Attentati a Pola tra il 1946 ed il 1947

Una fotografia scattata a Vergarolla il 18 agosto 1946 pochi minuti prima della strage: la freccia nera indica Mario Angelini; Bruno Castro, protagonista dell’intervista, è il terzo bambino accucciato da destra. – Archivio Bruno Castro/Archivio Avvenire – immagine qui ripresa da Lucia Bellaspiga, art. cit. infra

Un colpo secco come di pistola, poi la fine del mondo: un’esplosione frantuma le rocce su cui migliaia di persone si stanno godendo l’assolata domenica di agosto, la pineta divampa in un rogo, il mare si arrossa di sangue e i gabbiani impazziti si contendono i resti umani che piovono dal cielo. Mentre un fungo di fumo si alza dalla spiaggia, per un raggio di chilometri la città intera sobbalza mandando in pezzi vetrine e finestre. Pola, Italia, 18 agosto 1946, oggi 75 anni fa.
Fu il primo attentato terroristico della storia della Repubblica italiana e il più sanguinoso, più di Piazza Fontana, più della Stazione di Bologna. Nella strage di Vergarolla, la spiaggia di Pola, persero la vita oltre cento persone, ma solo a 64 dei corpi polverizzati fu possibile dare un nome, per gli altri saranno i medici a fare un bilancio mettendo insieme i pezzi e contando le membra. Un terzo erano bambini.
E come per ogni tragedia, anche per la strage di Vergarolla c’è una foto simbolo, uscita sui giornali all’indomani dell’attentato: un uomo inorridito che corre sulla riva reggendo tra le mani il corpicino inerte di una bimba vestita di bianco con la testa ripiegata innaturalmente sulla schiena. È un’immagine tuttora indelebile nella mente dei sopravvissuti, ma fino a oggi rimasta senza nome: chi era quella bimba? Chi era l’uomo che l’aveva raccolta? Dove la stava portando? Era forse sua figlia?
«Ricordo quel preciso momento, io avevo 14 anni», ci racconta per la prima volta dal Canada Bruno Castro, istriano nato a Pola nel 1932, «nella grande confusione che seguì lo scoppio mi trovai di fronte mio cognato Mario Angelini, correva con gli occhi sbarrati tra i feriti e i cadaveri tenendo quella bimba tra le mani. Di lei non vedevo il viso, perché la testa era ciondoloni dietro la schiena, vedevo solo dei riccioli neri sul vestitino bianco. Mario continuò a correre e la depose su un camion che portava via i primi corpi, ma intanto mi gridò di correre a casa da mia mamma».
Dopo 75 anni, dunque, il fermo immagine si rianima e ci racconta inediti agghiaccianti particolari su quella che incredibilmente è rimasta la più sconosciuta delle pagine della nostra storia repubblicana. “Avvenire” ha già raccontato in più riprese quanto avvenne quel giorno e il contesto storico/politico della strage di Vergarolla, sulla base delle indagini storiche e dei tanti testimoni oculari ancora in vita, ma il vivido racconto di Bruno Castro, riuscito a fuggire dalla Jugoslavia di Tito solo nel 1963, getta nuova luce e conferma tanti elementi.
«Quel giorno a Pola si svolgevano importanti gare di nuoto presso il Club patriottico della Pietas Julia, per questo migliaia di polesani affollavano la spiaggia e intere famiglie, dopo aver assistito alle gare del mattino, attendevano quelle del pomeriggio mangiando e riposando sotto la pineta», a pochi passi dai 28 grandi ordigni bellici stoccati da molti mesi sulla spiaggia e del tutto inoffensivi in quanto disinnescati dagli artificieri sotto il controllo degli anglo-americani. «La mattina avevo fatto la gara dei 400 metri e ora con gli amici giocavamo a “manette”, si tiravano in aria cinque sassolini e li si doveva riprendere tutti insieme al volo. Fu allora che udimmo il primo colpo».
«Noi bambini giocavamo sempre a cavalcioni di quelle mine e teste di siluri, le mamme ci stendevano sopra i costumi ad asciugare”, ci aveva già raccontato Claudio Bronzin, allora 12 anni, che quel giorno si salvò ma perse i familiari e tanti amici. Anche lui, come Bruno Castro, aveva sentito quel colpo «di pistola» prima dell’inferno, sono tanti i testimoni che lo raccontano. E fu Scotland Yard a scoprire subito che quello “sparo” in realtà non era altro che l’innesco dell’attentato doloso, il detonatore a tempo impostato per fare strage tra gli italiani: ambienti jugoslavi tentarono subito di parlare di “incidente”, ma i loro alleati anglo-americani sapevano bene che i 28 ordigni così com’erano non avrebbero mai potuto esplodere, erano stati riattivati per quel giorno.
La manifestazione sportiva della Pietas Julia era infatti patriottica, la guerra era finita ovunque da tempo ma l’italianissima città di Pola attendeva ancora con il fiato sospeso di conoscere il suo destino: a Parigi in quei giorni le potenze vincitrici ridisegnavano i confini adriatici e i polesani intendevano così ribadire agli occhi del mondo la disperata volontà di restare italiani e non essere abbandonati alle mire espansionistiche del maresciallo jugoslavo Tito.
«Ho ben chiaro nella memoria quel primo sparo – continua Bruno Castro nella sua casa di Toronto, alle pareti i bassorilievi in legno con gli scorci della sua Pola, l’Arena romana, l’arco dei Sergi, il tempio di Augusto -, subito dopo un bambino urlò e vidi tante persone correre verso di lui pensando fosse stato colpito. Ma proprio mentre andavano in quella direzione, esplose tutto. Io scappai lontano, tornai solo dopo dieci minuti e vidi che la pineta era in fiamme. C’erano adulti che correvano con i feriti verso dei camion inglesi. Fu lì che incontrai il marito di mia sorella Lucilla, che era a Vergarolla come allenatore di nuoto ed era volontario nei vigili del fuoco, tra le mani aveva la bimba senza testa. C’era una grande confusione, resti umani dappertutto, le onde rosse e quei gabbiani… Lucilla il giorno dopo è entrata in travaglio d’urgenza dopo aver scoperto che tra i morti c’era la sua migliore amica. Tutti a Vergarolla abbiamo perso qualcuno di caro, intere famiglie sono scomparse».
Solo quel giorno ai polesani fu chiaro che il regime comunista di Tito non avrebbe mai ceduto alla regola dell’autodeterminazione dei popoli e che rimanere a Pola sarebbe stato impossibile. Vergarolla si comprende bene solo se la si contestualizza in un dopoguerra che in Istria restava ancora guerra, con i rastrellamenti e i campi di concentramento di Tito ancora ben attivi, e con un’escalation di azioni violente anti-italiane che preparavano al peggio: solo due mesi prima i militanti filojugoslavi avevano addirittura fermato il Giro d’Italia e sparato sulla polizia civile, mentre la domenica precedente un’altra bomba aveva fortunatamente fatto cilecca sulla spiaggia di Trieste durante una gara di canottaggio. Dagli archivi di Londra (che ancora tanto devono svelare) un documento dell’epoca attesta la “volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva”: Pola deve svuotarsi e diventare a tutti i costi slava.
