A Durango, come avrebbero fatto 20 giorni dopo a Guernica

Erano le 8 e 30 del mattino a Durango, nei Paesi Baschi spagnoli, quel 31 marzo del 1937. Era l’ora della messa e molti cittadini erano lì, nella chiesa del paese che contava circa diecimila abitanti. Si pregava nella chiesa di Durango, si pregava per una vittoria nella guerra civile che imperversava tra nazionalisti e repubblicani. Da quelle parti la scelta di campo era stata chiara. Il rispetto dei diritti delle autonomie e delle minoranze linguistiche non era esattamente una priorità di Franco e della Falange. I Paesi baschi supportavano la Repubblica. E lo avrebbero fatto fino alla fine.
Lo sapeva Franco e lo sapevano gli italiani ed i tedeschi loro alleati.
A Durango – come avrebbero fatto 20 giorni dopo a Guernica – dovevano mandare un messaggio. Un messaggio inviato col sangue degli abitanti del villaggio.
Le bombe caddero proprio durante quella messa. Morirono il prete ed il sacrestano, morirono 11 suore, morirono diversi civili. Fu solo il primo passaggio dei bombardieri italiani in un’operazione supervisionata da Galeazzo Ciano in persona. Partirono diversi bombardieri con 20 bombe da 50 chili ciascuna più diverse bombe incendiarie. Erano scortati da caccia che, non incontrando alcuna resistenza, ne approfittarono per mitragliare i civili.
Alla fine si conteranno tra i 250 ed i 300 morti, ed il villaggio subì danni gravissimi che lo segnarono per sempre.
Quando Durango cadde nelle mani dei nazionalisti, un mese dopo, le tracce del massacro furono nascoste. Sì imputò la morte nella chiesa al fronte popolare, notoriamente antiecclesiastico. I nomi dei piloti italiani sparirono, già di per sé “nascosti” dai nomi in codice utilizzati e dovuti al fatto che l’Italia non aveva mai dichiarato guerra alla Spagna. E la vicenda di Durango finì nel dimenticatoio, oscurata anche dalla strage avvenuta in seguito a Guernica e resa famosa dal dipinto di Picasso. Solo recentemente il bombardamento ha riacquistato notorietà in seguito alla decisione del sindaco di Durango di chiedere i danni di guerra all’Italia. Dei danni che, sicuramente, non ripagherebbero il villaggio dei morti subiti.
E chi fu responsabile di quella strage, sia i mandanti che gli esecutori, sono scomparsi da tempo. Nessuna responsabilità, insomma, né oggi né allora, come si capisce dal diario di uno degli aviatori che scrisse: «Sono un aviatore, non un criminale»

Cannibali e Re

Dal 27 al 29 di novembre 2006 si è tenuto a Madrid un importante congresso internazionale sulla guerra civile spagnola, organizzato dalla Sociedad estatal de Conmemoraciones culturales sotto la direzione scientifica di Santos Juliá, docente presso il dipartimento di Storia Sociale e del pensiero politico della Uned (Universidad nacional de Educación a distancia) <1.
La ricorrenza del settantesimo anniversario dello scoppio della guerra civile (1936-1939) e il forte sostegno istituzionale testimoniato dalla assidua partecipazione del ministro della Cultura, prof.ssa Mercedes Cabrera, hanno senza dubbio contribuito al successo del congresso sia in termini di partecipazione degli addetti ai lavori che in termini di presenza di pubblico. Particolarmente felice nella programmazione dei lavori è sembrato, infatti, l’inserimento di alcune sessioni aperte al pubblico tra le quali quelle serali presso il centralissimo teatro del Circulo de Bellas artes. C’era molta attesa, senza dubbio ripagata, per la conferenza inaugurale di Jorge Semprún Maura, già ministro della Cultura del governo di Felipe González tra il 1988 ed il 1991 <2. La fiera ma ragionata rivendicazione della causa repubblicana non ha ostacolato una riflessione critica sul gruppo dirigente comunista, su alcune scellerate decisioni durante la guerra civile oltre che sul complesso rapporto con l’Urss fino agli anni ’60. Rispetto a questo ultimo punto Semprún è parso più indulgente verso i sovietici che nei confronti dei suoi colleghi dirigenti, ritenuti i principali responsabili della assoluta mancanza di libertà e di discussione all’interno del movimento comunista.
