuova società, per cui si lottava.
Per questo nella ricerca si sono sviluppate narrazioni diverse, pur se in Valcamonica il capo partigiano Gino Bodini non manca di sottolineare una caratteristica auto organizzazione del gruppo dei russi anche all’interno della 54ª brigata Garibaldi.
Secondo il partigiano gardesano Aldo Giacomini, componente la brigata delle Fiamme verdi X Giornate, assommerebbero a 56 i partigiani russi che hanno perso la vita nella provincia di Brescia. Non di tutti abbiamo trovato traccia o ricostruito i volti, perché a tal fine sarebbe necessario uno sforzo collettivo ampio e di lungo termine, pur giusto e possibile. Pertanto il nostro lavoro si presenta come un contributo parziale, mirato a rintracciare a grandi linee la memoria della loro presenza, a ricordarne il generoso apporto, la spinta innovativa e lo slancio combattivo offerti nella lotta di liberazione dal nazifascismo in terra bresciana.
Ci sono infatti domande che fanno nascere il dovere della ricerca e abbiamo tentato di rispondere ad alcune di queste avvalendoci delle analisi e delle riflessioni di alcuni storici in merito alle vicende accadute dopo l’8 settembre del ’43.
Da dove sono sbucati e chi erano i partigiani russi attivi a Brescia? Che cosa hanno fatto di concreto e dove? Chi è morto e in quali circostanze? Chi è sopravvissuto? Quali le opere scritte da loro e su di loro?
Sappiamo per certo che i prigionieri alleati fuggiti dopo l’8 settembre, provenivano per lo più dai campi di concentramento di Collebeato (ubicato ai Campiani, dove vi erano 150 sudafricani catturati a Tobruk), di Gardone V.T, di Vestone (dove erano rinchiusi ufficiali dell’ex esercito jugoslavo, ma anche senegalesi), di Darfo, di Grumello del Monte (Bg), dove c’erano dei russi.
Non vi erano a Brescia campi specifici destinati ai prigionieri russi, bensì erano arrivati numerosi prigionieri di nazionalità russa che ancora nella Germania nazista del Terzo Reich avevano optato per mettersi al servizio dell’esercito tedesco o dell’agenzia lavorativa che supportava l’occupazione dell’Italia.
Questi ex soldati dell‟Armata rossa, attivi in Brescia e provincia a partire dal mese di settembre del 1943, per la maggior parte erano stati fatti prigionieri dai tedeschi durante la fulminea avanzata in Russia, messa in atto a partire dal 21 giugno 1941. Rinchiusi in campi di prigionia dislocati tra Polonia e Austria, erano stati successivamente integrati o nell’esercito tedesco (Wehrmacht), o nella polizia militare delle forze armate della Germania (Feldgendarmerie) o nell’Organizzazione militarizzata del lavoro Todt, decidendo di collaborare poi gli invasori della patria più per convenienza che per convinzione.
Dopo il colpo di stato contro il capo del fascismo italiano avvenuto il 25 luglio 1943 e a seguito dell’armistizio firmato con gli alleati l’8 settembre, molti prigionieri russi vengono inseriti nelle 11 divisioni tedesche che partecipano all’operazione denominata in codice Alarico, consistente nell’occupazione militare dell’Italia, messa in atto al fine di impedire l’invasione da parte dell’esercito anglo-americano.
Prigionieri russi arrivano quindi in Brescia e provincia dopo il 10 settembre, giorno dell’occupazione nazista della città, sia inquadrati come forza militare dell’esercito tedesco (proveniente da Verona, oppure disceso in Valsabbia dal Trentino o in Valcamonica dal passo del Tonale) che inseriti come forza lavoro nell’organizzazione di supporto all’espansione nazista – già Todt – gestita dal ministro degli armamenti e approvvigionamenti Albert Speer. Li ritroviamo pertanto utilizzati in varie parti della provincia presso i comandi militari (vi era un distaccamento russo a Mompiano aggregato alla colonna militare tedesca posta a disposizione del comando generale tedesco), pronti a servire anche nei rastrellamenti, come avvenuto ad es. a Croce di Marone, ma per lo più impiegati come guardie presso alcuni stabilimenti importanti (ad es. Om di Brescia e Beretta di Gardone Valtrompia) oppure utilizzati come operai specializzati o autisti (ad es. nello stabilimento di Forno Allione, in Valcamonica).
Con l’inizio della ribellione antinazifascista, numerosi di questi russi, contattati e aiutati dalla resistenza bresciana, decidono di disertare la truppa di appartenenza o di abbandonare la propria occupazione. La prospettiva era quella di rimanere e lottare oppure di cambiare aria, seguendo la pericolosa via della Svizzera, ampiamente battuta da molti prigionieri inglesi. Vi erano ovviamente delle motivazioni convincenti per entrambe le scelte.
Mentre per la seconda bastava solo aspettare l’occasione propizia offerta da fidate guide alpine, per la prima bisognava arricchire di contenuti collettivi la propria progettualità, andando a infoltire il numero dei combattenti delle formazioni ribelli bresciane presenti, come è avvenuto col gruppo Lorenzini-Gheda, col gruppo Martini a Croce di Marone oppure in seguito con i garibaldini di Nino Parisi in Valsaviore e le Fiamme verdi della brigata Margheriti in alta Valtrompia, offrendo ovunque un proprio contributo di elevata professionalità combattente. Oppure – e questa è stata esperienza originale condotta in Valtrompia – dopo aver lasciato tutto, hanno costruito una formazione organica propria, strettamente relazionata con la resistenza comunista e cattolica saretina.
Nel caso Valtrompia cioè, dopo l’allontanamento collettivo da Brescia, il loro progetto iniziale è stato sormontato da qualcosa di diverso e più importante, per cui si sono in breve identificati e contraddistinti come gruppo autonomo su base etnica – pur provenienti da paesi diversi, avevano radici comuni – anche se da subito sono stati affiancati da ribelli bresciani del territorio circostante. La consegna delle armi da parte del Comitato di assistenza costituisce il riconoscimento ufficiale del loro gruppo e formalizza il loro ingresso tra le formazioni armate del movimento resistenziale bresciano, tanto da essere periodicamente seguito e controllato da commissari politici venuti anche da lontano (Milano).
