Azioni partigiane all’Aeronautica d’Italia e alla polveriera di Caselette

Caselette (TO): una vista. Fonte: Wikipedia

La ricostruzione della 17a brigata terminò pochi giorni prima dello sbarco alleato in Francia. La Gobetti ha annotato nel suo Diario partigiano in data 15 agosto: “Radio Londra ci ha dato la notizia dello sbarco alleato in Provenza. Non voglio dar troppa importanza alla cosa; ma certo la battaglia, e con essa la liberazione s’avvicina che davvero si sia alla fine? Che non si debba affrontare un altro inverno d’occupazione? Nervi a posto. Non abbandoniamoci a troppe speranze. Le vicende della guerra non dipendono da noi. Pensiamo piuttosto a quel che dobbiamo fare qui, oggi. Comunque vada, il più difficile, il più duro ha ancora da venire” <332.
Le considerazioni della Gobetti sulla reale speranza di una fine imminente della guerra si riveleranno giuste. La Resistenza dovrà infatti affrontare un altro durissimo inverno di guerra; ma era indubbio che l’importanza strategica della Valle di Susa a fronte dello sbarco fosse cambiata nello scenario bellico internazionale. Da via di comunicazione verso la Francia e il nord Europa le Alpi diventavano per i tedeschi, dopo lo sbarco alleato in Provenza e la successiva liberazione del suolo francese, un “fronte alpino” da tenere a tutti i costi. Già dal luglio 1944 i tedeschi avevano la certezza che gli Alleati stessero preparando uno sbarco i cui obiettivi potevano essere le coste francesi o quelle italiane. La certezza era desumibile dalle notizie che giungevano ai tedeschi di grandi concentramenti navali alleati nel mare mediterraneo, in risposta ai quali in Italia l’Armata Liguria fu ristrutturata su due corpi d’armata: il LXXV, comandato dal generale Schlemmer, al quale fu affidata la difesa delle Alpi, dal confine Svizzero a Imperia, e il corpo d’Armata Lombardia, agli ordini del generale Jahn, schierato lungo la Riviera ligure, fino a La Spezia. In Francia il controllo della zona più prossima al confine era affidato al LXII Corpo d’Armata, comandato dal generale Launing, dipendente dalla 19a Armata del generale Wiese, con due divisioni di fanteria: la 148a Infanterie-Riserve-Division, tra la Costa Azzurra e la Valle della Durance, e la 157a Infanterie-Riserve-Division, tra Delfinato e Savoia <333. Lo sbarco alleato costrinse la 148a divisione a ritirarsi verso la frontiera italiana seguita dalla 157a diretta a protezione dei valichi del Monginevro, del Moncenisio e del Piccolo San Bernardo. Un mese dopo lo sbarco si concluse l’operazione di ritirata dal suolo francese delle truppe tedesche. La nuova linea del fronte di guerra seguiva l’andamento del confine presidiato dai reparti della 157a divisione per i valichi del Piccolo San Bernardo, del Moncenisio e Bardonecchia rinforzati successivamente da battaglioni e da gruppi di artiglieria fatti affluire dall’Italia. La 5a divisione assunse il comando dal valico del Monginevro al monte Ténibres, mentre la 148a divisione difendeva il tratto meridionale, quest’ultima sarà poi sostituita dalla 34a divisione di stanza sull’Appennino ligure-piemontese <334.
L’avanzata alleata, momentaneamente fermata sulla linea di confine tra Francia e Italia, richiedeva dunque alle forze nazifasciste nuove urgenze. Da una parte la necessità dell’esercito tedesco di mantenere il controllo delle vie d’accesso tra Francia e Italia contrastando con offensive particolarmente violente i tentativi dei partigiani di attaccare i nazifasti impegnati a presidiare il confine con la Francia, dall’altra la necessità di rallentare in caso di sfondamento della linea del fronte da parte dell’esercito alleato l’avanzata verso la pianura per garantirsi una più comoda ritirata.
Gli effetti derivanti da questo nuovo stato delle cose in Val di Susa furono immediati. I nazifascisti minarono una parte della galleria del Frejus e altre infrastrutture strategiche per la viabilità della valle secondo una strategia volta a rallentare, in caso di sfondamento del fronte francese, la marcia alleata verso la pianura. Sempre secondo la testimonianza della Gobetti, “già varie volte, arrivando a Oulx in treno, avevamo osservato le numerose casse d’esplosivo ammucchiate alle due estremità del ponte e sotto la galleria; i tedeschi, prevedendo sin da settembre la ritirata di fronte all’avanzare degli Alleati attraverso i monti, avevan minato il ponte per fermarli al momento buono; e il problema per noi era, una volta tanto, non di far saltare il ponte, ma d’impedir che lo facessero saltare <335.
