Aldrovandi aveva battuto la Valsassina e la bassa Valtellina, senza una meta precisa, fermandosi nelle case e nelle osterie, parlando con la gente, cercando contatti coi partigiani locali

Occorre tener presente che già dopo l’otto settembre gli uomini della bassa Valtellina vanno in Svizzera: ne fa fede un documento datato 18 luglio 1944 in cui il comando del fronte Sud della 40a Matteotti fa notare che due abitanti di Morbegno sono rientrati in Italia. Sono i fratelli Zugnoni (Agol diventerà un comandante di distaccamento della 55a Rosselli), i quali si lamentano che, rientrati probabilmente dal passo del Muretto (Val Malenco): “…non hanno trovato nessuna delle guide e delle basi loro indicate in Svizzera…”. Per questo il gruppo che arriva in Italia si scioglie. Al (Vando Aldrovandi) e Ges (Giosuè Casati), chiedono che si ponga rimedio.
Gabriele Fontana, L’organizzazione dei partigiani nei campi d’internamento svizzeri attraverso i documenti del fondo Mario Ferro, IscComo, Istituto di Storia Contemporanea di Como “Pier A. Perretta”

Durante la Resistenza, la Valtellina si trova in una situazione particolare: in primo luogo, era stata individuata dai nazisti come via di fuga collaterale a quella dell’Alto Adige, nonché come territorio di estrema resistenza contro gli alleati; in secondo luogo, vi erano localizzate varie centrali idroelettriche di diversa capacità, che contribuivano alla fornitura di energia per le città e le fabbriche della Lombardia.
Nella bassa Valtellina le prime presenze partigiane si ritrovano subito dopo l’8 settembre, ad opera di Vando Aldrovandi, “Al”, e Luciano Raimondi: sono formazioni di origine comunista, che si arricchiscono subito di operai che provengono dalle città. La loro lotta è molto dura, con scontri quasi quotidiani combattuti con poche armi e scarso equipaggiamento. Sono organizzate nella I e II Divisione Garibaldi.
In alta valle si installano invece delle formazioni autonome, su basi apolitiche, formate da uomini del luogo, ex alpini e valligiani, fedeli al governo monarchico del Sud e preoccupati soprattutto di difendere le centrali elettriche e le grandi vie di comunicazione. Anche queste formazioni hanno vita dura, ma più per l’isolamento e le difficoltà dell’alta quota, in termini di viveri e materiali. A difesa del patrimonio idroelettrico si forma nella primavera del 1944 anche una Divisione di Giustizia e Libertà, la 1° Divisione Alpina, che ottiene dagli alleati un aiuto determinante attraverso lanci quasi quotidiani nella zona delle dighe e dei bacini idroelettrici.
Redazione, Buglio in Monte (1° comune libero della Valtellina), ANPI Sondrio, 1 dicembre 2016

Su “Il Popolo Valtellinese” del 15 gennaio 1944 <141 leggiamo:
“Il Comando della Guardia Repubblicana era venuto a conoscenza che in una baita in montagna, sita nei pressi di Sacco di Cosio, erano rifugiati alcuni sbandati i quali precedentemente avevano operato atti di sabotaggio e compiuto rapine ai danni della popolazione dei dintorni. Martedì mattina elementi dell’ufficio politico, affiancati da militi e carabinieri, effettuavano una battuta nella zona, riuscendo a scontrarsi con i delinquenti, i quali, armati di fucili, bombe a mano e persino di una mitragliatrice pesante, aprivano un nutrito fuoco. Dopo breve tempo, però, grazie alla pronta reazione della GNR, essi si davano alla fuga, abbandonando tutte le armi. Uno degli sbandati, Amos Pezzini, residente a Rasura, di anni 20, veniva raggiunto e arrestato. Si è ora sulle tracce degli altri; sei sbandati che non tarderanno molto ad essere acciuffati e consegnati alla giustizia, la quale agirà indubbiamente, nei loro confronti, con durezza e inflessibilità”.