«E poi la città si svuotò davvero con il grande esodo del ’47 – riprende Bruno Castro -. I miei genitori furono tra i pochi che decisero di restare perché mio padre era comunista convinto, aveva le sue idee… Ma la vita divenne impossibile, non esisteva alcuna libertà. Anch’io come tutti ho optato per partire e restare italiano, ma il regime mi rifiutava l’opzione con la scusa che la nostra famiglia era di origini “croate”. Ovviamente il cognome Castro dice tutt’altro, la verità è che avendo in famiglia membri del partito sarebbe stata un’onta per il regime se fossimo partiti. Così negli anni ’50 con alcuni amici ho provato a scappare via mare dalla Jugoslavia, ma qualcuno ci ha tradito. Tanti hanno tentato di fuggire in barca di notte ma sono spariti nel nulla… Ho anche dovuto fare il soldato sotto Tito – racconta mostrando l’album di foto che lo ritrae tra tanti giovani in uniforme sportiva attorno al dittatore in visita -. Di politica nessuno fiatava, c’era tanta paura. Persino Mario ha sempre taciuto, morto a Pola 15 anni fa senza parlare più di Vergarolla né di quando da pompiere si calava nelle Foibe alla ricerca di suo fratello, mai ritrovato. Bisognava dimenticare e vivere».
Finì anche in cella, il giovane Bruno ormai elettromeccanico nei cantieri navali di Pola, accusato di sabotaggio per un normale guasto ai motori della barca che portava gli ufficiali, «è già buono che non mi hanno mandato a Goli Otok», il più infernale dei gulag sull’Isola Calva. «Finalmente nel 1963 con mia moglie Maria Ghersini di Dignano, che ha 89 anni come me, siamo riusciti ad avere il permesso di partire e oggi in Canada facciamo parte di una nutrita comunità di Giuliano-Dalmati fuggiti fin quaggiù ma sempre rimasti istriani». […]
Lucia Bellaspiga, Anniversario. Ha un nome l’uomo della foto della strage di Vergarolla, Avvenire.it, 18 agosto 2021

Il 18 agosto del 1946, la spiaggia di Vergarolla, a Pola, era particolarmente affollata. Dovevano tenersi infatti le gare di nuoto per la coppa Scarioni, organizzata dalla società nautica italiana Pietas julia.
Poco dopo le due del pomeriggio, iniziò una serie di esplosioni a catena che devastarono l’area, uccidendo più di 100 persone e ferendone molte altre. A provocare la strage fu l’esplosione di materiale bellico disinnescato che, come fu chiarito in seguito, non era stata accidentale.
Lo scoppio di Vergarolla segnò il momento in cui la maggior parte degli italiani in città capirono che l’esodo non era più rimandabile, e aprì altre pagine dolorose della storia del confine a nord-est, rese ancora più amare dal fatto che, dopo tutto questo tempo, la strage di Vergarolla è poco conosciuta e ricordata.
[…] Tra il 25 e il 26 aprile 1945, in Istria sbarcarono le forze militari dell’esercito jugoslavo, che nel giro di una settimana presero il controllo del territorio. Erano presenti anche le forze tedesche e quelle della Repubblica di Salò, per quanto fossero assai esigue. La città di Pola era stata bombardata da parte degli angloamericani tra il 1944 e l’inizio del 1945, ma per i suoi abitanti, per certi versi, lo scontro vero e proprio avvenne solo alla fine della guerra, a partire dal mese di maggio del 1945, con l’entrata in città delle truppe jugoslave e la resistenza da parte dei tedeschi, nonostante ormai anche in Germania la partita fosse finita. La popolazione civile, che era composta totalmente da italiani, visse perciò per un periodo sotto il controllo jugoslavo.
In seguito, dopo gli accordi del mese di giugno, la Venezia Giulia viene ripartita in due zone: la zona A, sotto il controllo angloamericano, e la zona B, sotto il controllo jugoslavo. Non si tratta della stessa ripartizione tra zona A e zona B che venne fatta nel 1947 e che durò fino al 1954: infatti, secondo la suddivisione che durò dal 1945 al 1947, nella zona A rientravano sia Trieste sia Pola, che era quindi considerata ufficialmente un territorio italiano in attesa che fosse definito un trattato che stabilisse una volta per tutte il destino di queste terre. Nel frattempo, delle commissioni si occupavano di valutare la consistenza nazionale italiana, croata e slovena sul territorio.
Il 10 febbraio del 1947, con le risoluzioni del trattato di Parigi, l’Istria venne attribuita alla Jugoslavia e portata via all’Italia dopo il ritiro, nel settembre del 1946, delle truppe angloamericane”, continua il professor Ivetic. “Fu allora che iniziò l’esodo degli italiani”.
[…] Arriviamo così al 18 agosto, momento in cui, dopo quasi due anni di tensione, avvenne la strage di Vergarolla. “Fu un attentato drammatico che provocò ufficialmente la morte di 65 persone, anche se, secondo alcuni calcoli, le vittime furono più di 100”, racconta il professor Ivetic. “L’esplosione fu enorme, la colonna di fumo che si alzò rimase impressa nelle fotografie dell’epoca e, fatto ancora più straziante, questa fu una strage soprattutto di bambini.
Fin da subito, con l’inchiesta che venne condotta da parte delle autorità inglesi, c’era il sospetto che lo scoppio non fosse stato accidentale, ma che qualcuno avesse fatto detonare quel materiale bellico intenzionalmente. Le domande aperte sono ancora molte, nonostante ormai le interpretazioni più accreditate di quanto accaduto è che questa strage fu effettivamente un atto terroristico da parte delle forze jugoslave volto a colpire e a terrorizzare gli abitanti di Pola, per motivare ancora di più gli italiani ad abbandonare la città”.
[…] Si dimentica spesso che questa fu la prima grande strage della storia italiana, seppur contestualizzata in questa situazione di incertezza delle sorti. La dimenticanza da parte dello stato italiano è ancora più grave perché spesso si guarda a queste terre perse nel 1947 come se fossero parte di “un’altra Italia”, ancora fascista e non definitiva, dimenticando invece che la Repubblica italiana esisteva ufficialmente dal 1946 e che ad essa apparteneva di fatto anche la zona A, con Pola, nonostante fosse amministrata dagli angloamericani.
Inoltre, le terre perse nel 1947 che, ricordiamolo, comprendevano anche Trieste, la quale rientrò in Italia solo nel 1954, vanificarono anche i sacrifici compiuti durante la prima guerra mondiale proprio per mantenere quei territori.
Anche per questo, l’unico modo possibile di ricordare tutto ciò è con una profonda pietas per le vittime della strage, che erano per un terzo bambini, e per la tragedia che vissero queste popolazioni. Ricordare, inoltre, è fondamentale anche per la città di Pola, dove c’è stata una cesura drammatica nei confronti di un passato che è difficile da accettare, e che comprende questa strage e l’esodo.
