Arriva anche un messaggio di solidarietà dalla comunità israelitica di Roma

Nel 1945 il “Vento del Nord” sembra soffiare impetuoso a spazzare via il vecchio.
Soffocherà in fretta.
Subito dopo i giorni della febbrile esaltazione del 25 aprile, inizia un periodo inquieto di instabilità, speranze deluse, ideali traditi, inquietudini e violenza: un’Italia oggettivamente divisa in due politicamente, culturalmente e psicologicamente, da una guerra che passò dall’essere di tipo internazionalecoalizionale” ad un tipo di conflitto sub frazionato con caratteri di guerra civile <1.
Togliatti, che teoricamente dovrebbe capeggiare l’ala radicale dell’antifascismo, ha invece già impostato, con la famosa “Svolta di Salerno”, una politica compromissoria con il vecchio, non solo realizzando une tregua istituzionale con la Monarchia ma garantendo la sostanziale intaccabilità della casta burocratica e militare che non verrà mai smantellata <2.
Sul piano politico, il compromesso fra vecchio e nuovo è cosa fatta: il C.L.N., lungi dall’essere (come vorrebbero i partigiani), espressione di un potere nuovo, è invece luogo di mediazione tra interessi contrastanti. In esso prevale, in nome del realismo, la difesa dei privilegi dei ceti egemonici. <3
In questo clima generale, tra il 20 e il 27 agosto 1946 un gruppo di giovani partigiani di Asti, amareggiati per il provvedimento di amnistia che rimette in libertà i fascisti e per l’inadempienza del governo De Gasperi nei confronti delle rivendicazioni economiche dei partigiani riprende in mano le armi e dà vita ad una vera e propria insurrezione a Santa Libera, una frazione di Santo Stefano Belbo (CN).
Da quell’insurrezione prendono esempio migliaia di partigiani che in gran parte dell’Italia settentrionale danno vita ad agitazioni simili.
[…] La Waya è la Way Assauto; è il nome con cui nel corso degli anni gli astigiani hanno chiamato la fabbrica dei bulloni e poi degli ammortizzatori.
Ma la Waya, ad Asti, è anche l’immagine, il simbolo, la rappresentazione quasi archetipica della fabbrica – “la” fabbrica – così come si sono consolidati nel lungo periodo di tempo che va dagli anni Venti a tutti gli anni Sessanta <16.
In questi cinquant’anni la Way Assauto è stata il simbolo del movimento operaio e sindacale cittadino. I suoi lavoratori sono sempre stati protagonisti, spesso con un ruolo di “avanguardia”, di quei momenti che hanno visto la classe operaia essere uno degli attori principali di eventi sociali e di movimenti il cui significato va ben oltre i cancelli delle fabbriche: dal biennio rosso agli scioperi del marzo 1943 fino all’autunno caldo del 1969.
Questo, al di là di ogni intento retorico o mitizzante, anche per un mero dato quantitativo: nel periodo a cui si fa riferimento il numero dei lavoratori oscillava tra le 2.000 e le 3.000 unità <17.
La seconda fabbrica cittadina per dimensioni – la Vetreria – occupava mediamente, sempre nello stesso cinquantennio, circa 500 lavoratori <18.
Si capisce dunque perché, anche le prime e più forti proteste contro il regime fascista partissero da questa fabbrica. E fin dagli scioperi del marzo 1943 la Way Assauto ebbe quel ruolo centrale che di lì in poi avrebbe sempre rivestito per il movimento operaio astigiano <19.
[…] La mancata epurazione dei fascisti dalle istituzioni, dalla pubblica amministrazione e, soprattutto, dalla pubblica sicurezza è un ulteriore fattore che contribuisce ad alimentare il malessere del partigianato.
La prima riorganizzazione della prima Pubblica Sicurezza venne attuata da Giuseppe Romita, Ministro dell’Interno dal 10 dicembre 1945 al 1 luglio 1946, ricorrendo in un primo tempo ai vecchi agenti della Polizia dell’Africa Italiana “adusa ai metodi più biecamente razzisti e colonialisti, guidata da alcuni tra i peggiori elementi del regime fascista”, quindi recuperando militari già facenti parte del Regio Esercito e, dopo una sommaria selezione, pure ex appartenenti alla Milizia fascista.
