A Bologna si ricorda ancora di Dozza l’immagine del bolognese bonario

Bologna. Foto: Gian-Maria Lojacono

[…] Anche Dozza sarà fra quella pattuglia di comunisti bolognesi che, a Livorno, al canto dell’Internazionale, abbandonerà il teatro Goldoni, dove si svolgeva il XVII Congresso nazionale del Psi, per fondare un nuovo partito. Il 21 gennaio 1921, al vertice del Pcd’I, veniva nominato segretario Amadeo Bordiga, un leader carismatico che con la sua intransigenza doveva segnare non solo il periodo della fondazione, ma anche una parte importante dei primi anni costituenti. Giuseppe Dozza, prima segretario della federazione bolognese, poi capo nazionale dei Giovani comunisti, sarà per lungo tempo affascinato dalla personalità di Amadeo Bordiga.
Ma intanto la situazione si era fatta sempre più oppressiva nei confronti delle forze antifasciste e soprattutto del Pcd’I. Prima la marcia su Roma, poi la forzatura elettorale con la legge Acerbo costringono i comunisti alla semiclandestinità. Anche Dozza si trova a vivere in quella condizione di uomo-ombra. A Bologna è ormai troppo conosciuto per poter lavorare, sia pure “coperto”. A Roma lo aspetta un posto di dirigente nazionale del partito e proprio nella capitale sarà sottoposto al suo primo processo che si conclude con un’assoluzione.
Nel giugno del 1924 il partito gli affida un’importante missione all’estero. Dozza va a Mosca per rappresentare la Fgci (Federazione giovanile comunista italiana) al IV Congresso del movimento giovanile internazionale. La patria del comunismo mondiale gli si presenta in tutta la sua potente carica rivoluzionaria. Questo doveva entusiasmare il giovane comunista bolognese, ma anche confonderlo. Proprio fra i suoi compagni, ma ancor più fra i delegati del V Congresso dell’Internazionale comunista, che si svolgeva in contemporanea all’assise dei giovani, si avvertivano i primi scricchiolii del gruppo dirigente bolscevico che, con la morte di Lenin, stentava a trovare una condivisione politica. Si fa avanti il tema della “bolscevizzazione” del movimento internazionale. Insomma il preludio di quello che sarà “il socialismo in un solo paese”. Sulla esperienza che Dozza farà nella capitale russa non disponiamo di tracce certe. Unico spiraglio una pesante testimonianza di Togliatti, che lo accusava: “Dozza (Furini) ha partecipato al lavoro frazionistico contro Ercoli (Togliatti) e ha svolto un pessimo ruolo nella delegazione del V Congresso dell’Internazionale comunista” (Dundovich 1998). Se crediamo a Togliatti dobbiamo concludere che la fedeltà di Giuseppe Dozza al suo segretario Bordiga non si era appannata. E, a Mosca, proprio il segretario non si era trincerato dietro gli equivoci. La “bolscevizzazione” non lo convince e anche il fronte operaio-contadino gli sembra troppo largo e pieno di rischi. Gramsci e Togliatti per il “centro”, e Tasca per la “destra” appoggiano invece i dirigenti russi emergenti, sperimentando un’unità che dovrà diventare decisiva quando, poco dopo, il timone del partito passerà nelle mani di Antonio Gramsci. Quell’estate e quell’autunno 1925 saranno per Giuseppe Dozza stagioni di profondo travaglio. Non disponiamo di una sua testimonianza in proposito, ma sappiamo per certo che a Biella, al congresso dei giovani comunisti, che si terrà a pochi giorni di distanza da quello del partito a Lione, Dozza si presenterà come rappresentante della maggioranza gramsciana e darà un contributo decisivo all’opera di convincimento di quei suoi compagni che tanto avevano creduto nel “mito” Bordiga.