La città, invece, non dovrebbe cercare di sradicarsi dalla sua storia. Si tratta di un episodio doloroso per tutti, ma oggi la Jugoslavia non esiste più. Esiste invece la Croazia, dove sono in corso alcuni studi che stanno cercando di fare luce sulle moltissime stragi avvenute nel 1945 da parte del governo jugoslavo comunista nei confronti di cittadini croati. Si stanno quindi scoprendo delle pagine dolorose di un momento storico drammatico non solo per le terre dell’attuale Venezia Giulia, ma anche per tutti quei territori che poi entrarono a far parte della Jugoslavia”.
Federica D’Auria, La strage di Vergarolla. 75 anni dopo, Il Bo Università di Padova, 18 agosto 2021

«Provocatori fascisti e monarchici – chiosava «L’Unità» – I soliti nostalgici imbrattavano i muri di scritte inneggianti al defunto duce. Nello stesso tempo si levavano grida di evviva al fascismo». L’imputazione avanzata dal quotidiano era che i ragazzi di via Quintino Sella «obbedienti più che ad amor di patria a una ben concertata manovra antidemocratica» <361 sarebbero stati lasciati fare, sotto gli occhi consenzienti della polizia. Era sotto processo l’assenteismo delle forze dell’ordine. E infatti la cosa finiva in discussione in Assemblea Costituente. Il 13 febbraio l’onorevole comunista Velio Spano, dopo aver chiesto perché proprio nella capitale non fossero state adottate idonee misure di controllo, tuonava: “La verità è che quel giorno tutta l’Italia protestava. Tutto il popolo italiano protestava nell’ordine e manifestava il suo cordoglio e la sua indignazione per l’ingiusto trattato che ci veniva imposto. Era particolarmente necessario quel giorno che questa protesta apparisse come la protesta di tutto il popolo italiano e della sua volontà di rinnovamento. Era particolarmente pericoloso che questa protesta si confondesse con provocazioni fasciste ed assumesse il volto della provocazione fascista” <362.
Grave, continuava, era che l’azione di polizia fosse stata moderata e procrastinata fino a consentire il ricorso alle armi da parte delle frange rivali, e osservava: “Si sta creando, in Italia, o si sta ricreando, sulla base della giusta protesta e della giusta indignazione del popolo italiano, un’atmosfera pericolosa per il nostro Paese, un’atmosfera nella quale possono avvenire fatti come quelli lamentati non molti giorni fa a Pola, dove una impiegata italiana, inviata dall’Italia e alle dipendenze dell’addetto alla Commissione Pontificia, ha assassinato un generale inglese” <363.
Spano si riferiva all’omicidio compiuto da Maria Pasquinelli, giovane insegnante e pedagogista di nazionalità italiana che al momento della notizia della firma del Trattato Pace – e del conseguente passaggio di Pola sotto amministrazione jugoslava – aveva reagito uccidendo con tre colpi di pistola l’inglese R. W. De Winton, comandante della Tredicesima Brigata di Fanteria a Pola. La donna, immediatamente tratta in arresto, teneva un tasca un biglietto.
“Seguendo l’esempio di 600.000 Caduti nella guerra di redenzione 1915-18, sensibile come Loro all’appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di giuliani infoibati dagli Jugoslavi dal settembre 1943 a
tutt’oggi, solo perché rei di italianità a Pola irrorata dal sangue di Sauro, capitale dell’Istria martire, riconfermo l’indissolubilità del vincolo che lega la Madre Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume, della Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale” <364.
De Gasperi si smarcava energicamente dall’insinuazione di complicità del partito di Governo mossa dal collega comunista. Ma una volta chiarita l’estraneità sua, delle autorità italiane e del Paese dall’atto della Pasquinelli, già «conosciuta come un’esaltata», non mancava di mettere in rilievo il fatto che si fosse giunti a un punto tale per cui «un’italiana sia ricorsa a simili mezzi per manifestare la propria indignazione». E terminava precisando che “la donna di sua sponte si era messa al servizio del Comitato Esodo a Pola, indipendente dai centri di assistenza italiani e in modo particolare dal Comitato interministeriale che cerca di assistere coloro che hanno voluto, nonostante le sollecitazioni da parte del Governo, abbandonare Pola in uno stato d’animo che ci è stato assolutamente impossibile di frenare. Dinanzi a questa volontà energica, tragica, eroica, che cosa resta al Governo italiano, se non di fare tutto perché essi siano bene accolti?” <365
Il cenno alla volontà tragica ed eroica degli esuli – e della donna? – rafforzava la narrazione sul sacrificio compiuto per la patria offesa, tanto che l’opinione pubblica avrebbe preso le parti di Maria Pasquinelli, riconoscendo nel suo gesto estremo la disperazione di un intero popolo, vittima di «un’atmosfera tesa e dolente, che arroventa cuori e cervelli» <366. La stampa nazionale, a caldo e prima ancora che iniziasse il processo che infine avrebbe giudicato l’imputata colpevole, avanzò l’ipotesi che «la Pasquinelli [fosse] stata indotta all’assassinio di De Winton dagli Jugoslavi per mettere in cattiva luce la comunità italiana di Pola» <367. Prontamente in diverse città italiane sarebbe partita una raccolta firme per la sua grazia <368. Abnegazione, entusiasmo patriottico, sensibilità appassionata, profonda religiosità, amore per la Venezia Giulia, sdegno per l’ingiustizia subita: chili di inchiostro misero in risalto le caratteristiche di quella che in un attimo aveva assunto le sembianze dell’ultima irredentista italiana, della novella Oberdan <369. Il crocefisso appeso nella stanza della Corte vicino al tricolore, il suo «calmo contegno», il coraggio di chi perdeva tutto senza mostrare il minimo cenno di pentimento e la sua impavida confessione, riportata da tutti i giornali: «Ho commesso il fatto». Maria Pasquinelli divenne il simbolo del martirio dei giuliani.
«Aveva visto quanto strazio venisse dai polesi avviati al grande esodo dalla città – commentava «Il Popolo» – Sentii che era necessario difenderli. […] Pensai che dovevo richiamare, con un’estrema protesta, l’attenzione del mondo su questa grave ingiustizia. Perciò ho sparato» <370.
L’avvocato scelto per difendere la donna, Luigi Giannini, era «un triestino che ha avuto il figliolo già partigiano deportato dagli slavi e ne aveva rinvenuto il corpo in una foiba e la testa in un’altra» <371, nonché un membro dell’Ufficio per le Zone di Confine, sul cui mandato di propaganda e difesa dell’italianità per conto del Governo si è già ampiamente dato conto <372. Sebbene «L’Unità» descrivesse fin da subito la Pasquinelli come una fanatica e fascista, scoprendo i suoi legami con Junio Valerio Borghese, la X Mas e i servizi segreti italiani <373, e nonostante la condanna a morte pronunciata dalla Corte Militare Alleata di Trieste – successivamente commutata in ergastolo e infine limitata a diciassette anni di reclusione in carcere; nel 1964 avrebbe ottenuto la grazia – la narrazione del suo martirio si cristallizzò come un mito della destra nazionale duro a morire. Ancora nel 2013, in occasione della ricorrenza del centesimo compleanno e del successivo decesso della Pasquinelli, essa veniva descritta come una pasionaria, un’eroina, un fiore nato da un pantano, un esempio di coerenza assoluta, una martire della patria <374.