I partigiani russi si sono in breve tempo riorganizzati in proprio sfruttando le basi messe loro a disposizione dalla resistenza locale, rappresentando per loro quasi un marchio conservare il proprio stile, valorizzare la propria idealità e sviluppare autonomia decisionale.
Avendo ben appreso le tattiche sovietiche, dimostreranno nel tempo capacità organizzativa ed efficaci tecniche di mimetizzazione, abilità difensiva e offensiva, fluidità di movimento, rapidità nelle incursioni e nelle imboscate, insegnando ai compagni bresciani grandissimo coraggio e volontà di non arrendersi mai, neanche davanti alla morte. Soprattutto saranno mantenuti stretti collegamenti intervallivi con i garibaldini della Valsaviore, mediante epici attraversamenti lungo primitivi sentieri che sfidano l’impossibile.
Brescia riconoscente deve rendere onore a questa galassia frammentata del partigianato sovietico, sparsa soprattutto nelle vallate principali della Valtrompia e della Valcamonica, sapendo che ovunque hanno ben agito e combattuto per la liberazione collettiva, con la costante preoccupazione delle sorti della madre patria, ma ben consapevoli di contrastare un feroce nemico comune.
Purtroppo non tutti i caduti sono morti per mano nemica. Almeno uno di loro (Nicola Pankov) è stato vittima di agguato premeditato messo in atto dal comando garibaldino e pure il suo luogotenente Michele Onopreiciuk è morto in conseguenza dell’imboscata contro di lui perpetrata: erano membri di un valente gruppo partigiano autonomo che in Valtrompia seguiva una linea operativa e militare propria, restio a sottomettersi ad altri. Poteva esserci un finale alternativo.
[…] Il dato numerico di 44 russi su un totale di 160 stranieri, certificato dai vari comandi facenti parte del Cvl, è tuttavia inferiore a quello effettivamente valutabile nell‟intero arco resistenziale. Ad es., il conteggio finale della 122ª brigata Garibaldi riporta la presenza del solo partigiano russo Michele Inanoff, dimenticandosi dei quattro combattenti nel distaccamento di Botticino al comando di Giuseppe (Penna) Ronchi. In Valcamonica, la stessa 54ª brigata Garibaldi ha contato nel suo massimo splendore (giugno 1944) 29 partigiani russi, secondo la testimonianza di Gino Boldini.
Per non parlare del gruppo autonomo russo diretto da Nicola Pankov, che in Valtrompia nell’agosto del ’44 contava 21 elementi ma che dopo l’uccisione del comandante e del suo luogotenente, avvenute il 18.09.1944 e in seguito ai rastrellamenti nazifascisti del successivo mese di agosto, si sono in gran parte dispersi, prevalentemente in direzione della Valcamonica.
Chi fossero tutti questi partigiani di origine russa non è dato sapere con assoluta certezza. Sicuramente vi erano ex soldati e ufficiali dell’Armata Rossa catturati in battaglia, quindi utilizzati per coercizione o per volontà di sopravvivenza come ausiliari; ma anche russi collaborazionisti che avevano dato inizialmente il loro consenso all’esercito tedesco, per poi disertare una volta che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli alleati anglo-americani.
Oggi non possiamo più fare distinzioni di sorta, ma bisogna soprattutto valorizzare l’etica personale della disobbedienza. Le variegate tipologie sono state tutte originate dalla violentissima guerra di aggressione nazista, che ha visto al suo fianco allineato come combattente avverso al popolo russo anche l’esercito italiano.
[…] Una presenza sovietica diffusa
In provincia di Brescia troviamo inizialmente ex soldati di origine russa intenti a fare la guardia alle maggiori fabbriche d’intereresse militare del territorio, quali la Om, la Beretta di Gardone Valtrompia, nonché la ferriera di Berzo Demo, oppure a lavorare direttamente per la riparazione dei camion, come a Forno Allione; ma anche a rafforzare i presidi tedeschi dislocati in luoghi ritenuti strategici, ad es. a Gardone Valtrompia, capitale armiera della Rsi, oppure in alta valle Camonica, pronti all’impiego nell’attività antiribellistica.
Ma di questi presidi armati ve n’erano in diverse parti, ad es. a Bovezzo, secondo la testimonianza del compagno Lino Moreschi, classe 1929, nativo di Bovezzo. «Dal ’43 al ’45 a palazzo Rota vi erano un centinaio di soldati tedeschi e una decina di soldati russi che avevano firmato per collaborare con l’esercito tedesco, ma erano sovietici. Costoro – i “ruski” come noi li chiamavamo – uscivano di rado ma frequentavano pure la casa di una mia parente per ascoltare notizie da radio Mosca. Con la popolazione tutti questi soldati si sono sempre comportati bene e ci difendevano dalle angherie dei fascisti».
Le trasmissioni captate dalla madre patria erano fondamentali sia per sostenere il morale di questi militari provenienti da diverse nazioni sovietiche sia per seguire le sorti della guerra dopo la grande vittoria ottenuta a Stalingrado (gennaio 1943), che fu la prima e più grande sconfitta delle armate hitleriane avvenuta sul continente europeo. Fu proprio in seguito all’incredibile eroismo dimostrato dall’Armata rossa in questa occasione che prese avvio la controffensiva che il 23.11.1942 circonderà e porterà alla resa la 6ª Armata della Wermacht del gen. Friderich Paulus, evento che da un lato esaltò il morale dei combattenti alleati e dall’altro diede nuovo impulso ai movimenti di resistenza in tutta Europa, Germania compresa.
Da più fonti bibliografiche si ha notizia che ex prigionieri russi si aggregano alle prime formazioni ribelli dislocate in una vasta area montana compresa tra le alture di San Gallo (Botticino), Castello di Serle (Serle) e Nave in Valtrompia, dove all’eremo di S. Costanzo in Conche trova riparo un consistente gruppo di ex prigionieri capeggiato dal 19enne studente bresciano Cesare Pradella.
