Aldo Fabrizi, regista popolare

Aldo Fabrizi con Luigi Pavese e il giovane Carlo Delle Piane ne La famiglia Passaguai fa fortuna (1952) – Fonte: Wikipedia

Sarà per quel vecchio preconcetto che ha spinto spesso i critici e non solo a guardare con una certa diffidenza gli attori in generale che si mettono dietro la macchina da presa. Sarà perché quando poi si frequenta un cinema comico o comunque leggero e in ogni caso commerciale è come se non si avessero le carte in regola per dirigere un film. Sarà ancora perché per un’immagine stereotipata scolpita nell’immaginario il regista in qualche modo deve avere un physique du rôle. Nel caso di Aldo Fabrizi tutto ciò ha finito in qualche modo per penalizzare una serena valutazione a tutto campo del suo talento registico. Sono state anche citate e apprezzate negli anni le sue opere autoriali ma è mancato un equilibrato approccio globale ai film che ha diretto scindendo nettamente l’immagine popolare e indimenticabile dell’attore e quella di chi era dotato di una particolare sensibilità e un profondo sguardo morale che metteva in campo quando raccontava una storia, complice anche una certa pigrizia analitica alimentata dall’equivoco della presenza ingombrante in genere dell’attore quando è anche interprete dei film che dirige. E invece Fabrizi attore (e sceneggiatore) in tutte le sue opere da regista, un po’ come Clint Eastwood, è una presenza imprescindibile per veicolare il suo sguardo sul mondo e sugli uomini. Ora nel trentennale della scomparsa (è morto il 2 aprile 1990), ci ha pensato il Festival del Cinema Europeo di Lecce (31 ottobre- 7 novembre) a rendergli omaggio proponendo per la prima volta tutti insieme i suoi 9 film da regista (8 lungometraggi più un episodio) nell’ambito di un evento più complessivo che comprende anche una mostra fotografica sulla sua arte a cura della nipote Cielo Pessione, e il film Fabrizi & Fellini: lo strano incontro in presenza dell’autore Luca Verdone (in ottemperanza al decreto il festival si terrà online, con gli incontri in streaming e tutti i film on demand). La retrospettiva completa è l’occasione per valutare tutte le opere di Fabrizi a distanza ravvicinata e di ricomporle come tasselli di uno sguardo complessivo d’autore, lo sguardo più discreto e meno conosciuto di una delle figure più carismatiche della cultura e del cinema italiani. Insomma l’Aldo Fabrizi attore popolare, amato, citato, celebrato non deve pesare eccessivamente nella (ri)scoperta del Fabrizi regista o almeno non deve interferire nella visione. Non c’è introduzione migliore per accostarsi a Fabrizi regista dell’incipit del bellissimo testo scritto per il catalogo del Festival dalla nipote Cielo Pessione: «Dell’attore aveva ben poco. Non era vanesio, non raccontava aneddoti, non si specchiava negli occhi degli altri né si compiaceva degli sguardi adulatori o curiosi. Era sempre stato un autore invece, un poeta, uno scrittore ancora prima di essere attore e continuò ad esserlo sempre, durante tutta la sua carriera. Scriveva poesie fin da ragazzetto, poi cominciò a scrivere canzoni e poi i primi monologhi teatrali, le commedie, i soggetti e le sceneggiature. E nel 1948 si mise quindi in testa di fare anche il regista. E nel giro di 9 anni firmò regia, sceneggiatura e spesso anche soggetto e produzione di ben 9 film di cui fu anche l’interprete. Una produzione prolifica, variegata nei generi e ambiziosa che gli procurò più delusioni e grattacapi che soddisfazioni e guadagni». E allora i 9 film diretti dal 1948 al 1958 comunicano lo spirito e l’andamento di un racconto deamicisiano ma il buon senso popolaresco e a fondo realistico senza retorica dell’esordio Emigrantes; la forza della verità, la leggerezza poetica e il rigore comico di Benvenuto reverendo!; la capacità con un’esile trama di innestare invenzioni e trovate da slapstick con gag ripetute su situazioni da avanspettacolo o da teatro boulevardier di La famiglia Passaguai, che sarà presentato a Lecce in una versione restaurata a cura della Cineteca di Bologna, e La famiglia Passaguai fa fortuna; la stravagante gestione di un personaggio insolito per l’epoca (un padre di famiglia che diventa madre) con tutte le esilaranti situazioni, gli equivoci madornali, gli avvenimenti più impensati che un tale capovolgimento di personalità può provocare di Papà diventa mamma; la misura e l’abilità nel raccontare la trasformazione di un campagnolo in cerca d’avventure con una giovane vedova in un uomo che si fa carico del dramma della donna con un bambino malato di Una di quelle; il delizioso bozzetto di Marsina stretta, quarto ed ultimo degli episodi tratti da novelle pirandelliane di Questa è la vita; la maturità e il gusto nella descrizione post-neorealista della vicenda di un conduttore di tram di Hanno rubato un tram; la carica umana per raccontare la sensibilità e il sogno di un maestro elementare rimasto vedovo de Il maestro. Il documentario di Luca Verdone del 2004 ricostruisce lo storico incontro tra Fellini e Fabrizi il 3 giugno del 1939 al cinema Corso di Roma e racconta la loro amicizia fino alla rottura del 1969, quando Fellini assume per il ruolo di Trimalcione del film Fellini Satyricon, il «Moro», gestore del ristorante omonimo a Fontana di Trevi, rimangiandosi la parola data a Fabrizi che avrebbe dovuto interpretare il personaggio. Fu Renato Nicolini a riscoprire Aldo Fabrizi come regista. Quando nel 1985 lo chiamò per partecipare alla Rassegna di Massenzio con il suo primo film, Emigrantes, lui accettò con un entusiasmo che sorprese tutti. Così le pizze scesero dall’armadio, vennero spolverate e da quel momento si poterono rivedere ed apprezzare i suoi film. Così concludeva il suo ricordo (riportato dalla Pessione nel suo testo) di quell’esperienza Nicolini nel 2002: «La mia estate gli era piaciuta, mi invitò a pranzo. Mi portò in una trattoria dove andava sempre, vicino a piazza Bologna. Nonostante fosse luglio, ed il caldo quasi soffocante, mangiammo al chiuso; e, dopo il piatto di fettuccine, Fabrizi insistette perché «mi dessi energia» mangiando anche una bistecca. Mi sembrava di sentire le raccomandazioni di mia madre e di mio padre. La mia tensione si sciolse e per la prima volta mi sembrò di essere di nuovo a casa.» […] Alberto Castellano, Il Manifesto, 31.10.2020