Argentina, patria di riserva

Fino ad alcuni anni fa in una rassegna sull’emigrazione politica italiana l’inclusione di un saggio dedicato agli espatri dei fascisti dopo il 1945 e al ruolo da essi svolto all’estero, nelle comunità di connazionali, sarebbe probabilmente stata considerata una bizzarria.
Dei fascisti emigrati si erano infatti perse completamente le tracce già pochi anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, quando la vittoria democristiana del 18 aprile 1948 sancì la definitiva chiusura della resa dei conti con il fascismo in tutte le sue articolazioni legali e non (giustizia sommaria, processi per collaborazionismo, epurazione degli apparati dello stato). L’anticomunismo divenne la cifra dei nuovi governi centristi e l’antifascismo fu costretto sempre più sulla difensiva.
[…] Sono state per prime alcune ricerche di nuova impostazione sull’emigrazione dei nazisti a mostrare come in realtà anche all’interno di questo gruppo le due categorie non siano sempre perfettamente distinguibili e gli espatri per motivi economici si confondano con quelli per motivi politici. Una serie di lavori condotti sia negli archivi tedeschi che in quelli della principale destinazione sudamericana, l’Argentina, ha permesso in primo luogo di arrivare ad una approssimazione quantitativa sul numero effettivo di criminali che si rifugiarono all’estero, specie in America latina, sgombrando il terreno dalle ipotesi inverosimili circolate in passato, che volevano quei paesi letteralmente invasi da migliaia di nazisti in fuga <4.
Nello stesso tempo, studiando i meccanismi di espatrio ed in particolare il ruolo di figure come il vescovo Alois Hudal <5, rettore del Collegio germanico di S. Maria dell’Anima a Roma e membro della Pontificia Commissione di Assistenza, che aiutò numerosi criminali a riparare oltreoceano fornendo loro documenti e visti, si è concluso che dalla Germania e dall’Austria non fuggivano solo coloro che temevano di essere catturati e processati. Tanti tedeschi e austriaci che si rivolsero a Hudal, infatti, non erano responsabili di crimini, pur essendo stati nazisti ed avendo magari anche combattuto nelle armate hitleriane: dalle lettere si deduce che erano obbligati a lasciare l’Europa per la mancanza di prospettive nei loro paesi, a causa delle distruzioni provocate dai bombardamenti ma anche delle misure introdotte dagli Alleati, che impedivano l’assunzione di chi era stato iscritto al partito di Hitler <6.
L’emigrazione fascista
Nel caso italiano è stato proprio a partire dall’analisi del contesto postbellico, più che non dalla schedatura dei criminali di guerra (anche perché, per i motivi che si diranno, il contingente era nella fattispecie assai esiguo), che si è giunti ad un diverso approccio all’esodo dei fascisti: da un’ottica limitata alla ricostruzione delle singole vicende dei gerarchi costretti a fuggire perché latitanti, ad una prospettiva più ampia e attenta a rintracciare le componenti politiche nell’emigrazione dalla penisola che riprese subito dopo la guerra <7.
In particolare, studi fondamentali realizzati soprattutto negli anni novanta sul periodo ’43-’48 in Italia hanno approfondito per un verso i tratti di guerra civile assunti dalla Resistenza; e per l’altro gli accadimenti successivi alla Liberazione nelle regioni centrosettentrionali dove l’occupazione tedesca e il regime di Salò erano stati particolarmente feroci: qui, dopo l’esplosione di violenza dell’aprile del 1945 che causò migliaia di vittime (stimate tra le 8000 e le 10000), si verificarono episodi di giustizia sommaria ai danni di ex fascisti almeno per tutto il 1946 <8.
All’incirca per un triennio, fino alle elezioni dell’aprile del 1948, ci furono persone che per l’appoggio diretto che avevano dato al fascismo e, più spesso, al Mussolini repubblicano di Salò, o per la loro fede politica, continuarono a sentirsi in pericolo, subirono o temettero di subire vendette private, oppure semplicemente, lo si è visto per i nazisti, non riuscirono a trovare lavoro. Il contesto postbellico si configurò dunque, sia pure per un periodo circoscritto, come un contesto “di espulsione”, e come hanno confermato recentemente numerose testimonianze di emigrati (c’è chi per esempio ha ammesso di aver dormito fino alla partenza con la pistola sotto il cuscino) anche dall’Italia se ne andarono per motivi in tutto o in parte politici persone che non avevano commesso crimini o avevano responsabilità minime <9.