Nave
A p. 16 del libro Lottare per la democrazia, che introduce diverse notizie sulla resistenza condotta in quel di Nave, oltre a fornire documentati dettagli, si elenca la composizione di questo gruppo ribelle multietnico, che entrerà a far parte della Formazione Giustizia e Libertà, assumendo come brigata il nome “Barnaba”, dallo pseudonimo del primo caduto proprio in località Conche di Nave, uno slavo che “col suo mitragliatore, riuscì a spezzare il cerchio dei nazifascisti, permettendo in questo modo che i compagni si ritirassero su altre posizioni”, sacrificatosi dunque “con atto di eroismo e abnegazione”:
«Un Gruppo fu costituito presso nave in località Conche; organizzatori principali furono l’avv. Leonardi, il Rag. Marazzi per i servizi logistici, ed il maggiore Pizzuto per il Settore militare. La comandava Cesare Pradella. La formazione era composta da 21 italiani, 13 inglesi, 11 russi, 9 slavi e 4 belgi e 3 negri. Durante i primi giorni della costituzione del gruppo, l’armamento era assolutamente insufficiente ed inadeguato, ma in seguito a colpi di mano o a modiche sovvenzioni, si ebbe un totale di un mitragliatore, nove mitra, una trentina di moschetti ed un certo numero di bombe a mano. Il Gruppo era collegato con quello di Croce di Marone attraverso il francese Arcaini Andrea e l’italiano Manzoni Luigi che assolsero i loro compiti con audacia e spirito di sacrificio (…) La più clamorosa delle azioni compiute da questo gruppo – rinforzato dalla formazione diretta dal sottotenente Enos Volpi posizionata in prossimità del valico di San Vito – fu senz’altro l’assalto alla caserma di Nave, condotta la sera del 14 novembre 1943, una delle risposte al rastrellamento nazifascista condotto pochi giorni prima a Croce di Marone. Partecipano all’operazione anche dei partigiani russi i quali, a notte fonda, si rendono attivi anche nel successivo tentativo d’attacco condotto contro la caserma di Lumezzane».
Così racconta il libro Lottare per la democrazia, p. 14, riportando la ricostruzione partigiana scritta nel 1946, dove si spiega come siano poi valorosamente caduti sei russi. Nel resoconto fa la sua comparsa il vicario antifascista della parrocchia di S. Sebastiano don Fabiano Bianchi, nativo del luogo, che ritroveremo come uno dei sacerdoti che continueranno ad aiutare la resistenza successivamente.
[…] Durante il successivo rastrellamento nazifascista condotto sulle pendici del monte Dragone – che separa la località Castello di Serle dal comune di Caino e Nave – trovano la morte sei russi, classificati come “partigiani russi senza nome” sul monumento realizzato a Sant’Onofrio. In questa zona infatti, soprattutto in località San Vito, si erano raggruppati fin dal mese di settembre numerosi sbandati e ribelli, quivi convogliati dal comunista Casimiro Lonati.
Gussago
Anche sulle alture di Gussago, in particolare sul monte Quarone è certificata da Anna Mariotti la presenza di un disertore russo, un certo Gregorij. La notizia è riportata nel libro Dalle storie alla Storia, pp. 251-252:
«La cascina dove abitava era una tappa di passaggio per le staffette da lì al Caricatore, dal Caricatore alle Civine, da Civine a Quarone. La mamma dava loro il sapone e gli scarti di filo da cucire. Di notte faceva la polenta, poi lavava subito il paiolo. Anna conserva ancora il pentolone di rame in cui la mamma cuoceva gli gnocchi di colla, cioè di farina bianca e sale, per i partigiani. Questi, evitando il paese, si fermavano quando percorrevano la mulattiera che passava proprio davanti a loro: “Non ne avevamo neanche noi, ma qualche uova e le galline…” Ne ricorda il nome: Italo di Barbariga, detto “Bombo”, che una notte arrivò con il russo Gregorij, così affamato da voler mangiare anche la pianta, oltre agli gnocchi (…) Proprio in questa zona era stato trasportato per mezzo del camion di Angelo Faini, con l’aiuto di Armando Lottieri e Bruno Ratti, “un gruppo di prigionieri russi nascosti alle Fornaci Deretti [località di Torbole Casaglie, ndr] che verranno portati sul monte Quarone. Sull’automezzo vengono caricati anche dei sacchi di patate ritirate al consorzio agrario di Brescia con dei buoni rilasciati dal ragioniere Giuseppe Tinti”».
Ne riferisce Piero Gerola sul libro Nella notte ci guidano le stelle, pp. 19-20.
Croce di Marone
Altre notizie iniziali sui partigiani russi rimandano alla località Croce di Marone, dove a partire dal mese di ottobre si sono aggregate diverse realtà combattenti provenienti da Brescia e dintorni, composte oltre che da numerosi soldati che hanno abbandonato l’esercito italiano da molti prigionieri evasi dai campi di concentramento sparsi sul territorio bresciano circostante (Campiani di Collebeato, Darfo, ecc). Ne dà conferma il libretto scritto dall’Anpi nel 60° anniversario della sanguinosa battaglia consumatasi su quelle alture il 9 novembre 1943, alle pp. 26 e 31:
«Secondo le ricerche fatte, il gruppo Martini, nel suo insieme raggiungeva circa le 300 persone sparse un po’ da tutte le parti del passo. Un centinaio di esse erano ex prigionieri alleati: sudafricani, indiani, polacchi, americani, serbi, francesi, belgi, arabi, inglesi, senegalesi, neo-zelandesi, evasi da campi di internamento (…) Durante la permanenza a Croce di Marone, fermammo quattro ragazzi che avvistammo in lontananza. I suddetti dichiararono di provenire da Darfo e che era loro intenzione incorporarsi coi partigiani. Tra gli sbandati del gruppo Martini trovammo un certo Bonazzoli, degli inglesi, un russo e due slavi che si unirono senz’altro al nostro gruppo».