[NOTE]
361 La fiera protesta dei romani contro l’ingiusto trattato di pace, «L’Unità», 11 febbraio 1947.
362 AC, intervento di Velio Spano (PCI), seduta del 13 febbraio 1947, p. 1202.
363 Ivi, p. 1203.
364 C. Cernigoi, Dossier Maria Pasquinelli, n. 47, «La Nuova Alabarda», Trieste, 2013, p. 22; cfr. anche R. Turcinovich, La giustizia secondo Maria. Pola 1947: la donna che sparò al generale brigadiere Robert W. De Winton, Del Bianco Editore, Udine, 2008 e C. Mocavero, La donna che uccise il generale. Pola, 10 febbraio 1947, Ibiskos, Empoli, 2012.
365 AC, intervento di Alcide De Gasperi (DC), seduta del 13 febbraio 1947, pp. 1203-1204.
366 Cupe giornate a Pola mentre continua l’esodo, «Il Corriere della Sera», 12 febbraio 1947.
367 Generale inglese ucciso da una donna a Pola, «Il Corriere della Sera», 11 febbraio 1947. La stessa ipotesi era avanzata da «La Stampa», Generale inglese ucciso da una donna a Pola.
368 A. M. Vinci, Per quale italianità?, cit., p. 345. Cfr. anche G. Dato, Vergarolla. 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda, LEG, Gorizia, 2014.
369 Inconsciamente la Pasquinelli ha fatto arrestare Parri?, «L’Unità» (ed. del Piemonte), 27 marzo 1947.
370 Maria Pasquinelli davanti ai giudici. “Ho commesso il fatto”, «Il Popolo», 20 marzo 1947.
371 Il processo Pasquinelli. Prime battute della difesa, «Il Popolo», 21 marzo 1947.
372 Cfr. D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità. L’Ufficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945-1954), cit.
373 Una fanatica ricercata come fascista ha ucciso il generale De Winton, «L’Unità», 12 febbraio 1947.
374 La pasionaria dell’Istria. Maria Pasquinelli omicida per amore di Patria, «Il Resto del Carlino», 24 marzo 2012; Si è spenta Maria Pasquinelli, l’insegnante di Pola che uccise il generale De Winton “oppressore” della terra istriana, «Il Secolo d’Italia», 4 luglio 2013; Maria Pasquinelli: l’ultima irredentista di Pola, «Avvenire», 17 luglio 2013. Merita riportare una frase dall’articolo dell’«Avvenire», firmato Lucia Bellaspiga: «Ma perché una maestra elementare di Milano, amatissima dai suoi alunni (ancora oggi) per l’assoluta abnegazione verso gli ultimi, sempre schierata dalla parte dei più deboli e sfortunati, era diventata assassina e in una terra così lontana? Ed era soltanto un’assassina, oppure dietro il suo gesto, esecrabile e tremendo, c’era quell’afflato per cui ad esempio un Guglielmo Oberdan, impiccato dagli austriaci per aver organizzato un attentato irredentista, per noi che gli dedichiamo le piazze, era un patriota?».
Vanessa Maggi, La città italianissima. Usi e immagini di Trieste nel dibattito politico del dopoguerra (1945-1954), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Anno Accademico 2018-2019

[…] L’ufficiale di collegamento della Franchi tra il Friuli, Milano e la Svizzera sarebbe stato il comandante del gruppo a Milano, Sandro Cicogna, ma ricordiamo che anche il dirigente osovano Candido Grassi Verdi faceva parte dell’organizzazione di Sogno. Inoltre nella zona operava una missione collegata alla Rete Nemo della Special force diretta dal maggiore Page, di cui facevano parte il triestino Riccardo De Haag (che da Milano curava le trasmissioni radio della Franchi per la quale aveva il nome di battaglia di Fausto) ed il capitano di corvetta Luigi Podestà Puccini, che aveva avuto dei contatti piuttosto torbidi con i nazifascisti. De Haag annota in un suo appunto che dei “documenti inviati da Missione Puccini” e “rimessimi tramite mio corriere da Puccini per inoltro Roma via Svizzera consegnati 12/2/45 a Sandro Cicogna della Franchi che li ha portati a Berna il 13”.
Alla fine della guerra
“Mi trovavo affacciata ad una finestra dell’edificio della X Mas sito a Milano in piazza Fiume quando la mattina del 26/4/45 avvenne l’adunata della Mas nella sottostante piazza, così potei assistere a tutta la cerimonia e potei ascoltare il discorso del Borghese”, narrò la teste Pasquinelli al processo Borghese.
Poi vi fu la resa, davanti al maggiore Argenton (presenza costante in questo racconto), e Borghese rimase fino all’8 maggio in una sorta di arresti domiciliari “sorvegliato dai partigiani” in un appartamento, quando il capo dell’OSS (la futura CIA) James Jesus Angleton lo prelevò per portarlo a Roma, dove iniziò la sua detenzione in attesa del processo che si svolgerà un paio d’anni dopo. Angleton, che da giovane aveva vissuto in Italia e non nascondeva le proprie simpatie per il regime fascista, vi era ritornato alla fine del 1944 come responsabile dell’X-2, il controspionaggio dell’Office of strategic services (OSS), che poi prenderà il nome di Central intelligence agency, la CIA. Faceva parte dei piani di Angleton mettere in salvo i vecchi arnesi del fascismo ormai sconfitto per poterli poi “riciclare” in funzione anticomunista (ciò avvenne anche con i nazisti, che vennero coordinati in una struttura diretta dal generale Reinhard Gehlen, la Rete Gehlen appunto, che negli anni ‘50 fu assorbita dai servizi della Germania occidentale). E fu sempre Angleton, una volta diventato dirigente della CIA, a manovrare l’opera di destabilizzazione in Italia, promuovendo le varie formazioni paramilitari anticomuniste che tanta parte ebbero, negli anni a venire, nella strategia della tensione, da Portella delle Ginestre fino alle stragi degli anni ’70 e che produsse tanti morti e tante tragedie.
A guerra finita
“Mi preoccupai moltissimo anche quando mi avvidi che Trieste e Pola soltanto erano state occupate dalle forze angloamericane (…) decisi di tornare nella Venezia Giulia per seguire sino all’ultimo la questione giuliana. Usai uno stratagemma con il Ministero della istruzione italiana: mi feci mandare a Roma poi rifiutai l’incarico e venni nella Venezia Giulia. Così Milano mi riteneva a Roma (perché io sono maestra a Milano) e Roma riteneva che fossi a Milano. Questo lo feci per poter usufruire dello stipendio”.