Se neppure i fascisti sfuggirono alla regola che vuole la parte sconfitta di ogni guerra civile obbligata a lasciare il suo paese, fu per simili ragioni, essenzialmente extragiudiziarie. A differenza di quanto accadde dopo il 1945 in Germania e in paesi dove erano sorti regimi collaborazionisti come la Francia, infatti, in Italia sia la punizione dei crimini fascisti nei tribunali che l’epurazione dell’amministrazione dello stato si conclusero rapidamente e si risolsero in un fallimento.
In parte quella che è stata definita un’anomalia nel quadro europeo derivò dal fatto che l’Italia al momento dell’armistizio aveva acquisito lo status di cobelligerante <10: la nuova classe dirigente poté valersene per impedire una “Norimberga italiana”, ovvero per evitare i processi a carico dei responsabili dei crimini perpetrati dall’esercito italiano in Grecia e in Jugoslavia tra il 1940 e il 1943, continuando nello stesso tempo a reclamare la cattura dei nazisti autori degli eccidi e delle stragi contro i civili in Italia, ma non dei repubblichini che erano stati in molti casi loro complici <11.
In parte essa fu dovuta al tanto discusso provvedimento di amnistia voluto da Togliatti per facilitare la riconciliazione nel paese e promulgato all’indomani del referendum che sancì la vittoria della Repubblica, nel giugno del 1946. Ad appena un anno e poco più dalla Liberazione, con largo anticipo rispetto alla Francia, l’Italia considerò liquidato il fascismo e fece uscire dalle carceri circa 10000 dei 12000 fascisti che vi erano detenuti, non esclusi i maggiori responsabili a livello politico e militare della guerra, e numerosi autori di crimini efferati <12.
A queste tre circostanze – giustizia sommaria per effetto della guerra civile, mancata punizione dei crimini fascisti ed amnistia estremamente generosa e precoce – si legano in larga misura le caratteristiche e le modalità di svolgimento dell’esodo dei fascisti.
Per effetto dell’amnistia – che fu paradossalmente all’origine di numerose partenze, perché chi veniva scarcerato rischiava di incorrere in vendette private – esso fu infatti quasi esclusivamente legale, e si mescolò e confuse con l’emigrazione per lavoro, sfruttando gli stessi canali. Che erano poi molto spesso canali privati, dato il peso quantitativo che aveva avuto tradizionalmente, e in pratica fino all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, nonostante le restrizioni fasciste da un lato e quelle americane (in particolare statunitensi) dall’altro, l’emigrazione nella storia italiana. Furono cioè le reti di relazioni con parenti, conoscenti o compaesani installatisi all’estero in precedenza o rientrati dopo periodi trascorsi fuori d’Italia; e le informazioni sulle possibili destinazioni e gli aiuti concreti per soddisfare le richieste dei paesi di arrivo (atti di chiamata, contratti di lavoro) che costoro mettevano a disposizione, a permettere anche ai fascisti di partire.
[…] Espatri autogestiti, dunque, con una quota assai ridotta di fughe di latitanti, visto che come detto tanti colpevoli di gravissimi reati erano stati scarcerati e tanti altri non erano stati neppure indagati e processati; e con un’incidenza relativa anche (o di conseguenza) delle reti politiche più o meno strutturate di appoggio alle fughe e della stessa chiesa cattolica, che è ben noto in figure come il citato vescovo Hudal non fu aliena da grosse responsabilità e consentì a numerosi criminali nazisti di raggiungere il Sudamerica.
Nel caso italiano la chiesa svolse un ruolo importante nel proteggere i repubblichini in patria nella fase più acuta delle vendette, nelle prime settimane dopo la Liberazione; assai minore per quanto riguarda invece l’aiuto fornito a chi doveva espatriare. Nell’uno e nell’altro ambito, non bisogna pensare ad una regia o ad un piano di interventi ideato dalle gerarchie vaticane e volto ad assicurare la salvezza dei fascisti. Ciò non toglie che singoli conventi o istituti religiosi ricoprirono una funzione chiave in tal senso, nascondendo criminali e latitanti per mesi e talvolta per anni, vuoi perché si trovavano in una posizione strategica dal punto di vista geografico, vuoi perché a dirigere le strutture erano figure di religiosi ben disposti. In qualche circostanza, non sempre, questo era sinonimo di schierati dalla parte dei fascisti e motivati sul piano ideologico. Se non mancarono preti e prelati che in nome dell’anticomunismo ritennero giustificati l’ospitalità offerta ai gerarchi e anche gli aiuti ai criminali, altri furono complici solo per malinteso spirito di carità cristiana: come traspare da diari e testimonianze scritte, alcuni rettori di conventi che, pur conoscendone se non le gesta la carriera, diedero rifugio a fascisti e repubblichini consideravano queste presenze assai poco gradite <13.