Vediamo subito innanzitutto la diversità con la situazione precedente di Mandello: mentre lì si trattava di uno scontro quasi casuale, in questo caso ci si spiega che era stata effettuata una “battuta” con elementi sia della GNR che dei carabinieri che dei militi, che della questura; si trattava in pratica di un vero e proprio rastrellamento, perché è chiaro che l’unione delle forze delle diverse “armi” si verificava solo per necessità di numero. Non disponendo di cifre precise per i fascisti, si può ipotizzare verosimilmente un numero minimo di cento uomini impegnati nel rastrellamento. E perché questo rastrellamento? Perché, dice l’articolista, si era venuti a conoscenza di atti di sabotaggio e di rapine alle popolazioni. Si trattava cioè di una formazione partigiana attiva, che programmava ed eseguiva azioni contro le postazioni nazifasciste, e che aveva iniziato quella linea di condotta con le popolazioni contadine che si basava da un lato sulla difesa della consegna agli ammassi, dall’altro sulla necessità di sostentarsi, emettendo più o meno riconosciuti buoni e ricevute di requisizione. Era ovvio che perciò questi buoni fossero ritenuti una rapina dalle autorità fasciste, e non è da escludere certamente che il rastrellamento si fosse verificato per la constatata impossibilità di farsi consegnare i generi alimentari [per versarli agli ammassi del regime] a causa della presenza intimidatrice dei partigiani.
Di che formazione si trattasse non possono esserci molti dubbi; certamente era un gruppo o distaccamento che si rifaceva a quelle formazioni della Val Gerola che avevamo visto far capo a Vinci [Bill] e a Vaninetti [Pippo]. Infatti il catturato, Amos Pezzini, era di Rasura, il luogo cioè dove il gruppo che faceva capo a Vaninetti aveva stabilito il suo quartier generale. Inoltre il luogo dello scontro, allo sbocco della Val Gerola, era proprio nel cuore dell’area di attività delle formazioni suaccennate. Anche il tipo di armamento, “una mitragliatrice pesante”, ci chiarisce che si trattava proprio di elementi del disperso V Alpini che avevano trattenuto con sé un equipaggiamento impossibile da trovare in qualsiasi altro luogo. Notiamo inoltre un altro dettaglio: sono i partigiani ad aggredire, quasi a tendere un’imboscata alle truppe fasciste, le quali, infatti, solo “dopo breve tempo aprivano un nutrito fuoco”. Anche questo ci conferma le nostre ipotesi che si trattasse di una formazione agguerrita e tatticamente all’altezza della lotta partigiana.
Resta da dire che tutto il rastrellamento e lo spiegamento di forze non aveva portato che un prigioniero, per di più locale, così che i fascisti non avrebbero potuto rinfocolare quella campagna stampa contro gli elementi estranei della valle che venivano a turbare la quiete valtellinese.
Un’ultima constatazione infine, sul breve “pezzo” giornalistico: quell’esortazione finale alla giustizia, quasi un monito, mostra tutta una sotterranea opera di costrizione nei confronti della magistratura; non esente da questo doveva essere quel processo che si doveva celebrare pochi giorni dopo contro i famosi firmatari di quel documento sondriese dell’8 settembre. Il verdetto condannò tutti i firmatari e chi aveva richiesto alla tipografia di Mevio Washington la stampa del foglio sovversivo.
Già di tipo diverso le notizie che riguardavano, in varia e diversissime misura, zone di dissenso nella media ed alta valle.
Il 22 gennaio del 1944, sempre su “Il Popolo Valtellinese” <142 si legge:
“Il Comando Provinciale Militare ha deferito al tribunale militare di Guerra otto giovani di Albosaggia e di Piateda della classe 1925 renitenti alla leva e arrestati dalla polizia in un locale dove si ballava dopo il coprifuoco. Gli arrestati sono tutti di Albosaggia.”
E lo stesso giorno, sempre sul foglio locale <143 troviamo:
“Il capo della Provincia su proposta del Comando Provinciale Militare e della Federazione dei Fasci Repubblicani, ha revocato i provvedimenti presi a carico del prof. Pansera di Sondrio e di Petrogalli di Tirano, in quanto i loro figli, renitenti alla leva, si sono presentati alle armi”.