Un’altra preziosa informazione viene fornita dal libretto La contrada del ribelle, p. 12, dove a proposito dei primi ribelli e della battaglia di Croce di Marone, si afferma:
«(…) Ma fecero conoscere l’esistenza del movimento anche a militari, inquadrati a diverso titolo, nella Wehrmacht. Infatti a riserva dei reparti, operanti a Croce di Marone, si trovavano a Sale Marasino numerosi soldati russi. Alcuni abbandonarono i reparti ancora quella sera, altri, una quindicina al comando di Nicola, disertarono un mese più tardi raggiungendo armati Sarezzo (vi erano giunti in tram) e poi i piani di Caregno».
Si introduce qui per la prima volta il nome di Nicola Pankov, che diverrà, a partire dal mese di maggio del ’44, comandante del gruppo di ex prigionieri russi che avevano abbandonato il loro posto di sorveglianti del grande stabilimento Om di Brescia, di cui parleremo ampiamente nel capitolo riservato alla valle Trompia.
In riferimento alla battaglia di Croce di Marone, non si può non sottolineare come soldati russi – definiti in questo caso “mongoli” – siano presenti accanto ai rastrellatori fascisti e tedeschi.
Così infatti scrive Piero Gerola nel libro Nella notte ci guidano le stelle, p. 55: “Le forze attaccanti, composte da SS, Mongoli, paracadutisti tedeschi e bande fasciste, subiscono perdite piuttosto gravi”. Terminato con la sconfitta dei primi gruppi partigiani il sanguinoso rastrellamento di Croce di Marone – anche a causa dell’assenza del tenente del 77° reggimento di fanteria Armando Martini e dell’abbandono delle posizioni strategiche di Colma di Zone tenute dal capitano Francesco Camplani – molti ribelli bresciani e di origine straniera si disperdono.
Isaia Mensi, Partigiani sovietici nella Resistenza Bresciana, ANPI Brescia

Un partigiano russo nel Bresciano – Fonte: Isaia Mensi, art. cit.
Un altro partigiano russo (segnato con il n. 1) tra i patrioti combattenti del Bresciano – Fonte: Isaia Mensi, art. cit.
Partigiani russi nel Bresciano – Fonte: Isaia Mensi, art. cit.

Belleri si trova immediatamente a vivere il giorno stesso del suo ingresso nella Resistenza uno dei drammi più difficili, l’esecuzione di prigionieri. Il problema del trattamento dei prigionieri da parte dei partigiani non fu risolto in modo univoco nel corso della Resistenza. In generale era impossibile per ragioni pratiche e logistiche predisporre una normale detenzione dei prigionieri, come avrebbero potuto fare i nazisti e i fascisti, che, invece, a scopo intimidatorio o per pura ferocia preferirono ricorrere ad esecuzioni sommarie dei partigiani catturati. “Nelle azioni antiribelli, le squadre non fanno prigionieri”, disponeva esplicitamente il partito fascista come norma di comportamento delle brigate nere, all’atto costitutivo delle stesse <2. Nel caso dei partigiani l’alternativa era la liberazione dei prigionieri dopo averli disarmati o la loro immediata fucilazione. Questa seconda opzione, comunque drammatica, in molte circostanze fu imposta per salvaguardare le proprie posizioni o la semplice possibilità di continuare la lotta. Va ricordata la prima amara esperienza del gruppo di Lorenzini e di Gheda che subì un terribile e tragico rastrellamento l’8 dicembre 1943 proprio in seguito alla delazione di due militi fascisti precedentemente lasciati liberi sotto giuramento di non tradire <3.
L’esecuzione del capitano Martini, ex comandante partigiano passato con i fascisti, e del milite della questura che lo accompagnava rappresenta una prima dura prova per il giovanissimo Belleri. Non vi è dubbio che Martini avesse tradito e fosse salito in montagna per indicare ai fascisti i luoghi dove si trovavano i partigiani <4. Ma Martini ed il milite che lo accompagnava erano stati disarmati ea quel punto erano prigionieri. L’ordine di fucilarli portato da Antonio Forini a nome del Cln di Brescia è molto improbabile che fosse stato emesso effettivamente dal Cln che attraversava un periodo piuttosto difficile dopo l’uccisione di Armando Lottieri. Inoltre, riconosce lo stesso Belleri, “c’è da dire che Martini non ha ammazzato Berto, quando l’aveva disarmato [un partigiano incontrato lungo il percorso dal Martini. nda], ed è stato un fesso poi a portarselo dietro perché avrebbe potuto metterlo nei guai, come poi è successo”. Effettivamente Martini, in quel giorno per lui tragico, tenne un comportamento del tutto contraddittorio rivelatore forse di un drammatico conflitto interiore, di un’indecisione: sembrerebbe agisse in lui anche un incoercibile senso di colpa verso gli ex compagni di lotta che gli impedì di agire con freddezza e senza scrupoli. Tuttavia la logica delle guerra partigiana non permetteva di trattenere reclusi i due, mentre una loro liberazione sarebbe stata nefasta: da qui la decisione condivisa, ed eseguita congiuntamente, dal gruppo della 54a brigata Garibaldi di Gino Boldini e dal gruppo Russi di Nicola Pankov di giustiziarli. Per Belleri, giovanissimo ed inesperto di guerra partigiana, fu quella una prova decisiva, come riconosce lui stesso: Superata la “prova del fuoco” dell’esecuzione da parte di Nicola a sangue freddo di Martini e poi delle guardie della Gnr di Brozzo, uno ha imparato a guardare la morte in faccia. Del resto per fare la resistenza armata il coraggio era indispensabile, non potevi farti paralizzare dalla paura. Anche allora vi era chi aveva capacità politiche, magari antifascista da vecchia data, ma non aveva coraggio e capacità militari. D’altro canto Tito “Tobegia”, coraggioso e capace di usare il mitra, mancava totalmente di senso politico; l’ideale era avere coraggio, capacità militari, ma anche testa politica, come Verginella e Gheda”.