Intanto procedeva la marcia del fascismo al potere. Contro gli oppositori vi erano le insidie dell’Ovra e i rigori del Tribunale speciale che, ben presto, iniziò a sgranare il suo rosario di anni di galera, di invii al confino e, talvolta, di pene di morte. Anche Dozza incappa nei rigori delle “leggi fascistissime”. Insieme a Gramsci, Scoccimarro, Terracini e altre decine di comunisti sarà processato da una corte del Tribunale speciale, ma la sua posizione sarà stralciata in quanto, ormai da qualche mese, era fuggito in Francia, sua nuova patria per più di quindici anni. Anche se per quella generazione di “rivoluzionari professionali” pare riduttivo parlare di patria. Il loro orizzonte era il mondo e in quello scenario, soprattutto europeo, si muovevano con grande scioltezza. Quei “re dello spirito” erano di casa non solo in Francia e in Unione Sovietica, ma con uguale disinvoltura si muovevano per le vie di Amsterdam, Berlino, Budapest o Praga. Ovunque li chiamasse la causa della rivoluzione, essi rispondevano con entusiasmo e disciplina. Così Dozza, che nel frattempo aveva assunto come nome di battaglia lo pseudonimo di Furini, ritorna clandestinamente in Italia, insieme ad altri suoi compagni per organizzare “il popolo italiano nella sua lotta contro il fascismo”. Il mondo era sconvolto dal dilagare della crisi economica, innescata dal crollo di Wall street. Il capitalismo sembrava in ginocchio. Al contrario il sistema comunista sfornava il suo primo piano quinquennale, che pareva capace di risanare un’economia allo sbando. E l’Internazionale comunista aveva la sua ricetta per sconfiggere il nemico di classe: organizzare una guerra rivoluzionaria in tutto l’Occidente. L’Italia di Mussolini rappresentava il primo obiettivo, forse perché considerato il paese capitalistico più debole. Naturalmente si trattava di un’illusione e se ne resero conto ben presto quei comunisti che come Dozza avevano varcato il confine. La polizia politica riuscì nel breve volgere di qualche mese a individuare e a catturare la maggior parte dei comunisti, ma non Giuseppe Dozza che, con abilità, riuscì a sfuggire a tutti gli agguati, tanto che da quel momento gli rimase addosso, e per sempre, la fama di “imprendibile”.
Nel corso degli anni Trenta la sua carriera politica si impenna: assume la carica di responsabile dell’ufficio organizzazione e quadri ed entra nel Prezidium dell’Internazionale comunista come membro effettivo. Con l’ingresso dei nazisti a Parigi, nel giugno del 1940, Dozza è costretto a lasciare la capitale. Scende nel Sud della Francia, a Cabirol, un piccolo paese alla periferia di Tolosa. Qui insieme a Sereni e Scotti gestisce una fiorente attività agricola, vive dei guadagni ricavati dalla terra e intanto organizza un centro clandestino di resistenza. In quei due anni riuscirà a comporre con socialisti ed esponenti di Giustizia e Libertà due documenti importantissimi per il futuro della Resistenza italiana. Ma il suo “sogno” era quello di ritornare in Italia e in particolare a Bologna. Finalmente il 9 settembre 1944 il “cittadino” Giuseppe Dozza può rivedere le due Torri, ma svettanti su una città devastata dalla guerra. Il suo ruolo è quello di guidare la Resistenza bolognese e lo svolgerà da “diplomatico d’istinto” (Valiani, 1984); una dote coltivata negli anni bui dell’esilio. Il futuro sindaco si trova a vivere nel cuore pulsante del complesso scacchiere politico-militare che si era costituito a Bologna, e dovrà convincere, coordinare e organizzare le diverse forze in campo. La sua attenzione è particolarmente rivolta ai cattolici che proprio allora entravano nel Clner (Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna). Di quella rete di rapporti rimane traccia nei documenti che Dozza prepara nel corso di quei mesi. Da un lato si puntava sull’intransigenza e sulla fermezza nei confronti del nemico (Risposta al comandante tedesco. Odio mortale, novembre 1944); da un altro lato si infondeva sicurezza (Schema di un discorso per un compagno che ricopra cariche pubbliche al momento della Liberazione, ottobre 1944). Il tempo di una nuova vita era arrivato. Giuseppe Dozza era pronto ad affrontare i lutti e gli entusiasmi di quel 21 aprile 1945, che lo avrebbe portato a sedersi sullo scranno più alto di palazzo D’Accursio e avrebbe dato ai bolognesi una stabilità lunga più di vent’anni.