Questi due brani del giornale ci indicano una certa diffusione della renitenza alla leva [se pensiamo che in un solo locale da ballo di un paese abbiamo un gruppo di giovani tutti renitenti alla leva, ci rendiamo subito conto della dimensione del fenomeno], anche se lasciano trasparire, come dimostra il secondo articolo citato, l’operante e continua possibilità di “revoca dei provvedimenti” presi nei confronti delle famiglie degli sbandati. Nella testimonianza di Giulio Spini confermati <144.
[NOTE]
141 Cfr. Scontro tra guardie repubblicane e un gruppo di “sbandati”.
142 Cfr. art. Giustizia fascista. L’arresto di un gruppo di incoscienti.
143 Cfr. art. Revoca di provvedimenti.
144 Cfr. in Documenti della Resistenza Valtellinese, cit.
Redazione, La Resistenza nel Lecchese e nella Valtellina (da una ricerca coordinata dal prof. Franco Catalano negli anni 1960-1970 – elaborazione di Gabriele Fontana e Eugenio Pirovano), Associazione Culturale Banlieu

Insufficienza del movimento partigiano e urgenza di mobilitarsi sono dunque le linee guida dei massimi comandi garibaldini lombardi nella tarda primavera del 1944. Dai maggiori centri della Lombardia i veterani dell’esercito popolare con la stella rossa furono inviati in provincia col preciso ordine di prendere contatto con le bande partigiane disperse sulle montagne e di inquadrarle in brigate e divisioni garibaldine.
Vando Aldrovandi, ex ufficiale di complemento, in contatto a Milano col circolo antifascista di Antonio Banfi, vicino alle posizioni comuniste anche se non iscritto al partito, venne mandato dal comando regionale nel lecchese. Con lui era una giovane donna, Maria Luisa Manfredi, che egli aveva conosciuto a Milano in casa Banfi e che aveva già operato come partigiana in provincia di Bergamo, col nome di Manuela.
“Il compito di Al è di organizzare e coordinare le bande di tutta la zona per conto del comando militare regionale: Al provvede a portare soldi, direttive, organizza l’arrivo in montagna dei nuovi partigiani” <4. Viaggiando in bicicletta o in treno, Aldrovandi aveva battuto la Valsassina e la bassa Valtellina, senza una meta precisa, fermandosi nelle case e nelle osterie, parlando con la gente, cercando contatti coi partigiani locali. Portava le direttive del CLN di Milano e i soldi della Falck, ottenuti tramite l’avvocato Sternai, legale della famiglia Falck, anche lui del gruppo milanese di Banfi <5.
Nelle sue peregrinazioni, Al era giunto sino a Morbegno, dove aveva preso contatto col CLN locale, ma la sua presenza in Valtellina era stata sporadica. A fine primavera del ’44 la Valle dell’Adda mancava ancora di una guida che organizzasse i ribelli rifugiatisi in montagna.
Fu Luisa Manfredi ad indicare ad Al il nome dell’uomo che avrebbe diretto il movimento partigiano in bassa Valtellina: Dionisio Gambaruto, nomi di battaglia Diego e Nicola <6. Gambaruto, la Manuela lo conosceva bene, anche se non lo aveva mai incontrato di persona. Col fratello di Luisa, Gabriele, ancor prima della caduta del fascismo aveva organizzato una cellula antifascista nella caserma di Anzio dove stava frequentando un corso di contraerea. Scoperto, fu arrestato, ma riuscì ad evadere dal carcere. Dopo l’8 settembre, trovandosi nel Varesotto, guidò alcuni uomini al confine svizzero per sbarrare la strada ai soldati in fuga. Presso Cantello, organizzò un gruppo di trenta persone, che si volatilizzò in una notte. Ma Nicola non era tipo da scoraggiarsi. Raggiunse Varese e da lì Milano, dove si arruolò nei Gap. Fece alcune azioni con la “squadra recuperi”, finché una spiata non lo costrinse di nuovo a spostarsi a Torino. In Piemonte non rimase molto: il tempo di riprendere i contatti col vecchio amico Gabriele Manfredi e poi il ritorno a Milano. A marzo, Pietro Vergani, comandante generale delle brigate Garibaldi della Lombardia, gli ordinò di dirigersi verso Lecco. Nicola incontrò Manuela a Bellano e Al a Verginate, in Valsassina. Il comandante Aldrovandi gli disse di andare in Valtellina e gli assegnò la zona che da Colico arriva sino a Sondrio. Un giorno di fine aprile, Nicola scese alla stazione di S. Pietro Berbenno, a pochi chilometri dal capoluogo valtellinese <7.