[…] Anche attraverso la testimonianza di Belleri ci è possibile innanzitutto inquadrare con esattezza le caratteristiche del gruppo dei Russi, fortemente determinate, almeno dal maggio 1944, dalla personalità di Nicola Pankov.
I russi che si ritrovano a combattere nella Resistenza bresciana sia in Valtrompia che in Valcamonica formavano uno dei tanti gruppi di russi che si schierarono a fianco dei partigiani in varie parti d’Italia, disertando dalla Whermacht o dalla Speer, corpo ausiliario armato dell’esercito tedesco anch’esso a volte impiegato in azioni antipartigiane. Fatti prigionieri nella campagna di Russia avevano scelto in qualche modo di collaborare e furono colti dall’armistizio dell’8 settembre al seguito dell’esercito tedesco in Italia. Alcuni di loro disertarono e si unirono alla Resistenza, o perché ritenevano fosse ormai vicina la fine della guerra o perché non disponibili ad essere impiegati in funzione antipartigiana o per cercare di riscattarsi agli occhi dell’Unione sovietica in cui difficilmente sarebbero potuti rientrare se sospettati di collaborazionismo. In generale combatterono valorosamente a fianco dei partigiani italiani <6.
I russi che si ritrovarono in Valtrompia nel 1944, nella maggior parte, avevano disertato da Brescia il 5 dicembre del 1943 <7 ed inizialmente avevano girovagato a cavallo tra Valtrompia e Valcamonica.
Quando Lino Belleri entra nel gruppo il 19 maggio 1944, questo era comandato da Nicola (o Nicaolaj) Pankov (o Pancoff), ex sottufficiale, che lo dirigeva con stile militare, disciplina ferrea e grande attenzione alla massima efficienza operativa, mentre sembrava estraneo alla dimensione politica, anzi piuttosto diffidente nei confronti dei “politici”, mentre l’unico comunista del gruppo era, secondo Belleri, Stefano Rudenco.
Fondamentale per inquadrare la figura di Nicola Pankov è lo “stralcio di diario di un russo” recuperato da Dario Morelli delle Fiamme verdi e depositato presso l’Isrb, oggi presso l’Università cattolica. Si tratta di un documento di straordinario interresse non solo storico, ma anche letterario: ci presenta il gruppo dei russi che operò nel 1944 in Val Trompia da un punto di vista interno al gruppo stesso e senza particolari censure; dalla lettura risulta evidente che si tratta di un diario riservato e personale in cui l’autore, dimostrando una particolare attitudine espressiva e una certa vena poetica, si soffermava anche su descrizioni ambientali bucoliche <8; mentre esprimeva un’esplicita insoddisfazione nei confronti dei comunisti italiani <9, annotava anche rilievi fortemente critici sullo stesso gruppo di appartenenza, ad esempio sul fatto che non operava come banda partigiana, con uno spirito “sovietico” ma sostanzialmente si preoccupava della propria sopravvivenza con azioni di puro banditismo <10 e quindi auspicava che ci si decidesse rapidamente a spostarsi a Sud verso il fronte per partecipare attivamente alla guerra contro i nazifascisti <11.
Stabilirne la paternità è quindi decisivo per definire la stessa figura di Pankov Santo Peli, senza alcuna titubanza e discernimento critico, sposa l’ipotesi che l’autore fosse per l’appunto Nicola Pankov <12. Senonché vi sono troppe incongruenze perché si possa accettare questa versione. Un primo elemento problematico va individuato nel fatto che Belleri, arrivato nel gruppo dei russi dopo circa un mese dall’ultima data annotata nello “stralcio”, il 16 aprile 1944, e rimastovi praticamente fino ai primi di settembre, non ha mai visto Nicola prendere un appunto o scrivere alcunché, come neppure altri del gruppo russi. E’ del tutto evidente che chi intraprende una scrittura così impegnativa, con passione ed indubbio estro narrativo, è consapevole di compiere un’opera importante che non può in nessun modo interrompere in primavera proprio nella fase in cui la tanto attesa lotta partigiana finalmente entra nel vivo. Inoltre non si comprende come il diario possa essere pervenuto ai fascisti se l’autore fosse Nicola: chi lo scriveva, in quelle condizioni, evidentemente lo portava sempre con sé ben custodito in una tasca degli abiti, ma Nicola non è mai caduto nelle mani dei fascisti <13, è stato ucciso da un gruppo della costituenda 122a brigata che l’ha anche perquisito dopo la morte, tanto da prelevargli “un mitra, una pistola, un paio di scarponi, un cinghione, un orologio da polso e un portafogli che non conteneva denaro” <14. E del diario nessuna traccia.
Ma se queste incongruenze non bastassero, infine vi è un’obiezione oggettivamente insormontabile: l’autore scrive in prima persona e proprio nelle prime pagine cita in terza persona Nicola Pankov <15, come cita tutti gli altri membri del gruppo, elencati alla fine con riferimenti anagrafici precisi, meno uno, quello che come vedremo è con ragionevole certezza il vero autore del diario.
[…] Dal 19 dicembre 1944 la brigata nera “Tognù”, in possesso del diario, avrebbe provveduto alla traduzione dello stralcio interessante la zona della Valtrompia, dove lo avrebbe fatto pervenire per competenza al relativo distaccamento “Adamello” ai primi di gennaio del 1945, distaccamento presso cui venne trovato dopo la Liberazione.
Questa lunga analisi critica delle fonti applicata all’autore dello “stralcio di diario” ci serve ad inquadrare con più rigore il gruppo dei russi operanti in Valtrompia ed il suo comandante Nicola Pankov: infatti, sia le sommarie condanne <25 che le acritiche agiografie <26 non aiutano a comprendere la complessità e contraddittorietà di un gruppo autonomo che, invece, Paolo Aceef nel suo diario ci rappresenta con penetrante analisi critica. Paolo Aceef, va anche ricordato, ha dimostrato fino alla fine una coerenza ammirevole con la sua volontà di “fare il partigiano” annotata nel diario, continuando la lotta armata, fino al sacrificio della vita, anche nel difficilissimo inverno 1944-45, quando i suoi ex compagni si erano quasi tutti trasferiti in Svizzera <27 e la stessa 54a brigata Garibaldi, come anche la 122a, aveva pressoché sospeso ogni attività.