Al contrario dura pochi mesi l’arruolamento, sollecitato dalla sinistra, di circa 15.000 uomini provenienti dal partigianato, pur senza il riconoscimento dei loro gradi acquisiti durante la lotta di Liberazione. <33
[…] Come rileva Paul Ginsborg, però: “se nel periodo 1943-45 il PCI rinviò ogni riforma sociale e politica in nome dell’unità nazionale e della liberazione, nei successivi tre anni il suo errore fu quello di fare del terreno politico e dell’alleanza con la DC lo strumento pressoché esclusivo per realizzare le riforme. […] Tra il 1945 e il 1947 i comunisti, per mantenere in piedi l’alleanza, fecero concessioni su concessioni, mentre la Democrazia cristiana stava diventando con sempre maggior chiarezza la rappresentante di quelle forze della società italiana per cui la concezione di democrazia progressiva era un’assoluta minaccia[…]. La priorità accordata da Togliatti alle intese tra i partiti fece della moderazione e dell’elettoralismo i punti centrali dell’azione comunista. I comunisti si ponevano continuamente delle limitazioni per rassicurare i democristiani circa le proprie intenzioni; l’aumento del consenso elettorale venne visto come il principale strumento per spostare l’equilibrio del potere nel parlamento e conseguentemente nel paese <67”.
Anche nell’Astigiano, nonostante i successi organizzativi ottenuti dal PCI in termini di reclutamento e di cariche istituzionali, non mancano evidenti segnali di malcontento e tentazioni ribellistiche, soprattutto tra la base partigiana, per l’involuzione della situazione politica e per il permanere di uno stato di incertezza relativamente a quella economica.
[…] E’ in questo contesto che avvengono i primi contatti fra Valpreda e l’ex comandante garibaldino Giovanni Rocca, detto Primo.
Dopo l’emanazione del decreto di amnistia, che, al di là della volontà del legislatore, finisce per rimettere in libertà centinaia di fascisti, Valpreda matura l’idea di un vero e proprio movimento insurrezionale armato che colpisca i fascisti rimessi in libertà e che esprima con il vivo esempio del ritorno alla macchia tutta l’indignazione partigiana nei confronti di quel provvedimento e degli orientamenti conservatori del governo. Nel suo intervento al congresso regionale dell’ANPI, a Torino il 28 luglio, Armando Valpreda manifesta pubblicamente tale intendimento, incontrando però l’opposizione dei dirigenti regionali <100.
Valpreda, quindi, decide di attendere gli esiti del congresso nazionale dell’ANPI, previsto per il mese di settembre a Firenze.
A questo punto, però, accade qualcosa di imprevisto.
Il 20 agosto 1946, infatti, il capo della polizia ausiliaria di Asti Carlo Lavagnino, che nell’ultima fase della guerra si era avvicinato al movimento resistenziale, viene sostituito dal tenente Russo, ex fascista ed ex ufficiale della polizia dell’Africa Orientale. Si trattò della goccia che fece traboccare il vaso <101.
A questo punto, gli eventi si susseguono in modo rapido e convulso.
[…] Nel frattempo le autorità cittadine, gli esponenti locali dei partiti politici di sinistra e i dirigenti delle ANPI di Asti e di Cuneo muovono le loro pedine e cercano di assumere un ruolo di mediazione con gli insorti. Si recano a Santa Libera per parlamentare il sindaco di Asti Felice Platone (deputato comunista alla Costituente), l’onorevole Enzo Giacchero (democristiano, già prefetto di Asti nei giorni della Liberazione) e i due viceprefetti nominati del CLN provinciale Berruti (comunista) e Borgoglio (azionista) <113.
Valpreda li riceve tutti, eccetto Giacchero. Non c’è da stupirsi del fatto che i quadri dirigenti comunisti cerchino di far rientrare nella legalità la protesta. Essi sono fedeli alla linea legalitaria e riformista di Togliatti e sono consapevoli dei rischi a cui andrebbe incontro il loro partito nel caso di un’espansione della rivolta (le truppe angloamericane non hanno ancora lasciato il territorio nazionale e lo scoppio della guerra civile in Grecia costituisce un monito da non sottovalutare).