[…] La complessa rete di alleanze sviluppata dal sindaco Giuseppe Dozza e dalla sua Giunta può essere letta in diversi modi. Nella prima fase i rapporti con i partiti del Cln sono l’orizzonte in cui si muove il sindaco. Ma il ciclone elettorale del 18 aprile 1948 scompagina le carte anche a palazzo D’Accursio. Le relazioni, rese già complicate dalla scissione socialista, sono improntate allo scontro e alla delegittimazione reciproca. La situazione non muta negli anni della guerra fredda, anche se resisteranno alcuni terreni di confronto, come quello relativo ai rapporti con l’Università. L’Ateneo era uscito dalla guerra distrutto nelle strutture, ma ancora prestigioso sul piano scientifico. D’altra parte l’amministrazione comunale, soprattutto per il suo “colore” politico, non godeva del consenso di molti uomini dell’Alma Mater. Ma il realismo doveva prevalere. Si giunse a un accordo nel quale l’Università incassava un indiscutibile successo. Non mancava di sottolinearlo il consigliere socialdemocratico Pietro Crocioni che sosteneva “ci vincoliamo a questo programma (…) ci siamo limitati a dare all’Università il nostro cospicuo contributo per la realizzazione di un programma varato, studiato e steso dall’Università”. Tuttavia l’aver creduto in quell’accordo e averlo sottoscritto si dimostrerà, nel tempo, un atto lungimirante per l’amministrazione. Un atteggiamento nuovo di attenzione e di rispetto e, in qualche caso di vera e propria collaborazione, si manifesterà nei confronti del Comune. Intellettuali come Francesco Flora, Giuseppe Branca, Carlo Corsi; scienziati come Oliviero Mario Olivo e Giovanni Favilli accompagneranno la giunta socialcomunista nella sua conquista del consenso. Ma non c’era solo questo. Nel 1955 il Comune riuscirà a concludere un’operazione onerosa sul piano economico, ma quanto mai proficua su quello della popolarità. Il 26 febbraio 1956 il comune di Bologna sottoscrive una Convenzione con la quale si destinava all’Istituto di Fisica “A. Righi” un contributo decennale di 500 milioni per condurre ricerche sull’applicazione pacifica dell’energia nucleare. La notizia del contributo fu ben accolta dai bolognesi. Sul tema del “pacifismo” c’era un consenso ormai radicato. Da anni a Bologna si lavorava sui temi della pace e il Comune aveva sempre fatto la propria parte. Ma anche un altro settore, in questo caso economico, poteva essere stimolato dai risultati di quella Convenzione. Finanziare studi su nuove fonti di energia poteva dare slancio a un’industria sofferente e con un futuro incerto. Anche in questo caso si trattava di un terreno già fertilizzato. Consigli comunali “infuocati” avevano scandagliato lo stato dell’economia bolognese. La maggioranza si era presentata con proposte sospese fra passato e futuro: aperture dei mercati anche ai paesi “oltre cortina”; inviti al mondo imprenditoriale ad investire di più, richieste allo stato di aperture di credito per consentire ai comuni di avviare lavori pubblici. La minoranza argomentava il suo contrasto con motivi di incompetenza istituzionale.
Ma la politica delle alleanze aveva messo radici. Infatti si può pensare che non solo i lavoratori bolognesi sentissero la “protezione” della loro amministrazione locale, ma anche i piccoli e medi imprenditori, gli stessi artigiani – molti dei quali appena espulsi dalle fabbriche – potevano guardare con simpatia a chi dimostrava di voler rivendicare nuove regole di sviluppo: dal credito all’apertura di nuovi mercati, dall’aumento del potere d’acquisto dei ceti popolari al rispetto delle regole democratiche. Proprio allora l’economia bolognese era alla vigilia del boom economico. Nel giro di pochi anni la sua vivacità l’avrebbe portata a raggiungere e poi superare il trend nazionale e a consolidare quella coesione sociale che aveva ormai solide radici nella realtà locale.