La questione dei gruppi autonomi. Il conflitto con Nicola Pankov e la formazione delle 122a brigata Garibaldi
Il gruppo russi, quindi, rimasto in Valtrompia nella primavera del 1944 sotto il comando di Pankov si configura come una banda autonoma, con un profilo squisitamente militare, ben armata e con notevoli capacità operative come si dimostreranno in particolare nell’azione di Brozzo. Ma anche un gruppo, in particolare nel comandante Pankov, refrattario alla politica ed all’integrazione nelle formazioni ufficiali facenti capo al Clnai. Questo è dimostrato dai tentativi di inquadramento operati senza alcun risultato, sia dalla progettata brigata Matteotti <28, sia dalle Fiamme Verdi <29, sia infine dai Garibaldini. Con questi ultimi, in particolare, dopo la fuga dal carcere di Brescia, il 13 luglio 1944, di Leonardo Speziale e Giuseppe Gheda, si apre un conflitto di difficilissima soluzione: la nascente brigata Garibaldi, che a questo punto i comunisti sono in grado di costituire, entra inevitabilmente in rotta di collisione con il gruppo Russi, sia perché ambedue agiscono nella comune zona operativa, sia perché le retrovie e le basi d’appoggio (i comunisti della Media Valtrompia, in particolare Cecco Bertussi) sono le stesse. Nel momento in cui si va costituendo una brigata Garibaldi e il gruppo di Nicola insiste a rimanere autonomo, è del tutto ovvio che i comunisti locali sono portati a sostenere lo sforzo per la creazione di una formazione garibaldina e lo spazio per il gruppo autonomo dei Russi di fatto si restringe.
La situazione che si crea nella tarda estate del 1944 nella media Valtrompia è quindi estremamente difficile, oggettivamente complicata, per motivi politici evidenti, ma anche per fattori personali che hanno a che fare con i temperamenti dei protagonisti, in particolare dei due principali contendenti, Nicola Pankov e Leonardo Speziale. A distanza di sessanta anni, anche con l’aiuto di Belleri, davvero testimone imparziale, si può tentare una valutazione serena.
Per questo, preliminarmente è opportuno prendere le distanze da alcune distorsioni della realtà dei fatti che non fanno onore ad un metodo storico rigoroso. Per sostenere le ragioni di Nicola Pankov, eroe popolare senza macchia, contro il commissario politico comunista Leonardo Speziale mero “interprete della linea del partito”, sono state scritte alcune falsità che non aiutano a costruire quel giudizio ponderato di cui si diceva.
Non corrisponde alla realtà l’affermazione che la riunione alla Garrotta di condanna di Nicola Pankov “vanifica, anzi fa scomparire, anche storiograficamente [corsivo nostro, nda], tutta l’attività partigiana del gruppo russo, occultandola, seppellendola sotto le spoglie di generiche ‘scorrerie’”30. Nell’unico lavoro storiografico che ha trattato organicamente la Resistenza in Valtrompia furono dedicate circa 15 pagine alla ricostruzione storica dell’attività del gruppo dei russi <31, nelle quali più volte si afferma che l’unico gruppo operativo nell’inverno-primavera 1943-44 era quello di Nicola Pankov <32 , che fu protagonista dell’azione decisiva di Brozzo <33 e si prendono le distanze dal giudizio negativo formulato sul gruppo russo dal comando regionale delle Brigate Garibaldi il 22 luglio 1944: “Giudizio in verità troppo pesante e ingeneroso nei confronti del gruppo russi che, se era costretto per sopravvivere nei momenti difficili ad azioni non troppo ‘ortodosse’, era pur sempre l’unico nucleo partigiano attivo in tutta la valle” <34.
Nella foga idealizzante della figura di Nicola succede che gli si assegni erroneamente il merito di aver “catturato” Martini <35, innescando una polemica pretestuosa nei confronti di Speziale, anche qui non fondata sui dati di fatto. Martini ed il questurino che era con lui furono catturati da partigiani garibaldini della Valcamonica, al roccolo dei Tre piani sopra Cesovo, su segnalazione del comunista Forini, informato del suo tradimento, come attestano due protagonisti della vicenda, Lino Belleri e Gino Boldini, commissario della 54a brigata Garibaldi <36.
Così, per sminuire il ruolo della 122a brigata Garibaldi si accredita una presunta storia della stessa falsata a posteriori per ingigantirne artatamente il peso: “Il gruppo che diverrà la 122a brigata Garibaldi, alla stessa data [22 agosto 1944. nda] è noto come il gruppo Bruno, anche se poi diverrà usuale datare al ’43 la nascita della Garibaldi” <37. Ma, a costo di apparire pedante, nell’unica storia della 122a si racconta, con precisione di date e di numero di effettivi, la travagliata e difficile gestazione della brigata Garibaldi in Valtrompia, fino alla sua costituzione ufficiale il 4 ottobre 1944: “il 4 ottobre la nuova brigata, col numero 122, viene formalmente incorporata nel comando generale delle Brigate d’Assalto Garibaldi e quindi nel Corpo Volontari della Libertà” <38.