Gerarchi come Cesare Maria De Vecchi e Luigi Federzoni espatriarono quando ancora erano ricercati dalla giustizia (l’amnistia avrebbe presto sanato le loro posizioni), grazie ai documenti falsi e alla protezione dei salesiani. Il primo si trasferì in Argentina, dopo una lunga serie di peripezie e dopo aver corso notevoli rischi in Italia; e il secondo in Brasile, anche se di lì a poco tempo, quando trapelò sulla stampa locale la notizia della sua venuta, ritenne più sicuro spostarsi a propria volta a Buenos Aires <14.
Chi non godeva di appoggi analoghi nelle alte sfere di ordini e congregazioni religiose o dello stesso Vaticano e dovette accontentarsi dell’aiuto del clero in cura d’anime, spesso incontrò difficoltà ben maggiori per fuggire all’estero. Così fu per Bruno Piva, un ex capitano della Guardia nazionale repubblicana condannato a trent’anni di carcere, che si nascose per due anni in un istituto religioso in provincia di Varese, e quindi scappò in Svizzera. Qui si vide presto costretto a cercare un’altra soluzione, dal momento che gli elvetici, se non estradavano né espellevano i fascisti latitanti, non erano affatto disposti a concedere loro asilo politico e anzi facevano in modo di allontanarli prima possibile dalla Confederazione. Piva fu aiutato a quel punto nuovamente dai cappuccini di Friburgo, la città dove era andato a risiedere, e tuttavia impiegò oltre un anno per procurarsi il passaporto, il visto di espatrio e i soldi necessari a pagare il biglietto suo e dei famigliari per la nave che nel 1951 lo porterà in Argentina; inoltre dovette rivolgersi anche ad ambienti extrareligiosi, e in particolare alle autorità svizzere, e a camerati già espatriati.
Nel suo caso non intervenne la principale organizzazione che operò nel dopoguerra a favore dei fascisti: il Movimento italiano femminile (Mif), fondato alla fine del 1946 a Roma dalla principessa Maria Pignatelli di Cerchiara. Simile non tanto alla fantomatica Odessa delle SS, quanto semmai ad associazioni per l’assistenza ai detenuti politici nate in Germania più tardi, perché fino al 1948 durò l’occupazione alleata, il Mif si occupò principalmente di soccorrere i fascisti ancora in carcere con aiuti materiali e fornendo loro avvocati che ne seguivano le cause nei tribunali. Legalmente costituito e dotato di statuto dopo una clandestinità di breve momento vissuta peraltro al riparo dei palazzi vaticani, diretto e gestito da donne appartenenti in maggioranza alla nobiltà nera romana e meridionale, il movimento si organizzò rapidamente ed aprì sedi un po’ in tutta Italia, destinando più risorse ed energie a quelle prossime ai penitenziari in cui erano concentrati i fascisti.
Si ramificò inoltre quasi subito all’estero, in Europa (Spagna) e in America latina (Brasile e poi Argentina soprattutto), in questo secondo caso anche perché sia la principessa che il marito, Valerio Pignatelli, avevano rapporti di amicizia con esponenti illustri delle collettività italiane in Sudamerica, come i membri della famiglia di imprenditori italobrasiliani Matarazzo, che al pari di altri notabili – a riprova di una consuetudine di relazioni che la breve parentesi bellica non aveva spezzato – si mobilitarono spontaneamente per finanziare un’associazione considerata una sorta di succedaneo della causa fascista in cui avevano creduto.