Anche l’ANPI cuneese invia un suo emissario a Santa Libera: Aldo Sacchetti <114.
L’ANPI di Asti, invece, manda a Santa Libera con Giovanni Rocca, Reggio Battista “Gatto”, Francesco Rosso “Perez”, Celestino Ombra “Tino” e altri.
Rocca, che dunque si presenta a Santa Libera solamente il secondo giorno, porta completa solidarietà (del resto, egli aveva avuto un ruolo tutt’altro che secondario nella promozione dell’insurrezione).
Anche gli altri esponenti nell’ANPI di Asti solidarizzano con gli insorti <115.
Sin dal 21 agosto, quindi, gli insorti godono dell’appoggio e della solidarietà di moltissimi partigiani del Cuneese e dell’Astigiano. Parecchi partigiani raggiungono i ribelli a Santa Libera e si uniscono a loro: tra questi Giovanni Gerbi “Reuccio” (cfr. l’intervista allegata in appendice), Augusto Valle “Augusto”, Luciano Piano “Fieramosca”, Ettore Ivaldi “Fin” e Guido Marello “Moreto” <116.
Si arriva così al 22 agosto, il giorno a partire dal quale la rivolta assume una dimensione nazionale.
La rivolta di Santa Libera, infatti, funge da detonatore: a partire dal 22 agosto e nei giorni successivi si verificano agitazioni partigiane nel resto del Piemonte, in Liguria, il Lombardia, In Emilia Romagna, in Veneto e in Toscana. Analizzando i documenti del Ministero dell’Interno (direzione generale della pubblica sicurezza, divisione A.G.R., sezioni 2a e 3a) che fanno il rendiconto di quei giorni (fine agosto – inizio settembre), sembra di leggere un bollettino di guerra.
Si registrano agitazioni partigiane, spesso di stampo insurrezionale come a Santa Libera, in moltissime province: Sondrio, Brescia, Mantova, Vercelli, Lucca, Massa, Parma (Val di Taro), Pavia, Pistoia, Savona, Reggio Emilia, Verona, Vicenza, Udine, Firenze, La Spezia, Genova.
A Santa Libera vengono recapitati numerosi telegrammi e messaggi di solidarietà da sezioni ANPI di città anche molto lontane (Edolo, Quiliano, Viareggio, Treviso, Briga, Biella, Vigevano, Verona, Macerata, Chioggia, Borgo Val di Taro, Padova, Piacenza, Poggiorenatico, Rossano, e addirittura città del sud come Foggia e Roccella Jonica) <117.
Arriva anche un messaggio di solidarietà dalla comunità israelitica di Roma.
Nel frattempo a Santo Stefano Belbo il numero degli insorti continua a crescere: molti partigiani arrivano a Santa Libera per unirsi al gruppo <118.
Secondo la questura di Asti, i ribelli sono ormai più di cento <119.
Ciò che maggiormente contribuisce a far diventare nazionale la dimensione della rivolta, comunque, è soprattutto l’interessamento alla vicenda del Vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni.
[…] Complessivamente, per le autorità di polizia, al 29 agosto, assommavano a circa 1.300 i partigiani che avevano ripreso le armi nelle province di Asti, Cuneo, Torino, Pavia, Sondrio, Verona. Tale stima appare inferiore alla realtà, dato che in successivi rapporti si segnalavano ulteriori bande armate presenti in altre province non menzionate in precedenza (Alessandria, Brescia, Massa Carrara, Modena, Varese, Vercelli), la maggior parte di cui dispersi da uno smisurato dispiegamento militare. Spettacolari rastrellamenti alla ricerca di ribelli e di armi nascoste si ripeteranno anche in altre zone, giungendo all’occupazione di interi paesi e con brutali perquisizioni a tappeto dall’evidente carattere intimidatorio <144.
Se esistesse una strategia definita della violenza si potrebbe affermare che in questa fase (autunno 1945-autunno 1946) si entri in una dimensione dominata da una violenza politica tesa alla determinazione di nuovi equilibri di potere, ma le azioni violente, compiute in questo periodo, hanno un respiro locale <145.
In questa fase a preoccupare autorità politiche e forze dell’ordine non è più la quantità della violenza – in netto ridimensionamento nelle zone del Nord – quanto piuttosto la qualità della violenza, i suoi obiettivi, le sue eventuali prospettive <146.