Se fosse vero si tratterebbe di una pesante truffa ai danni dello Stato, ma è lecito dubitare che nessuno se ne fosse accorto per due anni; d’altronde emerge anche che in quel periodo la maestra si occupava di una sorta di ufficio di assistenza organizzato a Pola (presumibilmente in forma ufficiale).
Ad esempio l’ex deputata di Forza Italia Antonietta Marucci Vascon ha riferito quanto le avrebbe detto suo marito, il cineoperatore Gianni Alberto Vitrotti, che era stato inviato a Pola nel 1946 a documentare la situazione. Pasquinelli avrebbe avuto un ufficio vicino al Municipio nel quale dava consigli ed assistenza a chi voleva andare in Italia ed avrebbe detto a Vitrotti che era in pericolo perché documentava la situazione istriana e c’erano già stati dei morti (non risulta peraltro che alcun giornalista sia stato ucciso a Pola in quel periodo), perciò lei stessa dormiva nelle casse da morto vuote nella cappella del cimitero e suggerì a Vitrotti di fare altrettanto. L’ex parlamentare ha così concluso, in modo piuttosto melodrammatico: in tal modo “si salvarono la vita”.
Dalla stampa apprendiamo che il 25/11/45 Pasquinelli giunse a Trieste per lavorare al Provveditorato agli Studi della città e prese alloggio, il 16 dicembre successivo, in una stanza d’affitto in via Manzoni 4, dove, dichiarò la sua padrona di casa, dava a volte ripetizioni a studenti ma faceva vita ritirata ed a volte si assentava per diversi giorni, senza lasciare detto dove andasse, tranne ogni tanto quando diceva alla portinaia che andava a trovare il fratello ricoverato a Udine per tubercolosi.
Nel gennaio 1946 chiese a Mirabella, uno dei proprietari del quotidiano triestino (collegato al CLN giuliano) La Voce Libera, di diffondere in tutta Italia un articolo sulla questione giuliana, e poi “ottenne anche dei finanziamenti dalla Dc e dal Partito d’Azione ed entrò in contatto con vari studenti ed esuli istriani. A partire dal giugno 1946 – quando i ministri degli Esteri delle varie nazioni iniziarono a riunirsi a Parigi in preparazione della Conferenza di Pace – la Pasquinelli prese ad accarezzare l’idea di assassinare un alto ufficiale alleato a Pola, in segno di protesta. Ma il progetto fu rinviato, fino a quando la decisione di consegnare Pola alla Jugoslavia non divenne irrevocabile. I suoi viaggi a Pola iniziarono nel luglio 1946. Qui lavorò per il Comitato per l’Esodo fino al 12 gennaio 1947. La data dell’omicidio fu decisa l’8 febbraio. […] Considerazioni generali: la donna è sincera, determinata e senza scrupoli”
Strategia della tensione in Istria
Nel biennio 1946-1947, vari rapporti dell’intelligence alleata parlano di “elementi del separatismo siciliano” nella Venezia Giulia e a Trieste. Presenze decisamente sospette, vista la lontananza geografica con la grande isola mediterranea. Nel giugno 1946, il controspionaggio del SIM segnala la presenza nel capoluogo giuliano di “due militanti dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (EVIS), provenienti da Catania: Tullio di Mauro, nato a Trieste nel 1923, ed Enzo Finocchiaro, nato a Catania nel 1925”. I due sono in possesso di speciali documenti di identità che certificano la loro appartenenza all’EVIS, firmati da un certo “colonnello Spina”.
Nell’estate del 1947, Londra scrive di uno Spina “comandante del Terzo corpo volontari della libertà (3° CVL) nella Venezia Giulia”. Si fa il nome dell’Unione monarchica italiana (UMI), un partito che, secondo lo spionaggio italiano, finanzia le attività terroristiche della banda Giuliano, dell’EVIS e di altre formazioni separatiste in Sicilia, Calabria e Basilicata tra il 1945 e il 1947. Il collegamento tra Salvatore Giuliano e l’UMI, a Roma, viene garantito dal neofascista catanese Franco Garase, alias “lo zoppo”, da Caterina Bianca, ex agente dei servizi segreti della RSI, e da Silvestro Cannamela, ex milite dei commandos della Decima Mas al Sud.
Turcinovich dedica un capitolo del libro-intervista a Maria Pasquinelli ai “verbali delle riunioni del CLN” istriano a Pola nel 1946, pubblicati a cura di Pasquale De Simone (che dovrebbe avere fatto parte di questo CLN) dall’ANVGD di Gorizia nel 1990.
In sostanza il CLN di Pola chiedeva un “plebiscito che assicurasse alle popolazioni della Venezia Giulia di decidere del proprio destino), ma, afferma De Simone, “neanche i parlamentari amici come De Berti” vollero “occuparsi della faccenda”. Nel periodo erano in corso le consultazioni diplomatiche per la stipula del Trattato di pace che doveva definire i confini d’Italia, non solo il confine orientale, ma anche i territori da cedere alla Francia ed i confini dell’Alto Adige e le colonie.
Nel maggio 1946 le riunioni verbalizzate da De Simone mostrano un dibattito piuttosto agguerrito, a cominciare dalle parole di tale Coslovi (“nessuna causa si vince senza sangue, dobbiamo agire, abbiamo della gente disposta a tutto, un moto di popolo può risolvere”), per proseguire con quelle di un tale Laganà (anche questo indicato senza il nome di battesimo): “bisogna far sì che in Italia si rendano conto della nostra situazione e di quella che verrebbe a crearsi nell’Istria nel caso di una cessione alla Jugoslavia. Le mozioni a questo scopo servono a poco; bisogna creare disordine o fare in genere qualcosa di forte”.
Ed infine un certo Rusich: “La popolazione si sentirebbe rincuorata da una dimostrazione. Chi non è disposto a dare la vita perché qui non vengano gli slavi? Io sono disposto a darla (…) siamo dalla parte del diritto, per questo diritto dobbiamo lottare senza paura di dover spargere del sangue, anzi proprio dal sangue sorgerà per noi un maggior diritto”.
A questi propositi di creare una vera e propria strategia della tensione si mostrarono contrari altri membri del CLN, Porcari, Massimo Manzin, De Luca e Villa. Ed ancora va citata la dichiarazione di Leonardo Benussi: “noi partigiani italiani dobbiamo cancellare un marchio (…) d’aver combattuto con Tito (…) per salvare l’Italia nell’Istria e siamo disposti a combattere contro Tito per affermare la nostra italianità”.
Ma qui si interrompe l’analisi dei verbali del CLN pubblicata da Turcinovich e non siamo in grado di sapere quale linea sia alla fine passata. Però bisogna aggiungere la testimonianza di Mario Merni, dell’Associazione Partigiani Italiani di Pola, che a proposito di Pasquinelli dichiarò: “Veniva spesso a rincuorarci, garantiva il suo aiuto e ci parlava di un colpo di stato caldo”.
La strage di Vergarolla
Turcinovich aveva introdotto i verbali del CLN con queste valutazioni: “alcuni momenti del dibattito all’interno del CLN che è giusto percorrere perché spiegano l’atmosfera di quel 1946 a Pola, e forse sono una chiave di lettura della strage di Vergarolla ed anche del gesto estremo di Maria Pasquinelli che si sentiva coinvolta in quelle giornate di convulsa ricerca di una soluzione più di quanto potesse sospettare chi l’aveva incontrata e conosciuta”.