Ma la scelta di allargarsi fuori d’Italia fu legata anche alla necessità di reperire risorse per le attività di assistenza nella penisola e appoggi oltreoceano per i camerati che si rivolgevano all’organizzazione. Come emerge infatti dalle lettere conservate nell’archivio creato dalla stessa fondatrice del Mif, non pochi chiedevano aiuto per espatriare, essendo in difficoltà o senza lavoro per i loro trascorsi durante il ventennio o per aver combattuto nelle milizie di Salò <15. La Pignatelli, pur riluttante – riteneva l’emigrazione dannosa per il paese, a maggior ragione se ad andar via erano esponenti della sua parte politica – si attivò per facilitare gli espatri e trovare sistemazioni e impieghi, dalla Spagna, dove era in contatto con il gruppo femminile della Falange, al Venezuela e al Brasile.
La meta più richiesta da chi voleva emigrare era di gran lunga l’Argentina, tanto che la segretaria del Mif pensò di rivolgersi addirittura al presidente Juán Domingo Perón e approfittò di un viaggio in Italia nel 1947 della consorte Eva Perón per fargli pervenire un messaggio e raccomandargli i camerati in procinto di trasferirsi al Plata […]
4 Holger M. Meding, La ruta de los nazis en tiempos de Perón, Buenos Aires, Emecé, 1999 (ed. or. 1992); Carlota Jackish e Daniel Mastromauro, Identificación de criminales de guerra llegados a la Argentina según fuentes locales, “Ciclos”, 19 (2000), pp. 217-235.
5 Matteo Sanfilippo, Los papeles de Hudal como fuente para la historia de la migración de alemanes y nazis después de la Segunda Guerra Mundial, “Estudios migratorios latinoamericanos”, 43 (1999), pp. 185-209.
6 Cfr. Federica Bertagna e Matteo Sanfilippo, Per una prospettiva comparata dell’emigrazione
nazifascista dopo la seconda guerra mondiale, “Studi emigrazione”, 41, 155 (2004), pp. 527-553 e la bibliografia qui citata.
7 Salvo diversa indicazione, per quanto segue si rinvia a Federica Bertagna, La patria di riserva. L’emigrazione fascista in Argentina, Roma, Donzelli, 2006.
8 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1990; Guido Crainz, La giustizia sommaria in Italia dopo la seconda guerra mondiale, in Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, a cura di Marcello Flores, Milano, Bruno Mondadori 2001, pp. 162-170. Diversi studi su casi provinciali e regionali hanno da molti anni spazzato via (almeno agli occhi di chi fa ricerca storica) le esagerazioni di parte fascista sui morti ammazzati dopo il 25 aprile, in particolare in Emilia Romagna: cfr. per esempio il lavoro da poco riedito di Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso. La guerra di liberazione e la sconfitta del fascismo (1943-1947), Roma, Sapere2000, 2007 (1994).
9 Lia Sezzi e Nora Sigman, “Pionieri del progresso”: l’impresa Borsari in Terra del Fuoco, “Storia e problemi contemporanei”, 16, 34 (2003), p. 124; Mónica Bartolucci e Elisa Pastoriza, Me iré con ellos a buscar el mar: familias migrantes marchigianas a la ciudad de Mar del Plata (1886-1962), “Altreitalie”, 15, 27 (2003), p. 89.
10 Enzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, il Mulino, 2007, p. 124.
11 Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Roma-Bari, Laterza, 2003.
12 Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006.
13 Si veda Giovanni Preziosi, Sulle tracce dei fascisti in fuga. La vera storia degli uomini del duce durante i loro anni di clandestinità, Atripalda (AV), Walter Pellecchia Editore, 2006, assai disorganico, ma utile per il contributo a livello di fonti inedite e di difficile reperimento, in particolare appunto alcuni diari dei rettori di conventi che ospitarono gerarchi e criminali fascisti.
14 Francesco Motto, Dal Piemonte alla Valle d’Aosta. La clandestinità del quadrunviro Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon in una memoria di don Francesco Làconi, “Ricerche storiche salesiane”, 20, 2 (2001), pp. 309-348; Albertina Vittoria, I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia, “Studi Storici”, 35, 3 (1995), pp. 729-760.
15 Federica Bertagna, Il Movimento italiano femminile “Fede e famiglia” e la fuga dei fascisti italiani in Sudamerica dopo la seconda guerra mondiale, “Novecento”, 8-9 (2003), pp. 47-61.
Federica Bertagna, L’emigrazione fascista e neofascista italiana in America Latina (1945-1985) – di prossima pubblicazione nel numero 4, gennaio 2008 della rivista “Archivio storico dell’emigrazione italiana”. Si ringrazia l’editore Settecittà per averne consentito la diffusione in rete – Historiapolitica.com