Pertanto, sin dall’inizio le motivazioni che spingono alla rivolta i partigiani astigiani e le rivendicazioni del movimento sono chiarissime. Esse sono sintetizzabili in cinque punti: costituzione di un corpo di polizia formato da ex partigiani, destituzione di tutti i funzionari compromessi con il regime fascista, assunzione al lavoro dei reduci e dei partigiani, blocco dei licenziamenti e, soprattutto, abrogazione dell’amnistia.
Eppure, nel documento stilato da Valpreda e da Moscatelli in cui vengono fissati i dodici punti fondamentali inerenti le rivendicazioni degli insorti, non si fa alcun cenno ai funzionari fascisti o all’amnistia <147.
Sin dai primi giorni della trattativa a Roma, infatti, Nenni aveva dimostrato un orientamento assolutamente conciliante per quanto riguarda le rivendicazioni normative a favore dei partigiani, dei reduci e dei familiari dei caduti, ma aveva subito accantonato le rivendicazioni di tipo politico. E’ per questo che esse non sono presenti nemmeno nel documento scritto da Valpreda e da Moscatelli. Il compito di Cino Moscatelli, del resto, era quello di convincere gli insorti a formulare richieste concrete che fossero accettabili dal governo (l’abrogazione dell’amnistia e la completa epurazione dei fascisti dalla pubblica amministrazione non lo erano di certo).
Nonostante tutto ciò, qualcosa di quello che chiedevano i ribelli di Santa Libera riescono ad ottenerlo: l’estensione delle pensioni di guerra ai partigiani, alle famiglie dei caduti, alle vittime politiche e ai loro familiari, l’equiparazione dei partigiani ai militi volontari (con relativo trattamento economico) e il riconoscimento dei gradi militari ai partigiani ai fini amministrativi <148.
La motivazione vera, però, come sottolineerà molti anni dopo Giovanni Gerbi, protagonista di quei giorni, era “un senso di solidarietà, un senso del dovere verso dei valorosi che ancora una volta erano pronti a rischiare la vita nell’interesse generale e per impedire la rinascita fascista” <149.
[…] Come previsto, l’entusiasmo per le annunciate concessioni durò poco, dato che si dimostrarono una beffa. Vennero soddisfatte solo alcune rivendicazioni normative a favore dei combattenti, dei reduci e dei familiari dei caduti; al contrario quelle più politiche, quali il ritiro dell’invisa amnistia ai fascisti, la soppressione del Partito dell’Uomo Qualunque, divenuto una copertura per molti fascisti, e il controllo dal basso dell’operato dei prefetti restarono lettera morta.
Rimanevano altresì irrisolti i nodi della riforma agraria e della disoccupazione in un crescendo di tumulti, mentre la situazione alimentare si andava aggravando al punto che si stavano esaurendo persino le scorte di grano in metà delle regioni <151.
A Milano, a seguito dell’amnistia, l’organizzazione della “Volante Rossa”, sorta con compiti di difesa armata e servizio d’ordine delle manifestazioni comuniste, si trasformò in una struttura clandestina attiva nel colpire i criminali di guerra fascisti e i capi della riorganizzazione dell’estrema destra, anche in risposta agli attentati che questa aveva iniziato a compiere contro le sedi della sinistra già pochi mesi dopo la liberazione <152.
Fu all’incirca ciò che successe anche ad Asti, in quanto all’ulteriore delusione e beffa da parte delle istituzioni, e nonostante le reprimende del partito, i partigiani non smobilitano: alcuni tra i ribelli di Santa Libera danno vita ad un gruppo clandestino denominato “808” (la denominazione deriva dal nome di un potente esplosivo plastico) <153.
“Rispetto alle rivendicazioni di S. Libera la situazione non era affatto migliorata, la campagna antipartigiana cresceva. Ad un certo punto Armando mi parla di voler costituire una squadra speciale di partigiani di provata fede e combattivi: come me era convinto che si andasse verso uno scontro armato con la reazione, perciò dovevamo tenerci pronti. […] Incominciamo a riunirci come “808” e Armando continua ad essere il comandante <154”.