A quel punto spettava alla Resistenza valsusina di impedire ai tedeschi di fare terra bruciata alle loro spalle durante la ritirata dalla valle. Per ciò il comando della 3a divisione Garibaldi inviava, in data 12 settembre, a tutti i comandi di brigata e di distaccamento delle formazioni garibaldine della valle il telegramma che gli era pervenuto il 7 settembre dagli Alleati. Il telegramma, rivolto a tutte le formazioni combattenti della Val di Susa, ordinava: “Nemico ha iniziato ripiegamento della Valle di Susa lasciando ai colli le retroguardie et squadre pionieri per distruzione Alt. Est necessario impacciare ed ostacolare ripiegamento Alt. Successivamente si dovranno attaccare le retroguardie e opporsi a distruzioni progettate Alt. nonostante note difficoltà est questo momento di gettarsi con tutto il peso nell’azione Alt.” <336.
Il Comando divisionale, sottolineando l’importanza del telegramma, richiamava tutti i comandi a intenderlo “come un ordine che non si discute” e invitava immediatamente i comandi a studiare il modo più efficace per ostacolare l’azione tedesca <337. L’aspettativa della Resistenza piemontese che la VII armata alleata sconfinasse in Italia dai valichi del Piemonte aveva una sua plausibilità soprattutto perché a fine estate “il confine italo-francese in più posti [era] totalmente libero oppure in mano dei partigiani” <338; e anche il Comitato militare regione piemontese aveva già inviato ai comandi dipendenti alla fine di agosto il “Piano E.26” per “l’azione generale” a sostegno della probabile “manovra a tenaglia degli anglo-americani da sud e da nord-ovest, cioè da tergo dell’arco alpino e frontalmente dalle linee oltre l’Appennino tosco-emiliano” <339.
Il 12 settembre, data del documento contenente il telegramma Alleato, la prospettiva dell’insurrezione imminente aveva dunque galvanizzato le speranze dei comandi partigiani di una vicina fine del conflitto. Le “direttive operative per la battaglia della pianura padana”, emanata dal Comando del Cvl il 18 settembre, contribuirono a corroborare quella che si rivelerà essere solo una “grande illusione”. Va segnalato, infatti, per il settore alpino che, nonostante in molti casi l’eroica resistenza dei partigiani all’avanzata tedesca verso i crinali delle Alpi italo-francesi avesse registrato tra le pagine militari più brillanti della guerra partigiana (una per tutte la difesa del Colle della Maddalena da parte della brigata GL “Rosselli” comandata da Nuto Revelli che impegnò la Werhmacht dal 17 al 27 agosto) <340, i nazifascisti riuscirono a occupare tutti i valichi alpini e a fronteggiare le colonne alleate in terra francese. Al 12 settembre il fronte italiano si trovava, per il settore centro settentrionale, al Passo della Futa, e sulle Alpi il fronte si era assestato sulla linea di confine.
A quel punto l’importanza, riconosciuta anche dagli alleati, delle azioni di guerriglia partigiana in supporto all’azione degli eserciti anglo-americani, doveva concentrarsi in quelle zone in cui si svolgevano operazioni belliche. Senza armi però era impossibile sostenere qualsiasi azione nei confronti del nemico e questo era chiaro ai partigiani della “Felice Cima” molto prima del 12 settembre. Secondo la testimonianza di Fogliazza, quando successivamente alla crisi della brigata indotta dal rastrellamento del 2 luglio si riorganizzarono le formazioni, “si è cominciato a dire qui non è più possibile sparare con il fucile o con la rivoltella del carabiniere, non si può più difendersi con queste armi, non si può più vivere in queste condizioni. Allora si è cercato di capovolgere la tendenza, andare alla fonte di produzione delle grandi produzioni” <341.