Entrati subito nel vivo del congresso, le 38 tavole rotonde si sono articolate intorno a tre grandi macrogruppi tematici: Guerra, revolución, intervención extranjera; Economía, sociedad, cultura e Represiones, exilios, memoria; da segnalare la partecipazione di tantissimi giovani ricercatori, non solo spagnoli, a testimonianza della centralità della guerra civile come fenomeno storico sul quale è necessario continuare ad indagare. Diversi i relatori italiani tra cui il prof. Gabriele Ranzato dell’Università di Pisa, protagonista della polemica conferenza serale del primo giorno e la prof.ssa Giuliana di Febo dell’Università RomaTre in qualità di moderatrice della tavola rotonda Guerra y política (I). L’intervento di Ranzato verteva sulla centralità della paura della rivoluzione come sentimento diffuso nei ceti moderati alla vigilia delle elezioni del ’36; ad alcuni questa tesi è parsa sostanzialmente giustificazionista (dell’insurrezione militare) tanto da provocare una velenosa reprimenda del moderatore, prof. Antonio Elorza ed una brusca interruzione, in sede di replica di Ranzato, da parte del prof. Angel Viñas. Sinceramente commovente la conferenza
serale del 28 in cui è stato tributato un sentito omaggio dal ministro Cabrera agli ispanisti emeriti che hanno dedicato il loro percorso professionale allo studio della guerra civile; erano presenti autentici mostri sacri del calibro di Ronald Fraser, Gabriel Jackson, Edward Malefakis, Stanley G. Payne, Maryse Bertrand de Muñoz (quest’ultima storica della letteratura); Bartolomé Bennassar e Raymond Carr hanno invece inviato un messaggio non potendo partecipare per motivi di salute.
L’elemento che ha reso ancora più appassionanti gli interventi di questi illustri ispanisti è stata l’abilità con cui hanno mescolato aspetti della loro biografia professionale con autentiche stoccate polemiche e provocazioni inattese; Fraser ha puntato senza indugi l’indice contro la Chiesa cattolica mentre Malefakis ha invitato il Psoe a dimostrare la proprio superiorità democratica rispetto al Pp perdonando pubblicamente i crimini dei ribelli contro i repubblicani in un paradossale rovesciamento delle priorità (cosa non da poco se consideriamo che il Partido popular non è riuscito ancora a maturare un giudizio definitivo e critico sulla dittatura franchista); un’operazione del genere da parte di Zapatero avrebbe senza dubbio l’effetto di mettere la destra spagnola spalle al muro rispetto al rapporto ambiguo con il passato, ma viene da chiedersi se la transizione alla democrazia non sia stata, di per sé, già un atto di perdono e di riconciliazione notevole, soprattutto prendendo in considerazione la quasi nulla opera di epurazione a la assai tenue rivendicazione della memoria repubblicana.
Per quanto riguarda l’ultimo giorno dei lavori ci sono stati almeno due momenti di altissimo livello: la conferenza di mezza giornata su Represiones, Exilios, Memorias e quella conclusiva di Gabriel Jackson e di Santos Juliá. Nella prima Javier Sánchez Rodrigo, giovane professore dell’Università di Zaragoza, ha esposto i risultati delle sue ricerche a proposito della repressione attuata nei primi mesi in entrambe le retroguardie insistendo sulla necessità di non indugiare meramente sul dato quantitativo, tanto meno per fini di polemica politica (chi ha fatto più morti), ma riflettendo sulle condizioni che hanno reso possibile quel massacro (frammentazione del potere nel campo repubblicano) e sull’intensità della violenza (esecuzioni di massa come strategia di guerra da parte dei franchisti). Sia chiaro, “las violencias no fueron ni iguales ni proporcionales” dal momento che, se è vero che nei primi sei mesi si registrò, sia in campo nazionalista che repubblicano, il 70/80 per cento delle vittime civili di tutto il triennio, è anche vero che i ribelli uccisero molte più persone in uno spazio territoriale più ridotto (65mila civili ammazzati dai ribelli contro i 38mila vittime della violenza repubblicana). Stimolante e provocatoria l’esposizione di Enrique Ucelay-da Cal che ha rivendicato l’inesistenza di una autentica memoria collettiva dal momento che “la única memoria colectiva es el ritual mediado por la ideología”, affermando infine con tono perentorio che “España carece de lealtad sistémica y de cultura cívica. Lo que hay es una tregua”.