La strage di Vergarolla, dunque, che provocò 87 morti e decine di feriti tra i partecipanti ad una festa popolare. Che ne dice Maria Pasquinelli?
“Ricorda Vergarolla? Certo che ricorda, posa la fronte sul palmo della mano: ci dovevo essere anch’io, ci andavo spesso, ma scelsi una spiaggia diversa proprio in quel giorno, fu terribile”.
Quel giorno, il 18/8/46 a Vergarolla il circolo canottieri Pietas Julia di Pola aveva organizzato una festa sportiva popolare che prevedeva, oltre alle gare di canottaggio anche chioschi gastronomici, ed intrattenimenti. Ed anche l’esule Marina Rangan dichiarò che proprio quel giorno suo padre si impuntò per non andare a Vergarolla: “remava mio padre perché aveva deciso che si andava a fare il bagno proprio lì e non a Vergarolla con il barcone pieno di gente, come avrebbe voluto mia madre. Normalmente lui l’accontentava sempre, per il quieto vivere, invece quella volta si impuntò, forse per un provvidenziale sesto senso”.
Curiose queste forme di telepatia preammonitrice, considerando anche che “l’annuncio della riunione”, come scrive Lino Vivoda “venne pubblicato per parecchi giorni sul quotidiano locale italiano (…) come un implicito appello per la partecipazione in massa”, perché “ormai qualsiasi occasione di pubblica riunione era diventata per la cittadinanza motivo di corale dimostrazione d’italianità”. Ciononostante la patriota Pasquinelli proprio quel giorno disertò la spiaggia di Vergarolla, spiaggia sulla quale “giacevano accatastate ventotto mine marittime, residuato di guerra, prive di detonatori ma non vuotate dell’esplosivo in esse contenuto. Nottetempo quel deposito di morte fu riattivato da emissari criminali, giunti da fuori città, con l’inserimento di detonatori collegati ad un congegno per il comando a distanza dello scoppio”. E le mine scoppiarono, provocando una strage.
Nei fatti, nel corso della bonifica del porto, sulla spiaggia erano state ammassate le mine (di fabbricazione tedesca e francese, contenenti tritolo) che erano state raccolte e disinnescate da artificieri provenienti dal Comando Marina di Venezia comandati dal capitano Raiola che dichiarò successivamente che i lavori di disinnesco e controllo erano stati condotti da tre squadre, e che “era materialmente possibile che avvenisse l’esplosione delle mine, perché il tritolo (…) sarebbe esploso solo con l’innesco di un detonatore”.
E questo detonatore sarebbe stato collegato ad un congegno per il comando a distanza, del quale avrebbe denunciato la presenza, in una cava vicino alla spiaggia, il futuro esule e poeta Giuseppe Bepi Nider, già ufficiale dell’esercito italiano ed all’epoca nell’Associazione partigiani di Pola, che si era recato in sopralluogo subito dopo l’esplosione assieme ad un maggiore inglese della FSS.
Del problema dell’innesco ha parlato anche il generale Antonio Usmiani, perché le modalità di innesco di questo tipo di mine erano conosciute solo da coloro che le avevano in uso: militari francesi ed inglesi e della Decima Mas. Eliminando i francesi (che non erano presenti), sospendendo il giudizio sugli inglesi (che amministrando la zona potevano e non potevano avere interesse a creare una tensione di questo tipo), va ricordato che un anno prima, il 26/9/45, il Comando Marina Alleato di Venezia aveva assunto per il proprio Centro esperienze 18 ex membri della Decima Mas del gruppo Gamma (gli uomini rana specializzati nel piazzare mine marittime sotto le navi nemiche), tra i quali lo stesso comandante Eugenio Wolk, per affidare loro il compito di bonificare il porto di Venezia. Ed Usmiani avrebbe anche fatto cenno ad un “ufficiale della Decima passato ai partigiani” nella zona di Pola.
Ci furono naturalmente varie inchieste, che però non approdarono a nulla. Negli anni, pur in assenza di prove od indizi, la responsabilità dell’eccidio fu attribuita, dalla propaganda nazionalista italiana (poi assimilata anche dal comune sentire) alla Jugoslavia per mano dell’OZNA (ad esempio lo storico Raoul Pupo scrive che tale strage avrebbe scatenato l’Esodo dall’Istria. E che “le responsabilità” della strage non furono mai chiarite, ma “l’effetto è assolutamente chiaro”, cioè avrebbe terrorizzato la popolazione italiana e sarebbe stata una delle cause scatenanti dell’esodo degli italiani.
A questo proposito viene spesso citata come “prova” un’informativa dei Servizi britannici che riferisce che “uno dei sabotatori” di Vergarolla sarebbe stato “Kovacich Giuseppe, uno specialista in azioni terroristiche nonché responsabile di numerosi delitti”, che “in passato era solito recarsi in macchina da Fiume a Trieste tre volte alla settimana”, che “lavorava per l’OZNA” e che dopo l’attentato di Vergarolla non si è più fatto vedere in città. Tali informazioni sarebbero state fornite “da una fonte attendibile del controspionaggio”. Considerando che non vi sono altri documenti a conferma (il Kovacich non è neppure stato chiaramente identificato), e che un’informativa di norma non costituisce una prova certa, ma solo il rapporto di quanto riferito da qualcuno, non riteniamo ragionevole giungere, come hanno fatto non solo le associazioni irredentiste ma anche moltissimi divulgatori storici, alla conclusione che tale documento chiarisca definitivamente la questione della responsabilità dei morti di Vergarolla.
E del resto, oltre ai dubbi sollevati da Usmiani su chi avesse la possibilità reale di innescare nuovamente le mine ammassate in spiaggia, bisogna considerare che gli Jugoslavi, impegnati all’epoca a Parigi a far valere le proprie ragioni in merito ai crimini commessi durante l’occupazione nazifascista delle loro terre, non avrebbero sicuramente tratto politicamente profitto per avere messo in atto un’azione abietta come una strage di civili. Mentre chi affermò che non era il caso di temere di dovere “spargere del sangue” era stato l’esponente del CLN istriano Rusich, come abbiamo riportato all’inizio di questo paragrafo.
Non solo. Ricordiamo anche che il 9/2/47, il giorno prima dell’attentato operato da Maria Pasquinelli, altri atti terroristici insanguinarono Pola. Due bombe a mano furono lanciate conto la sede dell’UAIS (Unione antifascista italo slava), ferendo quattro persone, una delle quali morì il giorno dopo in ospedale, mentre un altro ordigno esplose nelle vicinanze della redazione de Il Nostro giornale, e la sede della DC fu messa a soqquadro nel corso di un’irruzione “probabilmente ritenuta poco sollecita con i nostri connazionali di quelle terre”.