Si arrivò così all’azione militare all’Aeronautica d’Italia. La prima di due importanti azioni volute dal comando della 3a divisione Garibaldi per risolvere definitivamente il problema relativo alla carenza delle armi, una all’Aeronautica d’Italia e l’altra alla polveriera di Caselette. Lo stabilimento dell’Aeronautica d’Italia di proprietà della Fiat, sito al confine tra le città di Torino e Collegno, durante l’occupazione tedesca produceva aerei militari e materiale bellico. Nel campo d’aviazione adiacente allo stabilimento era operativa una scuola di addestramento per i piloti dell’aviazione italiana e, per quella sua duplice funzione di sito industriale e militare, diventò un possibile obiettivo dei bombardamenti alleati. In seguito alla voce, che circolava peraltro già dalla primavera del ’44, di un imminente bombardamento del sito nel mese di agosto, il Comando della 3a divisione Garibaldi decise, per non perdere un patrimonio così importante di armi e munizioni, di pianificare un attacco allo stabilimento. Dalle Squadre d’azione patriottiche (Sap), operanti all’interno dello stabilimento, “arrivarono al Comando della 3a divisione Garibaldi dei disegni dell’Aeronautica che indicavano con la massima precisione dov’erano dislocati i depositi di munizioni, le mitragliatrici, gli automezzi, i carburanti, gli apparecchi e il presidio di guardia. Questi disegni furono affidati a un comandante partigiano il quale fu incaricato di introdursi, con un pretesto, all’interno del campo per verificare se i disegni stessi corrispondessero alla realtà o meno. Costui eseguì il lavoro con il massimo scrupolo; prese contatto con i sappiti e i gappisti che lavoravano nella fabbrica e, camuffatosi da meccanico, con tuta e arnesi entrò nello stabilimento per controllare di persona l’attinenza dei progetti e soprattutto come erano organizzati i turni di guardia per la sorveglianza degli impianti. Egli fornì delle informazioni di grande importanza” <342.
Dopo un accurato controllo dell’autenticità dei disegni relativi alla dislocazione degli obiettivi sensibili e del posto di blocco in corso Francia, il Comando divisione diede l’ordine di agire immediatamente. L’attacco fu pianificato per il 18 agosto, al fine di impossessarsi del maggior numero di armi e munizioni, di carburante, automezzi ed altro materiale necessario alle formazioni partigiane; sabotare gli aerei presenti negli hangar dello stabilimento e i macchinari presenti nelle officine; dimostrare che la Resistenza poteva colpire l’invasore tedesco e i fascisti in qualsiasi punto e in qualsiasi momento. L’azione preparata nei minimi particolari da Pino Monfrino, con alcuni tecnici e operai dello stabilimento, ebbe inizio all’una di notte del 18 agosto <343. I partigiani erano consapevoli che il successo dell’azione dipendeva dall’assoluta precisione dei loro movimenti e che un errore avrebbe potuto pregiudicare tutta l’operazione così come era successo il 26 giugno. Nel campo di aviazione non vi era alcun riparo e sarebbe bastato un solo carro armato o un autoblindo per mettere a repentaglio le vite dei partigiani. All’operazione parteciparono “ben 170 garibaldini, fra i quali una trentina di soldati sovietici con i loro comandanti, tutti ben preparati e addestrati per azioni di questo tipo. I partigiani, armati solo con armi leggere e tanto coraggio, si trovarono, verso l’una di notte, al confine del campo nella direzione di Collegno. Nel punto prestabilito il comandante fece un breve rapporto e diede gli ultimi ordini. Un gruppo fu dislocato sulla destra, per costituire un posto di blocco verso corso
Francia e le strade adiacenti al campo, due gruppi al centro per snidare eventuali sentinelle dislocate nelle casematte, un altro plotone, infine, fu messo a sinistra, con il compito di puntare sulla caserma, ove vi erano venti nazifascisti. In questo modo si chiudevano in una sacca tutti i nemici e tutti coloro che avrebbero potuto comunicare con l’esterno. Ovviamente la prima cosa da fare era di tagliare le linee telefoniche e distruggere gli eventuali collegamenti radio (…) in circa due ore tutti i designati furono all’interno dello stabilimento, con i camion in moto e i vari materiali caricati. Mentre accadeva ciò altri partigiani distruggevano e sabotavano le macchine, i progetti e altri documenti. Il colpo durò circa tre ore e per la sua riuscita fu fondamentale l’ausilio degli operai che, nella fabbrica, stavano lavorando al turno di notte. I nazifascisti di guardia al campo furono tutti catturati e trasportati in montagna (…) il colpo fruttò circa duecentoquaranta mitragliatrici di vario calibro, moschetti di diversi tipi, munizioni, autocarri, carburante e materiale bellico. I partigiani non ebbero una sola vittima nell’azione e quest’ultima fu anche menzionata dalla radio alleata, che lodò il coraggio e la bravura dei partecipanti” <344.