[…] Tra le motivazioni che caratterizzano le azioni del gruppo clandestino, emerge anche la volontà di fare giustizia, riparando in modo diretto ai “guasti” indotti dall’amnistia togliattiana. Quando, infatti, torna in libertà il capitano dell’Ufficio Politico Investigativo Ercole Righi condannato a pochi mesi e scarcerato dopo l’amnistia del 22 giugno 1946 (nonostante i reati da lui commessi e accertati dal processo comprovino le sue gravi responsabilità nella repressione antipartigiana), questi viene aggredito, malmenato e ricoverato in ospedale, ma la cosa non è sufficiente a spegnere la rabbia <155.
I problemi posti a S. Libera non giungono quindi ad una soluzione ed il PCI assume, nei confronti di questo ribellismo latente, un atteggiamento di ferma disapprovazione che però non esclude il dialogo. Forse perché consapevole della diffusione del malcontento tra i giovani ed i partigiani, il partito evita infatti di ricorrere al consolidato metodo delle scomuniche e tenta di dare uno sbocco politico al problema cooptando leader e protagonisti delle proteste all’interno delle strutture del partito e delle organizzazioni collaterali <156: il partigiano resta pur sempre una persona che si è consacrata durante la lotta resistenziale e, se comunista, il PCI gli garantisce in ogni caso la difesa giudiziaria o lo aiuta ad espatriare nei paesi del blocco sovietico, come accade per i 466 partigiani comunisti portati in Cecoslovacchia, tra cui lo stesso Valpreda (a questo proposito si veda il cap. 6 “L’attentato a Togliatti”) e il comandante della Volante Rossa <157.
[…] Le drammatiche giornate del 14, 15 e 16 luglio [1948, dopo l’attentato a Togliatti] dimostrano quindi, ancora una volta, che ad assumersi direttamente la gestione dello sciopero è l’organizzazione di base del PCI e tutta la rete spesso informale di avanguardie <170. Ad Asti “Il Lavoro” evita infatti di riferire che, nonostante i reiterati inviti alla calma diffusi dal partito, la sera del 16 luglio i “ribelli di Santa Libera” sono pronti a tornare alla macchia: “ Ci sentivamo traditi, volavano imprecazioni, insulti pesanti… poi all’istante si decide di smobilitare <171”.
Un gruppo di giovani armati si dà appuntamento oltre il Tanaro in regione Quaglie e raggiunge quindi con un camioncino la Casa del popolo di San Marzanotto, dove salgono immediatamente a cercare una mediazione i dirigenti del PCI <172
[…] La sera stessa la polizia irrompe nella Casa del Popolo di San Marzanotto e sequestra tre bren, due Thompson, tre machine-pistole, un facile semiautomatico, bombe a mano e numerose munizioni; vengono interrogati e quindi rilasciati il custode e il segretario della locale sezione comunista, Albino Cotto. La mattina del 17 luglio quattro operai della “Waya”, Aldo Brondolo, Guido Marello, Angelo Tornaghi e Pietro Dova, vengono convocati in Questura e “Pirata” viene arrestato; appena si diffonde la notizia, la fabbrica si ferma per protesta <174.
Il giorno dopo la polizia fa irruzione nella casa di Valpreda, individuato come il capo della rivolta <175; Armando riesce però a fuggire e, con altri nove compagni, tra cui “Reuccio”, si dà alla latitanza, prima nelle campagne astigiane, poi vicino a Pietraporzio, nelle vallate alpine del Cuneese. Solo dopo alcuni giorni, ricevuta tramite compagni fidati, la maggior parte dei ribelli fa ritorno in città. Alcuni però non si fidano e preferiscono attendere ancora: mentre Gerbi trova ospitalità a Torino presso parenti e lavora in una ditta di legna e carbone, “Armando”, “Fulmine”, “Miguel” e “Luis” si trasferiscono nell’entroterra ligure sotto la protezione delle altre famiglie di partigiani. Valpreda e Gerbi saranno gli ultimi a tornare al loro posto di lavoro alla “Waya”, ai primi di novembre <176.
Per i “ribelli”, i giorni del luglio 1948 segnano così la definitiva sconfitta di quella battaglia iniziata durante la resistenza e proseguita nel triennio successivo con la periodica e spontanea esplicitazione della rabbia che i compromessi e le sconfitte hanno accumulato in loro <177.