Claudia Cernigoi, Maria Pasquinelli: un’agente nell’Italia liberata (II), Casarrubea, 1 agosto 2013

Maria Pasquinelli durante il processo – Fonte: Giovanni Miccolis, Op. cit. infra

Sua [delprof. Giovanni Soglian] segretaria degli ultimi giorni era la trentenne insegnante Maria Pasquinelli, sconvolta per gli orrendi crimini, ma capace di mostrare imperturbabilità esterna. Fu arrestata insieme agli altri docenti che non subirono il martirio, abbandonata in una cella senza viveri. Furono le altre prigioniere, le donne croate a sfamarla in quei giorni di dolore. Seguirono angherie e violenze emerse dalla relazione della stessa. Quando a Spalato arrivarono i tedeschi e fu liberata, si recò immediatamente dal Comando di Piazza per il permesso di disseppellire le vittime dei partigiani e, facendosi accompagnare dal prof. Camillo Cristofolini, esplorò le tre fosse comuni ricolme di puzzolenti cadaveri. Maria aveva accompagnata da ragazza suo padre, incaricato di portare i resti mortali dei caduti della Prima Guerra Mondiale a Redipuglia, e non aveva timore del contatto con le salme. Ritenevano di trovare un centinaio di morti, in base alle notizie raccolte presso il comando militare, ma vi era il doppio dei cadaveri previsti. Eseguita la macabra missione ebbero la fortuna di imbarcarsi sul piroscafo “G. Mameli” diretto a Pola ed a Trieste.
Era il 27 ottobre e la nave lungo il tragitto fu bombardata dai tedeschi. Vi furono tanti morti e perì anche il prof. Cristofolini. Il piroscafo, dopo un anno circa, fu affondato nei pressi di Muggia il 14 novembre 1944. A Trieste, fu richiesta a Maria una relazione sui fatti di Spalato, con particolare riferimento alla scuola. Una relazione di estremo interesse
[…] Maria tornò a Pola e poi a Trieste col ricordo dei tanti morti. Quanti? Non si saprà mai il numero preciso degli omicidi commessi dai partigiani in quei giorni. Sulle persone uccise si raccolsero testimonianze, talvolta contrastanti. Così, il capo gabinetto del Prefetto di Spalato, dottor Scrivano, riferì di aver visto prelevare, di notte dal carcere dove era detenuto, non meno di duecentocinquanta persone. Da altra indagine, svolta dopo la guerra, furono individuati nella zona di Spalato-Traù 53 civili e 43 guardie di pubblica sicurezza uccisi dai partigiani. Da tener conto, però, che, anche prima dell’ 8 settembre, la pubblica sicurezza aveva avuto 6 morti, i carabinieri 10, e la guardia di finanza 15. Nelle altre località della Dalmazia, al di fuori di Zara, Spalato e Traù, furono identificati 44 civili, 18 guardie di pubblica sicurezza, 16 guardie di finanza e 30 carabinieri uccisi dai titini. Maria Pasquinelli rimase scossa da quell’esperienza e meditò a lungo un gesto folle. All’anagrafe risulta Maria Anna Luisa Pasquinelli, nata a Firenze il 16 marzo 1913, da madre bergamasca e padre jesino. Si laureò giovanissima in Pedagogia ad Urbino e fu iscritta al Partito Fascista dal 1933 al 25 luglio 1943. Allo scoppio della guerra partì volontaria come crocerossina in Cirenaica ed alla vista delle sofferenze dei soldati si tagliò i capelli e si travestì per combattere unitamente agli uomini, ma poco dopo fu scoperta ed espulsa dalla Croce Rossa per indisciplina. Nel 1942 fece domanda di insegnamento in Dalmazia, laddove la comunità italiana era sotto minaccia dei partigiani. Rientrata a Trieste, fu molto attiva nel denunciare la situazione delle popolazioni slave e si inimicò anche i tedeschi che l’arrestarono minacciando la deportazione. In suo favore intervenne Junio Valerio Borghese, anch’egli interessato all’italianità dei territori slavi.
Era finita la guerra, ma la situazione delle popolazioni confinarie con la Jugloslavia non migliorò. Ed ecco che il 10 febbraio 1947 avvenne a Pola il fattaccio. Era previsto il passaggio dei poteri dagli Alleati agli slavi titini ed il brigadiere generale inglese Robert W. De Winton passava in rassegna i militari della guarnigione schierati davanti alla sede del Comando. All’improvviso si staccò dalla folla una donna, si avvicinò al generale, estrasse una pistola dalla borsetta e sparò quattro colpi. Quella donna era Maria Pasquinelli che non scappò, ma si consegnò ai militari dando loro un biglietto nel quale era spiegato il gesto. In precedenza aveva consegnato ad un amico due lettere che dovevano essere spedite, una ai “Volontari Istriani”, l’altra al “Gruppo Esuli Istriani”.
Nel biglietto era scritto:
«Seguendo l’esempio dei 600.000 Caduti nella guerra di redenzione 1915-18, sensibili come siamo all’appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di Giuliani infoibati dagli Jugoslavi, dal settembre 1943 a tutt’oggi, solo perché rei d’italianità, a Pola irrorata dal sangue di Sauro, capitale dell’Istria martire, riconfermo l’indissolubilità del vincolo che lega la Madre-Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume, della Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale. Mi ribello con il proposito fermo di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli – ai Quattro Grandi, i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare una volta ancora dal grembo materno le terre più sacre all’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o – con la più fredda consapevolezza, che è correità – al giogo jugoslavo, oggi sinonimo per le nostre genti, indomabilmente italiane, di morte in foiba, di deportazione, di esilio».
Il riferimento nel biglietto a Guglielmo Oberdan non era casuale: nei pressi del Tribunale l’eroe dell’irredentismo italiano fu impiccato il 20 dicembre 1882 e Maria si batteva per gli stessi ideali.
Quel gesto suscitò infinite discussioni sulle vere motivazioni, ma a capirle veramente forse fu proprio l’inviato dell’Associated Press, Michael Goldsmith, che scrisse:
«Molti sono i colpevoli, i polesani italiani non trovano nessuno che comprenda i loro sentimenti. Il governo di Roma è assente, gli slavi sono apertamente nemici in attesa di entrare in città per occupare le loro case, gli Alleati freddi ed estremamente guardinghi. A questi, specie agli inglesi, gli abitanti di Pola imputano di non avere mantenuto le promesse, di averli abbandonati».
Dopo due mesi si svolse il processo davanti alla Corte Militare Alleata di Trieste e Maria si dichiarò colpevole, ma spiegò che non intendeva colpire l’uomo, bensì ciò che rappresentava: gli Alleati che stavano firmando il Trattato di Pace che mutilava l’Italia. L’avvocato difensore, Luigi Giannini, era perplesso sulla linea difensiva e, conoscendo la sua profonda fede religiosa, un giorno le chiese come aveva potuto decidersi a quell’estremo gesto. La sua fu una risposta terribile: “Forse ho amata l’Italia anche più della mia anima”.