Ma le alleanze non cancellarono gli scontri, soprattutto fra le forze politiche. Un caso ci sembra esemplare sia per la sua rilevanza locale che per il suo intreccio con lo scenario nazionale. “Qualcosa si è mosso e comunque non si fermerà più”, così si leggeva sul Libro bianco su Bologna che i dirigenti della Dc bolognese presentano alla città per la campagna elettorale del 1956. In campo era sceso un leader carismatico come l’ex vice segretario Giuseppe Dossetti, che da qualche anno aveva abbandonato tutti gli incarichi di partito e istituzionali per dedicarsi agli studi teologici e alla dimensione religiosa dell’impegno cristiano (Tesini 1986). La chiamata del professore era venuta dall’alto. Giacomo Lercaro, cardinale di Bologna, lo aveva convinto a rigettarsi nella mischia proprio per il bene di Bologna e dell’Italia.
La reazione di Giuseppe Dozza e del Pci bolognese fu calcolata e riflessiva. Del resto passato e presente erano rassicuranti. Nonostante le angustie della guerra fredda, a Bologna si guardava al futuro con gli occhi dell’ottimismo. Restavano ancora punti oscuri e disarmonie sociali ma, nel complesso, lo stato del partito 20 e la saldezza dell’istituzione comunale davano ai comunisti bolognesi l’impressione che il successo elettorale fosse alla loro portata. Intanto un evento, accaduto a est, doveva mettere in subbuglio armonia e sicurezze. A Mosca, il 14 febbraio 1956, si era aperto il XX Congresso del Pcus. Kruscev, nel suo rapporto segreto, aveva sconfessato Stalin e i suoi metodi di potere. Il Pci bolognese viene naturalmente scosso da quelle notizie. Lo sconcerto è altissimo, soprattutto per quanto riguarda il “culto della personalità”. I militanti bolognesi sono colpiti da un “crollo intimo”. Attorno al mito del dittatore sovietico era cresciuta una generazione di comunisti ed ora la storia del potere personalistico non li convinceva. L’unico rimedio sembra ancora una vecchia ricetta stalinista: l’autocritica. Secondo questa interpretazione tutti i compagni dovevano fare un severo esame di coscienza e “stare attenti all’andazzo di vivere bene”. Dozza, al contrario, non si abbandona allo sconforto. Da vecchio internazionalista dimostra di conoscere bene quel mondo e di saperne interpretare le convulsioni. Per il sindaco non ci sono sorprese negli avvenimenti russi. Come in un’altra stagione c’era stato bisogno del pugno di ferro staliniano; così ora si assisteva all’affermarsi di una nuova classe dirigente, pronta a lavorare in forme collegiali. Con questa spiegazione di apparente buon senso si condannava il passato senza demonizzarlo e si dava credito a Kruscev e ai suoi compagni.
Gli echi del XX Congresso attraversarono la campagna elettorale, ma non scalfirono i contenuti dei programmi. Soltanto la stampa cittadina e nazionale si esercitò nell’attacco al “nemico” comunista, perché saldamente protetto “dall’ombrello dell’Est”. Di fatto Dozza e Dossetti si concentrarono più sugli aspetti locali. Certo non mancarono i colpi bassi come quando Giuseppe Dozza accusò il suo competitore di essere “l’uomo di fiducia del cardinal legato”. Non meno efficaci furono i fendenti democristiani. L’accusa più spietata era quella di “immoralità”.
Bologna veniva raffigurata come una città matrigna che aveva amato solo i suoi figli prediletti e respinto i figliastri, perché governata attraverso “la corruzione delle coscienze” (Libro Bianco 1956, 21). Al contrario, si progettava una città “amica”, perché conosciuta, progredita e ricca di spiritualità. Al centro del programma c’era una riforma “rivoluzionaria”: la divisione territoriale e amministrativa di Bologna in quartieri.
Ma nonostante tutto i “mangiatori di capponi”, come Indro Montanelli (1956) amava definire il ceto medio bolognese, preferirono la continuità all’innovazione. E il risultato fu inequivocabile. La Democrazia cristiana nulla potè contro il ciclone comunista. Il partito di Giuseppe Dozza aumentava del 5% e portava in consiglio comunale ventinove eletti. Il suo cammino si era arrestato a un passo dalla maggioranza assoluta.