[…] L’organizzazione dei “partigiani della pace” si costituisce e si rafforza con manifestazioni di piazza a supporto della lotta svolta dai parlamentari comunisti contro l’adesione al Patto atlantico, e si sviluppa ulteriormente per condannare l’intervento americano in Corea <179.
Mentre decolla anche ad Asti la raccolta di firme dei Partigiani della pace contro il pericolo atomico, Valpreda viene fermato ed interrogato a più riprese ed infine arrestato insieme ad altri 12 compagni il 10 maggio 1951, alla vigilia delle elezioni amministrative. Dopo tre mesi di carcere, nove dei fermati vengono rilasciati ed il 28 settembre 1951, il Tribunale di Asti emette la sentenza: condanna ad un anno e sette mesi per Gerbi e Macario, ad un anno e due mesi per Valpreda, Tarabbio, Gonella e Spina. I primi due restano in carcere, gli altri vengono rilasciati in libertà provvisoria. Valpreda, che nel frattempo è stato eletto in consiglio comunale con un buon successo personale ad ha lasciato la carica del segretario della FGCI a Gerbi, viene nuovamente fermato in aprile e rinviato a giudizio per aver distribuito volantini in cui si inviata i giovani a respingere le cartoline precetto. Ma il 22 ottobre 1952, quando viene emessa la sentenza di assoluzione, “Armando” non è più ad Asti: il 16 luglio, dopo un ennesimo fermo ed interrogatorio da parte della polizia si rifugia in montagna ed il 22 agosto, con l’aiuto del partito, parte da Torino alla volta di Praga, dove giunge il giorno 28 con altri tre compagni. Farà ritorno nella sua città solo due anni dopo, il 31 luglio 1954, un mese circa dopo essere stato amnistiato <180.
Oggi sappiamo con certezza che in Italia, più che una difesa della democrazia dal comunismo (questo fu l’alibi) ci fu una “democrazia reale”, o ancora meglio una “democrazia blindata”, dove gli industriali e il Vaticano si adoperarono per svuotare l’epurazione di qualunque significato e per riciclare nei servizi e al vertice del nuovo Stato repubblicano militari e burocrati fascisti. Destre e soprattutto Dc furono in quegli anni ampiamente finanziati dagli industriali e servizi segreti. Stuart Huges ha notato che l’America, puntando sulla Dc, non si accorse che se la punta dell’iceberg democristiano tutelava i cosiddetti valori occidentali, la sua base – assai più vasta e ramificata – aveva ben altra prassi e interessi, sicché la vittoria della Dc fu anche la vittoria delle forze che avevano partorito il fascismo, della burocrazia di regime e della mafia <181.
Nonostante i tanti cambiamenti rilevanti intervenuti con il passare degli anni, Armando, come anche Gerbi e tutti i loro compagni, ha continuato a sentirsi partigiano e riflettendo, poco prima della sua morte, avvenuta il 31 dicembre del 2001, sull’episodio di Santa Libera, fa il bilancio della sua vita e di quella dei suoi compagni con queste parole: “L’insurrezione era giustificata e necessaria e ciò che è successo in questi cinquanta anni ci dà ragione. Forse sentivamo il presagio di quello che poi sarebbe accaduto nel nostro paese. Purtroppo non ci siamo sbagliati. Molti interrogativi che allora tormentavano le nostre coscienze non hanno ottenuto una risposta. Gravi problemi sono rimasti insoluti. Ingiustizie vecchie e nuove, violenza, corruzione, incertezza nell’avvenire delle giovani generazioni segnano l’abisso che divide l’Italia di oggi dall’Italia che avevamo idealizzato in montagna e per la quale tanti nostri compagni hanno immolato la vita” <182.
Il funzionamento delle strutture istituzionali (polizia, magistratura, burocrazia), in atto durante la dittatura, si è perpetuato, con reintegrazione delle carriere e la sopravvivenza di leggi, regolamenti, comportamenti, nonostante il dettato costituzionale antifascista. Le alleanze internazionali hanno poi cristallizzato i pregiudizi ideologici.