Il dieci aprile la Corte emise la sentenza che era la condanna a morte. Maria, invitata a parlare, disse: «Ringrazio la Corte per le cortesie usatemi; ma sin da ora dichiaro che mai firmerò la domanda di grazia agli oppressori della mia terra».
L’orgogliosa donna fu rinchiusa nel carcere di Perugia, quindi in quello di Venezia ed ancora nel penitenziario di Firenze. Nel 1954 la pena capitale fu commutata in ergastolo e, per effetto delle amnistie, fu liberata il 22 settembre 1964. Da quel momento vive in orgogliosa solitudine, rifiutando interviste. Le sue uniche parole furono una volta: “Sono nata a Firenze con altri due miei fratelli, in via delle Panche. Mia madre era bergamasca e di questa gente io ho la spregiudicata schiettezza. Mio padre invece era marchigiano, di Jesi”. Di tutto il resto silenzio, a coprire vicende che provocano soltanto amarezza e sofferenza.
Soltanto tre anni fa ha accettato di incontrare nella sua casa di Bergamo la giornalista Rosanna Turcinovich Giuricin per alcuni colloqui. La giornalista ne ha tratto un libro: “La giustizia secondo Maria. Pola 1947: la donna che sparò al generale brigadiere Robert W. De Winton” – Del Bianco Editore, 2008. Oggi ha 97 anni come il nostro concittadino Vincenzo Giusto. Maria non parla molto con la giornalista, ma dai colloqui e dalle testimonianze dell’amica del cuore di Maria, Giuditta Perini, vengono fuori alcuni segreti custoditi da oltre sessant’anni. Si ipotizza, così, che la pistola sia stata data da un certo Giuliano che all’ultimo momento non ebbe il coraggio di sparare. Si racconta dell’amicizia in carcere con un’ergastolana famosa, “la belva di San Gregorio” che uccise la moglie del suo amante ed i tre figli piccoli. Si accenna alla lettera che Maria scrisse alla moglie di De Winton, nonché alla visita in carcere del fratello del generale ucciso. L’autrice si sofferma sulle attività di assistenza spirituale del vescovo di Trieste, monsignor Antonio Santin, che ha sempre descritto Maria come una donna “di alta spiritualità”. La Pasquinelli rifiutò più volte di chiedere la scarcerazione, ma nel 1964 sua sorella aveva gran bisogno di assistenza e finalmente accettò la libertà per trasferirsi a Bergamo.
Al termine del libro la giornalista riferisce con commozione: «Maria Pasquinelli mi ha sempre detto che il suo morto se lo porta dietro le spalle, il suo fiato lo sente sul collo e il tempo non riuscirà a cambiare nulla della tragedia che è stata».
A conclusione delle iniziative per ricordare i 150 della nostra Unità viene presentata a cura di “Città Nostra” la pubblicazione on-line di Giovanni Miccolis “1943: Orrori in Jugoslavia” che, partendo dal racconto del nostro concittadino Vito Vittorio Pagliarulo sulla sua drammatica avventura nel secondo conflitto mondiale, si sofferma sui fatti avvenuti a Spalato nel 1943. Si tratta di episodi dolorosi, crimini commessi da tedeschi, partigiani slavi ed anche italiani che, come è detto nella prefazione “furono possibili per la mancanza di ordini e per la condotta irresponsabile dei generali, ma anche [per] quelle scellerate azioni, collegate agli avvenimenti predetti e dirette alla conquista di nuove terre, soprusi che scatenarono altre violenze, questa volta brutalità incontrollate dei partigiani slavi. Si calpestarono più volte le norme di diritto internazionale e le leggi di guerra, si commisero crimini nei confronti della popolazione inerme… …Un racconto che non lascia indifferenti, perché ha coinvolto tante persone innocenti e non è consolatorio, perché le ferite sono ancora aperte. La narrazione di quei fatti disturba, perché non ha risparmiato alcuno: in tutti i popoli belligeranti vi furono vittime e carnefici”.
Giovanni Miccolis, 1943: orrori in Jugoslavia. Dal racconto del molese Pagliarulo agli eccidi in Dalmazia, Città Nostra

fasc. 293. “7. Maria Pasquinelli, note suo mio ultimo soggiorno triestino” cc. 208 1944 gennaio 10-1945 maggio 5
Nel fascicolo sono comprese altre relazioni, non indicate nella copertina del fascicolo, relative alle popolazioni italiane dei territori della Venezia Giulia e dell’Istria nel 1943-1945:
– Maria Pasquinelli, note sul mio soggiorno a Trieste (16 ottobre-29 novembre 1944), pp. 13;
– Maria Pasquinelli, Su alcuni fatti avvenuti a Spalato dopo l’armistizio con particolare riguardo a quelli della Scuola, Milano, 10 gennaio 1944 (1ª edizione), Milano, 20 marzo 1944 (2ª Edizione), pp. 24 (“Relazione consegnata, dietro richiesta, il 12 gennaio 1944, al Ministero dell’Educazione nazionale-Ufficio territori annessi- Roma (Personalmente al gr. Uff. Felice Remondini)”;
– relazione anonima <331, Italiani e slavi nella Venezia Giulia, Milano 10 dicembre 1944, pp. 18;
– Relazione anonima, Notizie raccolta dalla via voce di testimoni e attori dei fatti (6-15 marzo 1945)”, s.d., pp. 56;
– Relazione sulla esumazione della foiba di Paione <332, s.d., pp. 3;
– Relazione anonima, Situazione attuale politico-militare: Gruppo miniere istriane Arsia -Poggio Vittorio, s.d., pp. 3;
– Interrogatori di Cesarina (pp. 2) e Nerea Negri (pp. 3), s.d. <333;
– Relazione anonima, Agricoltori istriani legionari all’ordine del giorno, s.d., pp. 4;
– Proclama intitolato, Ai nostri alleati, a tutti gli italiani, a tutti gli uomini amanti della libertà e della giustizia, del Comitato di liberazione nazionale della Venezia Giulia, 5 maggio 1945, pp. 6;
– Relazione anonima, Appunti sugli avvenimenti istriani negli anni 1943-44-45, s.d., pp. 58;
– Elenco degli italiani istriani trucidati dagli slavi-comunisti durante il periodo del predominio partigiano in Istria <334 s.d., pp. 9bis (pp. 18).
[NOTE]
331 Nella pagina iniziale della relazione (non numerata, precedente alla pagina 1) viene spiegato che questa stessa relazione doveva essere presentata, tramite alcuni giovani partigiani giuliano, dopo essere stata visionata da importanti personalità locali (M.O. Guido Slapater), al governo del sud e, in particolare, al generale Cadorna.
332 Relazione anonima e senza data.
333 Copie su carta non intestata, con l’indicazione della firma delle interessate.
334 Nell’elenco è compreso il nome e cognome, la partenità, l’età, lo stato civile, la professione, il comune di residenza, la data dell’uccisione, il luogo dell’uccisione di ogni singola vittima.
Alessandro Gionfrida, (Stanza segreta I). Elenco sommario di consistenza dell’Archivio della Commissione d’Inchiesta per i criminali di guerra italiani secondo alcuni stati esteri, Ministero della Difesa