L’azione fu portata a compimento nel giro di un’ora. Nelle tre ore successive, con la collaborazione degli operai, furono caricate su numerosi camion prelevati dagli hangar dell’Aeritalia, circa 240 mitragliatrici da 7/7, 12/7 e 22 mm, con 50.000 colpi; moschetti di vario tipo e una grande quantità di materiale utile alle formazioni partigiane. Nello stesso tempo fu messo fuori uso molto materiale bellico e furono distrutti documenti e disegni inerenti la produzione di guerra <345. Il gruppo comandato da Castagno aveva preso 200 mitragliatori con un milione di colpi, “però non sparavano sti colpi, gli italiani che lavoravano in Germania li avevano sabotati già là.” <346. Parte dei proiettili risultò quindi inefficace perché precedentemente sabotati dai lavoratori; ma vennero utilizzati ugualmente dai partigiani per verificare la funzionalità delle mitragliatrici e per l’addestramento alle nuove armi. Inoltre il crepitio continuo delle armi in funzione che riecheggiava per la Valle di Rubiana raggiungendo i tedeschi di stanza ad Avigliana, dimostrava che i partigiani della 17a brigata Garibaldi erano stati sconfitti ma non sgominati dal rastrellamento del 2 luglio, e che erano pronti all’azione.
Infatti il comando di brigata, forte del successo dell’azione all’Aeronautica, progettò un’altra ambiziosa azione alla polveriera di Caselette, “piena di armi e munizioni” <347, che fungeva anche da presidio nazifascista. Il comando di brigata, nella relazione sull’azione inviata al Comando della 3a divisione, ha scritto: “la notte del 5 settembre 1944, due nostre colonne, una autotrasportata e l’altra a piedi, la prima attraverso Rubiana, Almese, Rivera, la seconda, attraverso il Colle della Bassa, Val della Torre, accerchiarono il presidio nemico, fortificato con fortini in cemento, armati di due mitragliatrici da 20 mm, tre mortai, uno da 81 mm e due da 45 mm, e varie armi automatiche leggere. Da parte nostra attaccammo con circa 60 uomini, due mortai da 45 mm, una mitraglia 12/7 mm e due da 7/7 mm. Il nemico oppose un’accanita resistenza favorito dalla posizione strategica, per circa tre ore, ma infine l’eroismo e lo sprezzo del pericolo dei garibaldini (i garibaldini Leo e Pucci riuscirono ad infilare le canne dei loro mitra attraverso le feritoie di un fortino nemico) ebbero il sopravvento” <348. Il gruppo, formato da un centinaio di partigiani, comandato da “Deo” (molti dei quali del suo distaccamento stanziato alla Madonna della Bassa nelle vicinanze dell’omonimo colle), che aveva attraversato il Colle della Bassa discendendo da Val della Torre, raggiunse Caselette da est. Una volta raggiunta la polveriera e stabiliti i contatti con l’altro gruppo giunto dal paesino di Rivera l’attacco iniziò al lampo color rosso di un razzo. La reazione dei fascisti di guardia, protetti da feritoie e cemento armato, fu però violenta e tempestiva. Il combattimento si protrasse per un paio d’ore e “la scarsa disponibilità di munizioni ci creò serie difficoltà. Il nostro mortaista poi non riusciva a centrare i colpi e l’albeggiare poteva renderci ancora più difficile la situazione per il possibile arrivo di qualche mezzo corazzato nemico dai presidi di Alpignano o Avigliana. E non dovevamo dimenticare di essere su un terreno gessoso, con scarsa vegetazione e quindi facilmente individuabili” <349. Un razzo verde diede il segnale della ritirata. Durante il ripiegamento, che si svolse secondo uno schema precedentemente concordato indietreggiando a scacchiera per meglio proteggere i gruppi impegnati nel combattimento, un partigiano inciampò e cadde a terra. Preso di mira dal fuoco nemico riuscì comunque a mettersi in salvo perdendo però il proprio mitra. A quel punto, per non tornare al distaccamento con un’arma in meno, il comandante “Deo”, dimostrando “coraggio e sprezzo del pericolo” <350, riuscì a recuperare l’arma. Ma durante il recupero del mitra perse la pistola Beretta che un partigiano malato e non in grado di partecipare all’azione gli aveva prestato. “Deo”, senza dire nulla, tornò nuovamente sui suoi passi e, ritrovata la pistola, strisciò sul terreno raggiungendo indenne i suoi compagni nonostante le mitraglie del fortino sparassero su di lui senza tregua. Venne ammirato da tutti, il suo prestigio aumentò ancora di più tra i partigiani che gli si strinsero attorno con affetto. L’audacia dimostrata dal comandante “Deo” gli valse una citazione nella relazione del comandante di brigata sull’azione alla polveriera di Caselette, ma anche il rimbrotto dei compagni partigiani “Luci”, “Pucci”, “Augusto” e “Kiro” commissario politico del distaccamento “Faleschini”, a lui più vicini “che gli fecero notare come per il recupero di una pistola “Deo” avesse messo in pericolo la propria vita e quella degli uomini che, in qualità di comandante, stava dirigendo nell’azione <351.