Il sindaco e il suo partito
“Mi chiedo se Dozza è davvero uno stalinista come mi è stato detto a Roma” (Benedetti 1961). Con questa domanda Arrigo Benedetti, direttore de “L’Espresso”, nel novembre del 1961, si apprestava ad intervistare Giuseppe Dozza. La domanda gli resterà “nella penna”. Non oserà formulargliela, anche se – concludeva – “Dozza mi è sembrato uno stalinista a corrente alternata: un po’ sì e un po’ no”.
Era proprio così? Certo, Giuseppe Dozza poteva esibire un curriculum di tutto rispetto nell’albo d’onore dei rivoluzionari professionali. In questo senso può definirsi uno stalinista. Il potere personale e autoritario esercitato da Stalin non lo turba. Anzi quando qualche voce si solleverà nel partito italiano per rivendicare un’autonomia di giudizio rispetto alle scelte dell’Internazionale comunista, anche Dozza la condannerà senza appello. Qualche perplessità gli doveva sorgere di fronte al terrore staliniano. Le purghe “di un forte numero di buoni comunisti” (Dozza 1938), lo mette in sospetto e lo scrive su “Lo Stato operaio”, con un pizzico di audacia e di ingenuità. Quel timido accenno di libertà, espresso nel 1938, sarà esiziale per la sua carriera politica. Non sarà espulso dal partito, ma gli saranno tolti tutti gli incarichi direttivi e soltanto nel 1955, a due anni dalla morte di Stalin, il suo nome ricomparirà fra i membri della Direzione del Pci. Comunque il suo punto di riferimento politico è sempre stato Palmiro Togliatti. Dopo la “sbandata” bordighiana, soltanto “il migliore” era riconosciuto come l’autorità con la quale discutere, dissentire anche, ma mai ribellarsi. Così fu nella temperie del 1938 o nella fase del lento processo di destalinizzazione. Ma ciò che lo salva da un giudizio di piegata acquiescenza al modello autoritario sovietico è proprio la sua esperienza di amministratore. La scelta dei consigli tributari, delle consulte popolari e, più tardi dei quartieri, rappresenta un esempio per certi aspetti unico nel panorama italiano, e testimonia una volontà di introdurre nel sistema politico potenti dosi di protagonismo popolare. Questi rappresentano alcuni degli anticorpi che, nel tempo, diluiranno in Giuseppe Dozza le scorie dello stalinismo, insieme, indubbiamente, alle nuove strategie del Pci. “Democrazia progressiva” e “partito nuovo” venivano riletti da Dozza e dalla sua giunta in chiave bolognese e assumevano la dimensione “del fare”.
Ma ci sarà una fase nella quale questo sforzo interpretativo si esprimerà in modo originale e poco conosciuto. Siamo alla fine degli anni Cinquanta. Il XX Congresso del Pcus è ormai alle spalle, così come le novità dell’VIII Congresso del Pci, per certi versi dirompenti ma di fatto eluse. Nel gotha partner privilegiato. E all’interno di quel partito il sindaco si rivolge a Giovanni Merlin, docente di geografia economica all’Alma Mater, presidente della Camera di commercio, dell’Ente fiere e, dal 1956, consigliere comunale eletto nella lista Dc. Il prof. Merlini aveva scritto un saggio sul decollo industriale della regione, da progettare attraverso il metodo della “pianificazione”. Per il professore l’Emilia-Romagna era privilegiata. In essa convivevano le condizioni geografiche, le opportunità “demografiche” ed “etniche”, le tracce storiche. In più ora la natura le offriva una nuova risorsa energetica: il metano. La regione poteva svilupparsi con armonia senza gigantesche “metropoli dell’industria”. Gli enti locali dovevano impegnarsi, ma lo Stato doveva programmare lo sviluppo generale, come del resto stava facendo con lo Schema Vanoni per l’incremento della produzione e del reddito” (Merlini 1959).