Sulla sessione finale bisogna dire che Jackson ha sorpreso tutti parlando a lungo del suo impegno civile in Amnesty international in favore dei diritti umani, con un evidente rimando polemico al regime di Franco, e della funzione tutto sommato progressiva del comunismo spagnolo ed europeo in generale. Al direttore scientifico del congresso è toccato poi l’onore di chiudere i lavori con una un’analisi puntuale delle modalità con cui le varie generazioni di spagnoli hanno gestito il recupero della memoria: dai primi inquietanti dubbi degli anni ’60, provocati dalla circolazione clandestina di opere edite all’estero che aprivano uno squarcio sulla vulgata ufficiale del regime, al determinarsi di quel consenso morale, tra figli dei vinti e figli dei vincitori, che ha reso possibile la transizione e proiettato il Paese verso un rapido recupero del ritardo economico, ma anche sociale e culturale accumulato nel quarantennio della dittatura; dalla rottura di quel consenso a causa dell’operazione revisionista negli anni ’90 da parte di alcuni pubblicisti molto accreditati presso gli ambienti politici della destra (Cesar Vidal, Ricardo de la Cerva) fino alla reazione vigorosa ed indignata delle associazioni dei parenti delle vittime del franchismo e di tutti coloro che sono impegnati nel recupero della memoria dei vinti; dall’attuale aspra contrapposizione politica che si riverbera in una netta divisione dell’opinione pubblica fino alla posizione della Chiesa, non solo ancora oggi piena di ambiguità e di resistenze a riconoscere gli errori del passato, ma per di più orientata a ribadire l’esistenza di una sola memoria, la propria, mettendo in discussione la quale si pregiudicherebbe la riconciliazione nazionale. Ne emerge, nelle parole del relatore, un quadro relativamente preoccupante di nuova dualità sociale e politica che sarebbe un errore sottovalutare ma che non deve impedire allo storico di proseguire nel suo impegno di ricerca rispondendo solo alla propria onestà intellettuale.
1 Santos Juliá (Ferrol, 1940) ha pubblicato vari saggi e monografie ed ha curato diverse opere collettanee. Tra i suoi lavori più noti: Historia de las dos Españas (2004) che gli è valso il Premio Nacional de Historia; El aprendizaje de la libertad, la cultura de la Transición (2000) con Juan Carlos Mariner; insieme a Giuliana di Febo ha pubblicato per Carocci El Franquismo (2005).
2 La vita di Jorge Semprún Maura (Madrid, 10 dicembre 1923) si intreccia ripetutamente con la guerra civile e la dittatura franchista; esule con la famiglia a soli 16 anni a Parigi, si laurea in filosofia presso la Sorbona. Partecipa attivamente alla Resistenza francese durante l’occupazione tedesca e nel 1943 viene rinchiuso a Buchenwald. Dal 1952 milita nel Partito comunista spagnolo arrivando dopo solo quattro anni a far parte del Comitato esecutivo; nel 1964 viene espulso per divergenze rispetto alla linea ufficiale. Da allora inizia la sua brillante carriera di intellettuale, scrittore e sceneggiatore. Tra la sua vasta bibliografia segnaliamo Le grand voyage (1963), di sapore marcatamente autobiografico; Veinte años y un día (2003), prima novella scritta in castigliano; L’Homme européen (2005), saggio europeista scritto insieme a Dominique de Villepin. Come sceneggiatore ha curato, fra gli altri, La confesión di Costa-Gavras (1970), Stavinsky di Alain Resnais (1974) e K di Alexandre Arcady (1997).
Gabriele De Giorgi, La guerra civil española, 1936-1939, Congresso internazionale, Madrid, 27-29 novembre 2006 in Storia e Futuro, Rivista di storia e storiografia, n. 13, febbraio 2007