Infine è semplicemente falso che in quel lavoro sulla storia della 122a, per quanto riguarda la tragedia dell’uccisione di Bertussi, vi sia stata una “reticenza assoluta sulle modalità” <39. A supporto di questa perentoria affermazione si cita solo quanto è riportato nell’appendice nella biografia di Cecco Bertussi, ignorando del tutto quanto è invece scritto nel testo, dove si indica chiaramente il contesto in cui morì Bertussi, cioè l’eliminazione di Nicola Pankov da parte di un gruppo della 122a: “A seguito della discussione [fra esponenti delle brigate ufficiali alla Garotta agli inizi di settembre del ’44. nda], fu emessa, di comune accordo, la sentenza di condanna a morte di Nicola, da eseguirsi ‘da parte di chiunque lo potesse reperire’. Questa sorte sarebbe toccata ai garibaldini della 122a brigata Garibaldi il 18 dello stesso mese. Fu una vicenda drammatica che costò, tra l’altro la vita al quadro più capace ed esperto del Partito comunista in tutta la Valtrompia, Cecco Bertussi” <40.
Sgombrato il campo dalle pretestuose forzature dei dati di fatto, la riflessione non può innanzitutto prescindere da una considerazione difficilmente contestabile. La svolta che si operò nell’estate 1944 in tutta l’Italia occupata, con il passaggio dalle bande autonome, costituite localmente su iniziative spontanee, ad un organizzazione in brigate aggregate in formazioni che facevano capo politicamente al Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia, e poi militarmente al Corpo volontari della libertà fu assolutamente necessaria e strategicamente decisiva. Quale peso avrebbe avuto nella Liberazione del paese e nelle vicende dell’immediato dopoguerra un movimento ribellistico fatto di bande locali autonome, senza alcuna direzione militare e strategia politica unificate a livello nazionale?
Superare la fase dei gruppi autonomi era dunque inevitabile, anche se è del tutto comprensibile che questa preoccupazione, prioritaria nella concezione di un comunista come Speziale, fosse completamente estranea a Nicola Pankov. Il vero problema su cui ci si deve interrogare è se questo processo non potesse maturare anche in Valtrompia evitando un esito così drammatico. Lino Belleri a questo riguardo non ha dubbi: Certo se ci fosse stato Gheda o Verginella a gestire la faccenda, si sarebbe risolta in un altro modo. Ed è un peccato per noi, soprattutto, che abbiamo perso Bertussi.
Già. Infatti Bertussi fu doppiamente vittima, sia perché inerme e indifeso venne proditoriamente ucciso, sia perché la sua figura davvero straordinaria ne è uscita sfumata, schiacciata dai due protagonisti-antagonisti (Leonardo Speziale e Nicola Pankov) che si contendevano allora la leadership nella lotta armata in Valtrompia, e che avrebbero occupato successivamente la scena delle contese storiografiche.
[…] Ciò che qui interessa, invece, riconoscere è che Bertussi fu vittima di quel terribile corto circuito, che fu anche scontro estremo ed inconciliabile di potere tra due leadership: l’una, gelosa della propria autonomia e del proprio ruolo indiscusso conquistato sul campo (“ha in mano il gruppo”, aveva scritto allora di lui “Arnaldo”), ma nel nuovo contesto di fine estate ’44 disperatamente priva di prospettiva <41; l’altra, forte di un passato di combattente comunista e dell’investitura del Cln, che ad ogni costo intendeva imporre la propria supremazia sul movimento resistenziale triumplino; ambedue, per carattere e formazione militare/politica, refrattarie alla mediazione e, forse, troppo allenate all’uso della violenza, senza eccessivi scrupoli. Un’altra soluzione poteva darsi, probabilmente, ma occorreva una maggiore capacità di mediazione e la rinuncia ad impartire una lezione, doti che non appartenevano certo a Speziale <42.
Un comunista anomalo: Cecco Bertussi
E Bertussi fu la vittima illustre ed incolpevole, una figura grande di uomo e di partigiano, che, potremmo dire senza retorica, ha incarnato la dimensione morale nella Resistenza. Una figura emblematica di quella solidarietà diffusa nei confronti dei renitenti e dei resistenti da parte dei contadini, che, ricordiamolo sempre, erano allora la stragrande maggioranza degli italiani. Il viaggio di Lino Belleri, nella primavera del 1944, dal centro Italia a Marcheno è una convincente testimonianza di quale fosse l’atteggiamento di fondo e ampiamente diffuso dei nostri contadini nei confronti dei renitenti e dei partigiani. Ci dice Belleri che i contadini facevano spesso a gara ad offrire riparo e cibo: senza quella solidarietà e quel sostegno variamente motivati, non sarebbero state possibili la renitenza e la Resistenza di tanti giovani.
Ma Bertussi non fu solo questo. Tutte le testimonianze convergono nell’indicare Bertussi come la colonna portante della Resistenza comunista: è lui, in particolare nel ’44, il responsabile per i comunisti del coordinamento della lotta armata per tutta la Val Trompia. Dunque anche comunista. Ma un comunista per molti versi anomalo. Non solo per la formazione cattolica, ma soprattutto per l’estrazione sociale. La sua era una famiglia benestante che non poteva non stupire Lino Belleri, proveniente da un altro mondo, quello degli ultimi, quando fu indirizzato proprio da lui e trovò nella sua casa il comunista Forini a discutere come riorganizzare i gruppi della montagna.
[NOTE]
2 Documento “segreto” del Quartier generale del 25 giugno 1944, in “La Resistenza bresciana”, Isrb, aprile 1972, n. 3, p. 151
3 A. Fappani, La Resistenza Bresciana, vol. II, Squassino, Brescia 1965, pp. 99-101 e 123-124
4 Gli interrogativi che su questa versione vennero sollevati per mettere in dubbio la legittimità dell’esecuzione di Martini (Cfr. L. Tedoldi, Uomini e fatti di Brescia partigiana, Brescia, Brescianuova, 1980, pp. 121-122) non sembrano fondati essendo attestato da fonti Gnr che “la sera del 18 corr., in Brescia, il noto capo banda Martini si è consegnato nelle mani del Capo della Provincia, che lo tiene sotto la sua protezione”. Cfr. Notiziario della Gnr del 19 maggio 1944, in Archivio della Fondazione Micheletti.
6 In totale i partigiani russi sono stimati in oltre 5.000, provenienti prevalentemente dai reparti ausiliari della Wehrmacht (come la Speer), o dalle organizzazioni di lavoro, come la Todt. Cfr. M. Galleni, Ciao, russi. Partigiani sovietici in Italia, 1943-1945, Marsilio, Venezia 2001.