Dal punto di vista militare l’azione però non riuscì a raggiungere l’obiettivo prefissato. I partigiani non riuscirono ad entrare nella polveriera per prelevare materiale bellico. Nonostante le celebrazioni del comando di brigata, che segnalava come i garibaldini fossero riusciti a entrare nel fortino nemico infliggendo perdite per dieci morti e ventuno feriti <352, l’azione dei partigiani non era riuscita nell’intento di prelevare armi dalla polveriera; rimaneva comunque una bella azione coordinata sul territorio e condotta senza perdite umane.
[NOTE]
332 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 186
333 Alberto Turinetti di Priero, “Il Fronte alpino”: 1944-1945, in Gianni Perona (a cura di), Alpi in guerra 1939-1945, p. 46
334 Ibidem
335 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 251
336 INSMLI, Le brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. II, cit., p. 324
337 Ibidem
338 Angela Trabucco, Partigiani in Val Chisone (1943-45), Tipografia Subalpina, Torre Pellice 1959, cit., p. 79
339 Giovana, La Resistenza in Piemonte, cit., p. 137
340 Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 1979, pp. 258-283
341 testimonianza di Enrico Fogliazza in, scarpe rotte eppur bisogna andare, materiale video presso Comitato Resistenza Colle del Lys
342 Testimonianza dattiloscritta giacente in originale presso l’archivio privato di Bruno Carli citata in Gian Vittorio Avondo, Valter Faure-Rolland, Walter Franco Cavoretto, Ezio Sesia, Sui sentieri dei partigiani. 59 itinerari alla scoperta della Resistenza tra le montagne della provincia di Torino, edizioni CDA, Torino 1999, cit., p. 84
343 La Borgis ricostruisce il colpo all’Aeronautica traendo la maggior parte delle notizie sull’azione dalla testimonianza di Pino Monfrino: “All’ora stabilita i partigiani, al comando di Vittorio Blandino, penetrarono nel campo d’aviazione dell’Aeritalia dalla parte di Collegno e, con una manovra a tenaglia, si diressero a gruppi verso i punti prestabiliti: un gruppo, al comando di Mario Castagno, si diresse a destra verso il posto di blocco di corso Francia, all’altezza dell’Aeritalia, con il compito di bloccare le strade adiacenti il campo; due nuclei, al comando di Pino Monfrino con l’ausilio di Tolmino (che cadde qualche giorno dopo in combattimento), si diressero verso le casematte delle sentinelle per immobilizzarle, per staccare gli impianti telefonici e mettere chiunque nell’impossibilità di comunicare con l’esterno; un terzo gruppo al comando di Vittorio Blandino, si diresse a sinistra verso la caserma dove catturarono venticinque nazifascisti” in Borgis, La Resistenza nella Valle di Susa, cit., p. 84
344 Testimonianza dattiloscritta giacente in originale presso l’archivio privato di Bruno Carli citata in Avondo, Faure-Rolland, Cavoretto, Sesia, Sui sentieri dei partigiani, cit., p. 84
345 Ibidem
346 Testimonianza di Mario Castagno in Scarpe rotte eppur bisogna andare, materiale video presso Comitato Resistenza Colle del Lys.
347 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, cit., p. 65
348 Aisrp, scaffale C, cartella 9, interno a’
349 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, cit., p. 65
350 Aisrp, scaffale C, cartella 9, interno a’
351 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, p. 65; Luciano Pasero: nome di battaglia ”Luci”, nato a Verzuolo (Cn) il 13.07.1920, residente a Terzuolo in via San Bernardo 69, di professione impiegato. Appartenente all’arma della Fanteria con grado di sottotenente di complemento. Partigiano dal 04.08.1944 al 07.06.1945 nella 17a brigata Garibaldi. Dal 04.08.1944 al 25.02.1945 con grado di comandante di distaccamento, dal 25.02.1945 al 20.04.1945 nella III divisione Garibaldi con grado di comandante di divisione, dal 20.04.1945 al 07.06.1945 Capo di Stato Maggiore di divisione;
352 Aisrp, scaffale C, cartella 9, a’
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007