Giuseppe Dozza è molto colpito dallo studio del prof. Merlini. Anzi in più occasioni sottolinea che: “lo sviluppo industriale di Bologna deve essere visto come un aspetto dello sviluppo industriale della regione emiliana e del Paese nel suo complesso”. Da questa convergenza alla proposta di patto politico il passo è breve. Lo lancia apertamente il sindaco in Consiglio comunale che chiama direttamente in causa la Democrazia cristiana e la sollecita. Come, quel partito, avrebbe potuto rifiutare un’offerta di collaborazione, studiata in sintonia con i progetti di un suo autorevole esponente?
Ma tutto il gruppo democristiano, compatto, respinse la proposta al mittente. Da quasi dodici mesi Giuseppe Dossetti non era più la loro guida, non per questo gli eletti della Dc avevano perso quella carica antagonista che li aveva contraddistinti nei due anni precedenti. Tutti riconobbero che nel programma della maggioranza c’erano delle novità importanti, ma rivendicarono al loro “Libro bianco” il primo grido d’allarme sulla precarietà dell’industria bolognese.
Il tempo per un dialogo a tutto campo non era ancora maturo, ma questa delusione non intralciò lo slancio dei “rinnovatori” bolognesi, impegnati anche in una battaglia interna. Un dibattito avvincente e non privo di asprezze era da tempo aperto nelle fila del Pci. La vecchia guardia aveva perso colpi, ma non era stata ancora sconfitta, anche se dal 1955 Giorgio Amendola era stato nominato responsabile della potente commissione organizzativa al posto di Pietro Secchia, da sempre oppositore della linea togliattiana. Anche nel Pci bolognese le due “correnti” erano agguerrite e si fronteggiavano. Giuseppe Dozza assume una posizione mediana. Da un lato non disconosce i “conservatori”; da un altro lato non abbandona i “rinnovatori”. Non rinnegherà mai il glorioso passato rivoluzionario, ma al tempo stesso farà suo il modello della democrazia parlamentare delineato dalla Costituzione. Ma proprio nel Pci di Bologna, nella prima metà degli anni Sessanta, si consumerà una rottura lacerante. Alcuni compagni mettevano in discussione il “centralismo democratico”, pensavano a un partito federato e guardavano a est con gli occhi di chi sa di appartenere a un altro mondo. Insomma c’era una voglia di eresia che, al contrario di quanto doveva succedere alla fine del decennio con lo strappo del “Manifesto”, ora colpiva da destra e guardava con interesse alle esperienze socialdemocratiche europee. Dozza, malato ormai da anni, condanna gli “eretici”, ma non abbandona quella che definirà “la parte sana del rinnovamento” e contribuirà a traghettare i suoi giovani protagonisti nelle nuove responsabilità. Del resto anche lo scenario nazionale stava mutando. L’esperienza del centro-sinistra mostrava la corda. Il Concilio vaticano II portava aria nuova fra i cattolici. E fra i comunisti si guardava con speranza al “socialismo dal volto umano”. C’è chi non ha amato la definizione di “modello emiliano”, ma tutto porta a pensare che questo esperimento si sia tentato, come nel caso del dialogo con i cattolici. Non per nulla uno degli ultimi gesti politici di Giuseppe Dozza sarà, nel dicembre 1965, il saluto a Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, che tornava dai lavori del Concilio. Dozza sarà alla stazione per porgergli l’omaggio dei bolognesi, con accanto il gonfalone, l’insegna più rappresentativa della comunità cittadina.
A lungo si è parlato di “mito-Dozza”. Il sindaco lo negava, ma il futuro doveva dargli torto. A Bologna si ricorda ancora di lui l’immagine del bolognese bonario, dell’amministratore incorruttibile, del politico umano e del paladino della tolleranza. E se il suo ricordo è stato capace di attraversare le generazioni significa che la sua figura, nell’immaginario collettivo, si è identificata con la rinascita democratica della città e del paese, con l’idea stessa di “comunità nuova”. Tutto sommato però non crediamo gli sarebbe dispiaciuto leggere il commento scritto da Enzo Biagi (1974) in occasione della sua morte: “È stato il simbolo di una tolleranza che, almeno alla mia terra, ha evitato tanti dolori”.
Luisa Lama, Dozza Giuseppe. Storia di un sindaco comunista, Senti le rane che cantano…