7 Stralcio di diario [di un partigiano russo], “La Resistenza bresciana”, Isrb, aprile 1974, n. 5.
“Il sole scotta, la neve si scioglie, finalmente viene di nuovo la primavera, fioriscono i bucaneve che assomigliano a narcisi bianchi, solo che sono più grandi e senza profumo. Veramente quelli che trovai sulle pendici sud, difese dal vento, fiorivano anche in dicembre!” (24 febbraio 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 71.
9 “Sperare nella collaborazione del Comitato comunista italiano non ci conviene. Gli italiani non sono una razza guerriera ed il Comitato è composto di elementi artigiani” (2 marzo 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 74.
10 “Ieri parlavo con Ivanoff e Schulga sulla necessità di incominciare la vita dei partigiani, perché così non si può fare la vita di banditi! Salvarsi e procacciarsi da mangiare! Nessuno di noi è adatto a far la vita del partigiano e solo loro unico pensiero è quello di salvare la propria pelle. Dai discorsi uditi e dai ragionamenti fatti in proposito non mi sembra che abbiano desiderio di ritornare nell’Urss!! E questi che così parlano per ora preferisco non nominarli” (27 febbraio 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 72.
11 “Ho chiesto quando inizieremo a fare i partigiani; forse in estate? Ho quindi proposto di formare diversi gruppi di cinque o sei persone ed andare verso il sud. La mia proposta è stata accettata, così con me verranno Ivanoff, Turcowsky, Vorona, Rudenco, Stucalov” (24 marzo 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 77. In realtà il progetto non avrà seguito.
12 S. Peli, Il primo anno della Resistenza. Brescia1943-44, “Studi bresciani”, n. 7, Fondazione Micheletti, Brescia 1994, p. 84 e n. 17 p. 117.
13 Un’ipotesi potrebbe essere la perdita del diario da parte di Nicola nel concitato scontro con i fascisti tra il 13 ed il 14 maggio 1944 in una cascina a Gabbiole di Agnosine, ma in questo caso lo stralcio sarebbe arrivato per lo meno al 10 maggio, mentre si interrompe il 16 aprile.
14 Dichiarazione di Tito, in Archivio Fondazione Micheletti, Fondo Resistenza, faldone 17 (segnatura provvisoria).
15 “Alla sera il nostro gruppo si spostò marciando in direzione sud. Rimasero con Gergorio Novicki (regime di Ninitz), ex sergente Pkka, anche i compagni Prossin, Pancoff e Stepnoff” (!9 gennaio 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 66.
25 “Nicola era stato uno sbandato che, insieme ad alcuni altri compagni commetteva rapine e terrorizzava i contadini, gettando discredito sul movimento partigiano”. Cfr. I. Nicoletto, I briganti diventano eroi per gli alfieri dell’anticomunismo, in “La verità”, 24 marzo 1975.
26 “Nel caso del gruppo russo, una fisionomia da ‘compagni’ è chiaramente visibile” e “Quindi, per i protagonisti, e per gli storici della resistenza bresciana non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che fino alla fine di agosto Nicola è considerato a tutti gli effetti un capo partigiano autorevole”. Cfr. S. Peli, Il primo anno della Resistenza…, cit., p. 94 e p. 101.
27 Quasi tutti i russi che erano rimasti ad operare in Valtrompia, nel settembre 1944, dopo i grandi rastrellamenti di fine agosto attorno alla Corna Blacca, si aggregarono ai distaccamenti della Fiamme verdi della Valcamonica, C3, C4 e C5, per poi trasferirsi tutti, salvo alcuni catturati dai tedeschi, in Svizzera nel novembre 1944. Cfr. Nota storica di D. Morelli, a Stralcio di diario, cit. p. 81.
28 Relazione di Arnaldo Carli [Alberto Leonesio] com. brigata “G. Matteotti” del 22 agosto 1944, in R. Anni, Storia della brigata Perlasca, Isrb, Brescia 1980, pp. 201-202.
29 R. Anni, Storia della brigata Perlasca, cit., p. 85.
30 S. Peli, Il primo anno della Resistenza…,cit., p. 100.
31 M. Ruzzenenti, La 122a brigata Garibaldi e la Resistenza nella Valtrompia, Nuova Ricerca, Brescia 1977, pp. 21-28, pp. 39-48
32 Ivi, pp. 22, 39, 40.
33 Ivi, p. 27.
34 Ivi, p. 40.
35 S. Peli, Il primo anno della Resistenza…, cit., p. 101.
36 Si veda di seguito la narrazione di Lino Belleri e al testimonianza di Gino Boldini rilasciata al curatore.
37 S. Peli, Il primo anno della Resistenza…, cit., p. 102.
38 M. Ruzzenenti, La 122a brigata Garibaldi, cit., p. 55.
39 S. Peli, Il primo anno della Resistenza…, cit., p. 66.
40 M. Ruzzenenti, La 122a brigata Garibaldi, cit., p. 48.
41 Non solo perché a fine agosto la maggior parte dei russi dopo i rastrellamenti del 26 agosto attorno alla Corna Blacca si erano spostati in Valcamonica ed aggregati alle Fiamme Verdi, per poi passare in parte in Svizzera, ma perché, con l’orientamento assunto dai comunisti nei confronti dei gruppi autonomi, in Valle a Nicola Pankov mancava ormai il sostegno decisivo delle basi logistiche di cui aveva goduto nei mesi precedenti.
42 Va considerato infatti che la situazione di Nicola in quel momento era oggettivamente precaria, difficilmente avrebbe potuto riportare in Valtrompia i suoi compagni dispersi presso le Fiamme verdi della Valcamonica e quindi la questione si sarebbe potuta risolvere quasi da sé, per la forza delle cose.
Marino Ruzzenenti, Angelo “Lino” Belleri, protagonista della Resistenza in Valtrompia, Spi Cgil Brescia, 2005