Allontanare il marchio del tradimento e della sconfitta per mantenere il trono

Parlando l’11 settembre 1943 dai microfoni di Radio Bari, polemicamente ribattezzata «radio vergogna» dai tedeschi e dai fascisti di Salò <37, Vittorio Emanuele III spiegava agli italiani di aver «autorizzato la richiesta di armistizio» agli Alleati onde evitare «più gravi sofferenze e maggiori sacrifici» al paese e li informava di essersi trasferito col governo e le autorità militari «in altro punto del sacro e libero suolo nazionale» per salvare la capitale e continuare ad «assolvere» i suoi «doveri di Re».
A poche ore di distanza, dai medesimi microfoni di Radio Bari, anche il maresciallo Badoglio rivolgeva un messaggio al popolo italiano. Il capo del governo informava gli ascoltatori che l’Italia, costretta alla resa dalla «soverchiante potenza degli Alleati», era obbligata adesso a subire l’occupazione armata della Germania, intenzionata a continuare la guerra «sul nostro suolo» per «tenerla lontana dal suo territorio» <38. «La prepotenza tedesca – egli affermava – ci toglie perfino la libertà di dichiararci vinti». Badoglio invitava dunque gli italiani a «reagire con energia e fermezza» contro l’occupante, che imponeva al paese nuovi «orrori» e nuove «rovine». «I Germanici – egli sottolineava -, dopo essere stati per tre anni degli alleati che hanno condotto la guerra con criteri egoistici e nel loro esclusivo interesse, sono tornati ad essere apertamente nemici, come in passato, del popolo italiano».
Già in questo primo intervento, sollecitato espressamente da un telegramma del 10 settembre del comandante supremo alleato Eisenhower <39, Badoglio ricorreva a quella «carta antitedesca» ampiamente utilizzata dalla propaganda alleata, facendo leva con indubbia abilità su alcuni argomenti di comprovata efficacia, incentrati sulla denuncia della guerra contraria agli interessi italiani, condotta a vantaggio della Germania, raffigurata sotto il cliché del «falso alleato» rivelatosi l’antagonista di sempre. In questo modo venivano taciute le gravi responsabilità della monarchia e delle autorità militari per la guerra d’aggressione scatenata dall’Asse (comprese quelle personali di Badoglio capo di stato maggiore delle forze armate dal maggio 1925 al dicembre 1940 <40), veniva riversata sui tedeschi l’accusa di tradimento e promosso l’allineamento al campo alleato nello sforzo comune contro la Germania nazista.
Pochi giorni dopo, Badoglio dimostrava di saper sfruttare appieno le risorse offerte dal repertorio propagandistico degli Alleati, adattandolo con prontezza e spregiudicatezza alle molteplici esigenze politiche maturate dopo l’8 settembre. Fra queste, a spiccare era adesso in primo luogo la necessità di contrastare la propaganda che dal Reich diffondeva il risorto fascismo, determinato a riconquistare il monopolio della rappresentanza politica.
La posta in gioco principale per la monarchia diventava così la salvaguardia della legittimità istituzionale e, a ciò connessa, la capacità di mantenere saldo il vincolo di fedeltà delle forze armate e dell’apparato burocratico, insidiato e conteso dall’appello alla defezione lanciato da un nuovo centro di potere nazionale.
Il secondo messaggio di Badoglio, diramato il 15 settembre 1943, replicava infatti direttamente all’annuncio col quale il figlio del duce, Vittorio Mussolini, dalla sede del quartier generale del Führer a Rastenburg aveva informato gli italiani della ricostituzione di un governo fascista <41. Badoglio esordiva rinnovando la condanna del comportamento della Germania: non solo essa aveva «imposto» all’Italia di scendere in guerra al suo fianco trascinandola in un gorgo di terribili sofferenze aggravate dalle «angherie e dalle vessazioni» quotidiane dei poco camerateschi soldati germanici, ma, una volta che – impossibilitata a continuare la lotta – l’Italia si era ritirata dal conflitto, l’ex alleato non aveva esitato a perpetrare «un premeditato atto di aggressione contro di noi […] trattandoci di punto in bianco come nemici». Le truppe italiane erano state attaccate contemporaneamente ovunque si trovassero, città porti ed aeroporti erano stati occupati con la forza, i beni dei cittadini depredati così come i depositi militari, navi e piroscafi italiani bombardati dall’aviazione germanica. Questa denuncia del comportamento tedesco dopo l’8 settembre valeva evidentemente, nelle intenzioni di Badoglio, a controbattere le accuse di tradimento mosse da Berlino ma anche a sviare l’attenzione dalle responsabilità del governo monarchico e dei comandi militari per aver lasciato senza ordini precisi le unità delle forze armate, stanziate sia in Italia che all’estero, dalla Francia meridionale all’Egeo. Atterriti dalle possibili reazioni tedesche e preoccupati innanzitutto di salvaguardare la propria incolumità personale, il re, Badoglio e i vertici militari avevano mantenuto il massimo riserbo sugli accordi presi con gli Alleati diramando solo disposizioni confuse e tardive alle truppe <42. Impreparate anche psicologicamente al cambio delle alleanze, esse all’annuncio inatteso dell’armistizio si erano inevitabilmente sbandate arrendendosi in massa ai tedeschi, risoluti viceversa nell’attuare piani dettagliati da tempo preparati per il disarmo e la cattura dei reparti italiani, e pronti a sterminare senza pietà chi avesse tentato di opporsi. Una tragedia che proprio in quei giorni si manifestava in tutta la sua drammaticità con centinaia di migliaia di soldati fatti prigionieri <43 e numerose vittime fra coloro che avevano tentato di reagire, caduti in combattimento o passati per le armi dopo la resa, in attuazione di «ordini criminosi» ispirati alla vendetta voluti espressamente dal Führer <44.