Ad attendere Nicola c’era un giovanotto milanese, Ambrogio Gonfalonieri, detto il Biondo, che lo accompagnò sino al Gaggio di Mareggia, sulle alpi Retiche tra Morbegno e Sondrio. Ciò che Nicola vide una volta giunto a destinazione dovette ricordargli il gruppetto di partigiani che al confine svizzero gli si era dissolto fra le mani, nel giro di una notte: al Gaggio c’erano quindici uomini raminghi armati di due pistole “Glisenti” e tre vecchi fucili “91”, che alla prima azione a Pedemonte si diedero quasi tutti alla fuga. Nicola, però, sapeva il fatto suo: rimpannucciati i ranghi con uomini provenienti da Lecco e da Milano, riuscì ad impossessarsi di una mitragliatrice e costituì una banda sullo Scermedone. In poco tempo fissò i turni di guardia, organizzò l’approvvigionamento di viveri e realizzò dei depositi <8.
Mentre Nicola era impegnato sullo Scermedone, la federazione milanese del Partito comunista inviò in Valtellina due compagni col compito di ispezionare alcune zone montane. Mario Abbiezzi (Ario e poi Maio) e Domenico Tomat (Silvio) giunsero in bassa valle nel maggio del 1944. Erano stati gappisti a Milano, al comando della 1° brigata Garibaldi, ma ragioni di sicurezza li avevano convinti a lasciare il capoluogo. Ario e Silvio trovarono subito il gruppettino di Nicola e dopo dodici giorni di ricerca e una bella camminata di dieci ore in zona Premana – Valsassina – incontrarono un altro gruppo di partigiani, una trentina di uomini agli ordini del comandante comunista Spartaco Cavallini. Spartaco era un sottoposto, ma non troppo, di Aldrovandi e nel marzo del ’44 aveva fondato il distaccamento “Carlo Marx” <9. Dai tempi di Milano era ben conosciuto dai due ispettori del Partito comunista, che non si meravigliarono del suo carattere anarcoide e accentratore. Ario, Silvio, Nicola e Al furono dunque i primi dirigenti garibaldini del movimento partigiano da Bellano a Sondrio.
[NOTE]
4 Silvio Puccio, Una Resistenza. Antifascismo e lotta di liberazione a Lecco e nel lecchese 1922-1945, Milano, Nuova Europa, 1965, pag. 76.
5 Cfr Marco Fini e Franco Giannantoni, La Resistenza più lunga. Lotta partigiana e difesa degli impianti idroelettrici in Valtellina: 1943-1945, Milano, Sugarco, 1984, vol I, pagg 70-72.
6 Cfr Marco Fini e Franco Giannantoni, op. cit., vol II, pag 75.
7 Cfr Ivi, vol I pagg 93-94 e vol II pag. 55 e 75.
8 Cfr Ivi, vol. I, pag. 94 e vol. II pag. 55.
9 Cfr Silvio Puccio, op. cit., pagg 71 e segg
Gian Paolo Ghirardini, Società e Resistenza in Valtellina, Tesi di laurea, Università degli Studi di Bologna, Anno accademico 2007/2008

Dionisio Gambaruto, Diego e poi Nicola. Astigiano, militante del Partito Comunista, fu uno degli organizzatori delle prime formazioni armate in bassa Valtellina. Espatriò in Svizzera con la maggioranza della 40a brg. Garibaldi G. Matteotti il 1° dicembre 1944 per poi rientrare nell’aprile del 1945.