Coloro che hanno combattuto durante la Resistenza sono rimasti all’opposizione: dopo aver contribuito a scrivere il testo costituzionale, non hanno gestito i poteri reali di conduzione della nazione. Per lunghi anni, hanno potuto soltanto denunciare, contrapporsi, rivendicare diritti, senza che la loro area di consenso fosse rappresentata nel governo <183.
Nonostante le molteplici contraddizioni del sistema però, non si possono cambiare le regole della Costituzione e della democrazia senza fare ricorso a quella svolta epocale nella storia europea e italiana del ventesimo secolo. Il rifiuto morale, politico e armato, del totalitarismo e della guerra è stato espresso dalle popolazioni dell’Europa, che si sono assunte diretta responsabilità di scelta contro lo stato o in assenza di esso (come è avvenuto in Italia dopo l’8 settembre 1943) e sono diventate protagoniste di una fase storica innovativa.
Vi sono, infatti, germi di novità nell’esperienza partigiana, che, seppure non pienamente sviluppati, possono essere ancora oggi essenziali parametri per la difesa della nostra democrazia in un momento grave e pericoloso di crisi politica <184.
[NOTE]
1 M. Dondi, La lunga liberazione, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 9
2 Roberto Gremmo, L’ultima Resistenza, Edizioni ELF Biella 1995, p.3
3 Ibidem, p.4
16 W. Gonella, “…qui era la fabbrica più bella che c’era…”- La Way Assauto tra storia e memoria, Israt, Edizioni Joker sas, 2008, p.53
17 Ibidem
18 Ibidem
19 Ibidem, p.37
33 Rossi, op. cit., p. 49
67 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino, Einaudi, 1989, pp. 108-109
100 Ibidem, pp. 14-15; cfr. l’intervista a Giovanni Gerbi allegata in appendice
101 Ibidem
112 Ibidem, p.25
113 Ibidem, p.26
114 Ibidem
115 Ibidem, p.27
116 Ibidem, p.26
117 Cfr. telegrammi dell’ANPI: archivio ISRAT, S. Libera, b. 2
118 Lajolo, op. cit., p.31
119 Cfr. la relazione del Ministero dell’Interno – Direzione generale della PS – Divisione A.C.B. – Sezione II, Roma, 29/08/1946: Archivio Centrale Dello Stato, Ministero interno, PS, 1944-46, II sezione, busta 69.
144 Rossi, op.cit., p. 62
145 Dondi, op. cit., p. 163
146 Ibidem
147 Lajolo, op.cit., p. 64
148 Ibidem, pp. 69-70
149 G. Gerbi, I giorni di Santa Libera, “L’eco del lunedì”, 9 ottobre 1995
151 Rossi, op.cit, p. 65
152 Ibidem, p. 36
153 Renosio, op.cit., p. 282
154 G. Gerbi, I giorni di Santa Libera, “L’eco del lunedì”, 30 ottobre 1995
155 Renosio, op. cit., p. 282
156 Ibidem
157 Dondi, op.cit., p.189
170 Levi, Rugafiori, Vento, op.cit., pp. 305-306
171 Gerbi, I giorni di S. Libera, 6 novembre 1995
172 Lajolo, op.cit., p.138
174 Un ingente quantitativo di armi rinvenuto nella “Casa del popolo” di S. Marzanotto, “Il Cittadino”, a. LXXXVIII, n.57, 21 luglio 1948
175 Ibidem
176 Gerbi, I giorni di S. Libera, 13 novembre 1995
177 Ginsborg, op.cit., p.59; un’ultima spontanea protesta contro il nuovo clima politico e giudiziario favorevole alla riabilitazione dei fascisti avviene il 18 febbraio 1949, quando “circa 200 operai metallurgici dello stabilimento Way-Assauto, tutti ex-partigiani” improvvisano “una manifestazione di protesta davanti al palazzo della prefettura […] per la scarcerazione del Principe Borghese”; relazione prefettizia, 28 febbraio 1949, ACS, PS 1949, b. 4, f. Asti
179 Lajolo, op.cit, p. 141
180 Renosio, op. cit., p. 302
181 Recchioni, op.cit., p.12
182 Memoria scritta da Armando Valpreda sull’esperienza in Cecoslovacchia, s.d.: Archivio ISRAT, S. Libera, b.2
183 Lajolo, op.cit., pp. 149-150
184 Ibidem
Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (Agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno accademico 2009/2010