Se dunque subdola e canagliesca doveva essere giudicata la condotta del Terzo Reich, ancor più esecrabile, per Badoglio, andava considerato il comportamento di «taluni italiani», «i capoccia del disciolto partito fascista e i loro accoliti», i quali avevano aiutato i tedeschi nella loro azione deplorevole. «Costoro – affermava con sdegno il maresciallo -, non paghi di aver gettato l’Italia in una situazione catastrofica, hanno ora costituito un governo fantoccio che ha il coraggio di voler rappresentare il cuore e l’onore d’Italia, mentre non rappresenta che un’esigua minoranza asservita alla Germania». Il popolo italiano non doveva in alcun modo prestare ascolto alle autorità germaniche e ai loro «scherani», che affermavano di volere «una pace ‘con onore’ e non una ‘resa senza condizioni’». Per Badoglio, infatti, non potevano parlare di onore né i tedeschi «che hanno abbandonato in pieno combattimento le nostre divisioni sul Don, in Libia, in Tunisia, in Calabria», né «i capoccia fascisti, che si sono empite le tasche con l’oro che avrebbe dovuto servire a preparare la guerra in cui hanno gettato incautamente il paese». L’unico modo per risollevare il destino della patria era dunque combattere contro l’invasore tedesco al fianco degli Alleati, con i quali l’Italia, grazie al suo «deciso intervento contro la Germania», era venuta a trovarsi su «un piano di sostanziale alleanza».
Salvaguardato così l’onore nazionale e rinviate ‘al mittente’ le accuse di tradimento mosse dal governo germanico e dai fascisti redivivi, quattro giorni dopo, il 19 settembre, Badoglio perfezionava la gamma dei temi propagandistici a disposizione della monarchia attraverso un altro, più importante, radiomessaggio <45. Con esso il maresciallo replicava alle parole con cui la sera precedente, dalla radio tedesca, Mussolini – come si è visto – aveva stigmatizzato il voltafaccia della corona per l’armistizio dell’8 settembre e annunciato la costituzione di un governo repubblicano fascista che avrebbe punito i «traditori» e ripreso il suo posto a fianco dell’alleato germanico. Difendendo le scelte compiute dal sovrano il 25 luglio e l’8 settembre, il capo del governo riversava sul duce ogni responsabilità per la tragica situazione in cui era precipitata l’Italia. Benché a conoscenza dello stato di assoluta impreparazione delle forze armate, egli aveva gettato avventatamente il paese in una guerra sanguinosa «non voluta né sentita da alcuno e non vivificata dall’odio contro il nuovo nemico». Niente poi aveva fatto, quale suprema autorità militare, per contrastare la prepotenza crescente dell’alleato germanico, determinato a perseguire i propri esclusivi interessi, col pieno disprezzo e a discapito del popolo italiano, ritenuto «un popolo inferiore». Se vi era stato un tradimento, a commetterlo – come si faceva apertamente intendere – erano stati pertanto Mussolini e i tedeschi: il primo ponendo le sorti della nazione nelle mani ostili del Führer e precipitando il paese nella guerra senza alcuna preparazione bellica; i secondi, a loro volta, brigando fin dall’inizio del conflitto per porre l’Italia in una condizione di grama sudditanza con l’intento di trasformarla in un «paese vassallo nel senso più pieno della parola». Il capo del governo ammetteva che le condizioni dell’armistizio fossero «dure» («perché non dobbiamo dimenticare che siamo vinti»), ma sottolineava come la «reazione armata alle aggressioni di ogni genere germaniche» stava sempre più portando il paese su «un piano di collaborazione con gli alleati, che non potrà non contare alla conclusione della pace».