Domenico Tomat, era nato a Venzone (Ud), il 28 agosto 1903. Comunista, ex alpino, di mestiere muratore, incarcerato ripetutamente, nel 1924 espatria in Francia, frequentando attivamente gli ambienti degli emigrati italiani. Nell’ottobre 1936 è in Spagna nelle brigate Garibaldi. Verso l’estate del 1944 torna in Italia dove fa parte, in bassa Valtellina, della 40a brigata Garibaldi Matteotti come commissario politico.
Gabriele Fontana e Massimo Fumagalli, Il montanaro prende il fucile. Dall’antifascismo alla Resistenza armata in Valtellina, Associazione Culturale Banlieu

Uno scorcio di Val Chiavenna – Foto: Simone Perego

I primi organizzatori (a vari livelli) appartenevano alla borghesia locale (Ponti, Fojanini, Buzzi, ecc.) ma ben presto il ruolo di maggior prestigio lo assunse il comandante dei carabinieri di Sondrio Ten. Colonnello Edoardo Alessi.
L’azione impostata consistette sostanzialmente nel preparare le strutture di una «futura» resistenza. In questo ruolo furono abilissimi, tanto che recuperarono alla loro organizzazione tutti gli sbandati, saliti sulle montagne dell’alta valle dopo l’8 settembre, che si stavano organizzando autonomamente in gruppi combattenti. L’azione capillare ed efficace svolta quasi unicamente verso l’alta valle trova le sue ragioni nel fatto preciso e conseguente della presenza delle centrali. Per la quasi totalità queste erano infatti ubicate in questa zona a parte una a Talamona e quella di Campovico, vicino a Morbegno, che, come vedremo in seguito, fu appunto oggetto di una azione di partigiani di quella zona che suscitò aspre polemiche, e non solo polemiche, nei confronti dei partecipanti all’azione. E’ interessante rilevare come in quest’opera di organizzazione, oltre naturalmente a quello di Alessi, compaia per la prima volta, con un ruolo di primo piano, il nome di un certo capitano degli alpini destinato a fare in seguito molta strada, tanto da ritrovarcelo ora generale in pensione, vice presidente dell’ANA valtellinese e costantemente nominato in rapporto alle manifestazioni dei gruppi della «strategia della tensione» e della maggioranza silenziosa: Giuseppe Motta. Questi primi uomini formarono il primo CLN per la zona e strinsero in breve stretti rapporti con il CLN della Valchiavenna.
Come si è detto, preoccupazione principale e unica di questi uomini fu l’organizzazione di una resistenza «futura» ed è appunto in una azione di questo tipo che venne incastrato il col. Alessi. Mentre stava facendo trasportare in montagna, dalla caserma dei carabinieri, viveri, armi e munizioni venne scoperto e successivamente processato e condannato a 30 anni di reclusione per cui fu costretto a fuggire in Svizzera. La cronaca della Resistenza valtellinese fa registrare a questo punto unicamente I’approfondimento ed il perfezionamento di un lavoro di organizzazione che non si esprime mai a livello di azione militare, almeno fino ad un certo punto. Fino al punto cioé in cui nella zona di Ardenno entra in azione (ai primi di giugno) un certo Nicola, un piemontese arrivato in zona gli ultimi giorni di aprile e che in pochissimo tempo era riuscito ad organizzare un piccolo nucleo di uomini e che immediatamente aveva dato una impronta diversa alla lotta, che per forza di cose doveva essere violenta. Viene assaltato un treno ed ucciso un capitano della milizia. L’azione permise anche di prelevare dal treno viveri, armi e munizioni.
(a cura dei) Collettivi Valtellinesi, Il nuovo fascismo in Valtellina, Collettivi Valtellinesi, qui ripreso da Archivio68Sondrio

Constatare il fatto che Parri fosse il presidente del CLN dell’Alta Italia mentre era funzionario della Edison, e che nel suo ufficio si svolgevano riunioni clandestine della Resistenza, non deve perciò essere un fatto oggettivo e determinante [o i finanziamenti della Falck alle formazioni del lecchese e della Bassa Valtellina], ma va inserito nella realtà di lotta che questo determinò, cioè una lotta non opportunistica, aperta, decisa, intransigente contro il nazifascismo. E non è equiparabile ad altri finanziamenti che portarono all’attendismo se non al tradimento della Resistenza; in sostanza: solo chi voleva farsi strumentalizzare è stato strumentalizzato dalla politica degli industriali.