Nei rapporti e nella stampa sindacale di questo periodo frequenti sono i riferimenti ai diffusi fenomeni di “free-riding”, ovvero le azioni portate avanti autonomamente dai lavoratori: questo discorso riguarda sia quelli che non sono iscritti al sindacato e che anzi hanno rapporti ostili con i sindacalizzati e i politicizzati, espressione di tendenze individualiste e corporativistiche; sia però anche la base stessa del sindacato che in più occasioni manifesta la propria insoddisfazione verso i propri dirigenti, a causa di quella che è considerata una moderazione eccessiva: “Bisogna cominciare a preoccuparsi dell’orientamento delle masse, che dimostrano di avere una mentalità primitiva impressionante. Va diffondendosi fra i lavoratori l’opinione che vi sia dell’inettitudine da parte dei dirigenti sindacali, quindi bisogna fare opera di chiarificazione rendendo edotti i lavoratori delle difficoltà serie che incontriamo e della nostra debolezza, che ci impedisce di fare molti scioperi […]. Le masse non sono facili alla depressione ma alla esasperazione, vi è uno stato d’animo molto pericoloso”. <379
Ma l’autunno doveva rivelarsi ancora più aspro per l’Alta Italia. A fine agosto ebbe luogo una rivolta di partigiani, estesa dal Piemonte alla Lombardia, con episodi di solidarietà anche in Liguria ed Emilia: originata nelle montagne sopra Asti dalla destituzione di Carlo Lavagnino, già comandante partigiano entrato poi nella polizia ausiliaria, presto divenne un moto generale che coinvolse complessivamente 1300 uomini riarmatisi e datisi alla macchia nei monti settentrionali. Il governo De Gasperi, allarmatissimo, fece circondare le zone ribelli dalle forze di polizia e ordinò l’arresto dei capi partigiani per “insurrezione armata”. Il PCI condannava sui propri giornali l’agitazione come una trama eversiva di destra ad opera di “ignoti provocatori”, pur se Scoccimarro ebbe ad affermare che tale movimento era guidato da “trotzkisti e spartachisti”. Intanto, per mediare con gli insorti si attivavano gli esponenti socialcomunisti più rispettati quali, oltre a Nenni, Pietro Secchia e Davide Lajolo. Il 27 agosto a Milano si radunarono i comandanti di 77 formazioni partigiane per solidarizzare con la ribellione in atto e per negare fiducia alla politica conciliatoria dell’ANPI (l’Associazione nazionale partigiani italiani, di area socialcomunista). Su proposta dei militanti della Federazione Libertaria Italiana (raggruppamento effimero, nato da una scissione della Federazione
anarchica) e dell’Unione Spartaco (organizzazione socialista indipendente romana, guidata da Carlo Andreoni), fu quindi dato vita ad un autonomo Movimento di Resistenza Partigiana. Dopo questa presa di posizione, 28 formazioni si schierarono sulle Prealpi, diffidando carabinieri ed autorità da eventuali tentativi repressivi, mentre anche la Federazione nazionale combattenti e reduci dei campi di sterminio dichiarava il suo appoggio al movimento. In una riunione del 28 agosto il governo era quindi costretto a prendere provvedimenti a favore dei partigiani, tra i quali la libertà provvisoria per gli antifascisti detenuti in seguito ad azioni armate compiute sino al luglio ’45 e l’accettazione degli ex combattenti della resistenza negli organici della polizia. Per comunicare tali decisioni al movimento partigiano, l’esecutivo inviò a Milano il ministro della difesa Facchinetti. In breve le promesse del governo non vennero mantenute e i dirigenti comunisti, socialisti, azionisti convinsero gli insorti (sui quali in breve sarebbe arrivata un conto repressivo piuttosto salato) a riprendere la strada di casa. <380
[NOTE]
379 Verbale riunione straordinaria Ce camerale, 27 luglio 1946, p. 4, cit. in J. Torre Santos, op. cit., p. 173
380 Sulla rivolta di Lavagnino cfr. M. Dondi, La lunga liberazione, Editori Riuniti 2004 e M. Lampronti, L’altra resistenza, l’altra opposizione, Lalli 1984
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017