L’intervento di Badoglio rafforzava la linea difensiva della monarchia con un argomento di grande efficacia, anch’esso desunto dalla propaganda alleata e destinato a una florida fortuna nel dopoguerra: l’incriminazione di Mussolini come «servo dei nazisti» e traditore della nazione, additato – in sintonia con Churchill – quale unico responsabile delle scelte sciagurate compiute dal paese. La colpevolizzazione del duce per la partecipazione italiana alla guerra e per la sua fallimentare conduzione permetteva al Regno del Sud di perseguire al meglio gli obiettivi della sua propaganda: in primo luogo quelli, già richiamati, di dispensare da ogni responsabilità la monarchia insieme all’establishment burocratico-militare per la ventennale collaborazione col fascismo culminata nella guerra e di riversare sulla nascente Repubblica sociale il peso infamante del tradimento nazionale; in secondo luogo, quello di assolvere dalle
responsabilità per la partecipazione al conflitto tanto le forze armate quanto, più in generale, il popolo italiano, presentati come vittime di una guerra non voluta e di un alleato insincero e arrogante. Evidente era lo scopo cui mirava Vittorio Emanuele III: allontanare il marchio del tradimento e della sconfitta per mantenere il trono <46 e porsi alla guida della nazione nella difficile lotta che allora si apriva contro i tedeschi e i fascisti.
[NOTE]
38 Per il testo del discorso di Badoglio cfr. Dall’armistizio alla liberazione di Roma, in «Politica Estera», I, luglio 1944, 6, pp. 43-44. Il testo è riportato anche in A. Degli Espinosa, Il Regno del Sud. 10 settembre 1943 – 5 giugno 1944 (1946), Rizzoli, Milano 1995, nota 2, p. 47. Tutti i discorsi proclamati alla radio da Badoglio venivano pubblicati sulla «Gazzetta del Mezzogiorno».
39 Cfr. Ministero degli Affari esteri, I Documenti Diplomatici Italiani, X, 1943-1948, vol. I (9 settembre 1943 – 11 settembre 1944), a cura di P. Pastorelli, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1992, pp. 3-4. Il governo Badoglio passò sotto silenzio il fatto di aver ricevuto sollecitazioni da parte alleata a schierarsi contro la Germania. La lotta antitedesca fu presentata dalla propaganda monarchica come una scelta presa in piena autonomia.
40 Badoglio aveva avuto gravi responsabilità nella guerra d’aggressione contro la Grecia ed era stato poi allontanato dall’incarico per l’esito fallimentare dell’impresa. Sulla sua figura cfr. P. Pieri e G. Rochat, Badoglio, Utet, Torino 1974 e, per un efficace profilo sintetico, la voce Badoglio curata da Nicola Labanca in Dizionario del fascismo (2002), a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 129-132.
41 Il testo del messaggio in Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., nota 1, pp. 70-72.
42 Cfr. Oliva, I vinti e i liberati cit., pp. 96-100.
43 Le stime più attendibili ricostruite dallo storico tedesco Gerhard Schreiber calcolano che i militari italiani disarmati dalla Wehrmacht furono 1.007.000 (518 mila in Italia, 59 mila nella Francia meridionale, 430 mila nei Balcani e nelle isole del Mediterraneo). Poco meno di 200 mila riuscirono a fuggire, mentre il resto – circa 810 mila militari – rimase in mano tedesca. Di questi, si calcola che circa 186 mila decisero di collaborare a vario titolo con il Terzo Reich e con la Repubblica sociale. Gli altri, deportati nei campi in Germania e Polonia, ebbero la qualifica di Internati militari italiani (IMI) e, privi delle tutele previste dai regolamenti internazionali, furono impiegati come lavoratori coatti per le esigenze dell’economia di guerra tedesca. Cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945: traditi, disprezzati, dimenticati (1990), Ussme, Roma 1992 e G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945 (2002), Il Mulino, Bologna 2004.
44 Cfr. Schreiber, La vendetta tedesca cit., pp. 11-89. I primi «ordini criminosi» contro gli italiani non disposti ad arrendersi risultano diramati il 10 e il 12 settembre 1943. Le vittime italiane complessive sono state calcolate dall’autore in 6.094, di cui 100 sul territorio italiano, 363 nei Balcani e 5.631 nelle isole ioniche e del Mediterraneo orientale, una parte considerevole delle quali dovute alla strage di Cefalonia.
45 Cfr. Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., nota 2, pp. 75-77.
46 Sulla centralità della questione dinastica come «vero motore di ogni calcolo o provvedimento di Vittorio Emanuele» ha richiamato l’attenzione Fulvio Cammarano in La fuga dei Savoia: una scommessa obbligata, in Istituto Alcide Cervi, Otto settembre 1943. Le storie e le storiografie, a cura di A. Melloni, Diabasis, Reggio Emilia 2005, pp. 17-27.
Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Editori Laterza, 2013