[…] Ritornando più specificamente all’inverno 1943-1944 vediamo perciò che se inizia a determinarsi all’interno del quadro generale della Resistenza questo larvato e discontinuo appoggio alle formazioni territoriali da parte di noti esponenti della grande borghesia, tuttavia altri erano i problemi più impellenti per l’organizzazione reale e concreta della lotta.
Avevamo visto che la situazione, come si era chiusa con il dicembre 1943, aveva lasciato dei gruppi sparsi in alcuni punti del lecchese e della Bassa Valtellina. In particolare il centro di Resistenza più vivo si era creato nelle valli tra la Bassa Valtellina e la Valsassina, soprattutto in Val Gerola e Val Varrone.
Infatti, era qui che si era diretta l’azione militare di alcuni limitati rastrellamenti, soprattutto contro quella che, nei documenti Morandi, era denominata banda “Spartaco”. La banda “Spartaco” era in realtà il distaccamento “Carlo Marx”, la prima vera formazione di montagna che aveva iniziato la guerra partigiana secondo gli schemi “garibaldini” e cioè secondo le direttive per la lotta armata delineata dal partito comunista. Questo non significava che fosse una formazione “comunista” ma, proprio con il distaccamento “Carlo Marx”, si inizia a comprendere come si dovesse intendere la resistenza: unità antifascista concreta di tutti quelli che volevano impugnare di fatto le armi e battersi. Il nucleo di base del distaccamento “Carlo Marx” era stato formato, come avevamo già visto, da Spartaco Cavallini e da un gruppo di gappisti di Sesto S. Giovanni e Milano, per i quali la permanenza nelle formazioni partigiane di città era diventata troppo rischiosa. All’interno delle formazioni che facevano capo a Spartaco Cavallini (tra dicembre 1943 e febbraio 1944, circa una quarantina di persone) c’erano gappisti di Milano e Sesto, qualche indigeno e infine un gruppo di russi che aveva preferito non passare in Svizzera dopo il rastrellamento che li aveva precedentemente sorpresi al Pizzo d’Erna. Il loro inverno trascorre a quota 2000 tra la Val Varrone e Biandino, al rifugio Pio XI e alla capanna Grassi, con azioni improvvise per approvvigionarsi e con legami più o meno continui sia con elementi di Premana e Introbio o Morbegno, sia con Aldovrandi e Raimondi che mantengono legami più ampi, collegando la zona da Lecco alla Val Chiavenna. É chiaro che si trattava di incontri assolutamente clandestini nelle osterie dei paesi o dei centri, di poche parole caute per non trovarsi invischiati con qualche delatore o pauroso, ma questo esistere di formazioni armate in montagna e questo persistere di contatti tra le varie zone e centri e tra questi e le formazioni, è di importanza decisiva per la continuità del movimento. In Val Gerola, nella Bassa Valtellina, ci sono dei gruppi sparsi organizzati dal capitano del V Alpini del Battaglione Morbegno. Alfonso Vinci, che dal soprannome iniziale di Effe diverrà poi ben più conosciuto come Bill, qualche gruppo di sbandati nella zona di Talamona, un’altra piccola formazione di 6 uomini si andava intanto formando nella zona sopra Buglio e questo nucleo era tenuto assieme da Confalonieri (Ambrogio); mentre più direttamente vicina al già costituito CLN di Morbegno (diretto da Mazzocchi del PCI) c’è una piccola formazione che aveva il responsabile militare in “Sandro”. Nella relazione della 55a Brigata “Rosselli” troviamo più specificatamente delineati alcuni caratteri di queste prime formazioni di montagna […]
Redazione, La Resistenza nel Lecchese e nella Valtellina op. cit.