Badoglio si presentava agli Alleati come l’unico personaggio in grado di fungere da valido tramite fra gli occupanti e gli occupati

Nell’ambito della progettazione amministrativa per l’Italia, la scelta alleata era caduta su una forma indiretta di controllo fondata su un modello di amministrazione dei territori occupati che prevedesse un largo impiego della struttura preesistente. La collaborazione con gli italiani prendeva la forma di uno stretto rapporto istituzionale con il governo Badoglio, in carica dal luglio 1943 e crescentemente riconosciuto dagli anglo-americani come interlocutore privilegiato all’interno del disastrato panorama politico italiano, un matrimonio che sarebbe durato fino al giugno 1944, quando, contrariamente alle direttive e ai desideri degli Alleati, il Comitato di Liberazione Nazionale prendeva le redini del governo. Una serie di domande percorrono la narrazione dell’evoluzione di questi rapporti. Innanzitutto, cosa spingeva i governi anglo-americani a cercare una tanto compromettente relazione con un esecutivo voluto dallo stesso Re che si era macchiato di complicità nell’ascesa e nel consolidamento del regime fascista e ancora imbottito di uomini reduci da un dubbio passato in camicia nera? Quali erano le motivazioni che giustificavano la mossa alleata, in netta contraddizione con la politica della resa incondizionata fino ad allora ostentata? E ancora, entrando nel dettaglio della scelta personale, perché proprio Badoglio? Perché non tentare di sostituirgli un leader dai tratti liberali, o dal rapporto con il monarca meno conflittuale, o dal seguito popolare più consistente? Perché, infine, non preferirgli una soluzione che meglio potesse essere digerita dall’attenta opinione pubblica occidentale?
Forse è qui indicato partire dalla domanda alle origini dell’intera vicenda: perché Badoglio e non altri? I prodromi di un riconoscimento de facto del ruolo governativo del Maresciallo risalivano, come si è visto, alla fine del luglio 1943 quando entrambe le potenze impegnate nel Mediterraneo dichiaravano il proprio supporto al gabinetto emerso dalle ceneri del fascismo. La politica elaborata dagli Alleati durante il semestre precedente l’arrivo in Sicilia si fondava su un consistente impiego delle risorse amministrative italiane al fine di risparmiarsi l’ingrato compito di occupare e governare la penisola tout court. Londra aveva optato per un sistema di controllo indiretto che, come sarebbe stato dimostrato dalla vicenda del doppio armistizio, prevedesse la conservazione di una autorità riconosciuta con la quale avviare una collaborazione volta al mantenimento della struttura amministrativa esistente. Nel convulso frangente in cui il bolscevismo sembrava alle porte e l’anarchia istituzionale un esito quasi scontato, Badoglio si presentava agli Alleati come l’unico personaggio in grado di fungere da valido tramite fra gli occupanti e gli occupati. In effetti, le motivazioni che avevano sostanzialmente costretto Londra e Washington ad affidarsi al vecchio militare erano due, entrambe di natura opportunistica a riflettere le difficoltà incontrate nelle fasi iniziali dell’occupazione.
Il primo e forse più evidente stimolo al riconoscimento del governo nato il 25 luglio era fornito dal ritorno sulla scena politica italiana di Mussolini, liberato dai tedeschi dalla prigionia di Campo Imperatore e posto a capo della neonata Repubblica Sociale Italiana <253. La presenza del Duce in posizione antagonista rispetto alla sovranità monarchica rappresentata dal governo brindisino rafforzava le ragioni in favore della coppia di governo formata da Badoglio e Vittorio Emanuele, presentando agli Alleati un lato positivo nella sconfortante realtà politica dell’Italia occupata: la King’s Italy era resa più accettabile al pubblico sia interno che estero dalla comparazione con l’alternativa della repubblica fascista e aveva inoltre il merito di separare il nucleo facinoroso del fascismo, chiassosamente schierato al fianco del nuovo ente statale, dalla massa del partito che aveva svestito la camicia nera ai primi segni di cedimento del regime <254. Il governo Badoglio, insomma, aveva una pretesa di legalità e godeva della fedeltà delle forze armate italiane, due fattori che lo rendevano l’unico contatto davvero utile alla causa alleata, intenzionata prima di tutto a portare avanti senza interruzioni la lotta all’esercito tedesco in Italia. È sicuramente vero che ciò che gli Alleati si trovavano fra le mani «was a symbol of sovereignty scarcely one whit more appealing to the Italian people than the discredited Duce» <255, ma è anche vero che questo era l’unico rimasto a disposizione.
Accanto al pungolo del parallelo insediamento di un governo fascista a nord, infatti, il supporto a Badoglio era reso necessario e al contempo meno deprecabile dalla mancanza di reali oppositori alla sua leadership. Gli unici due contendenti che si profilavano all’orizzonte erano personaggi rapidamente esclusi dalla corsa alla presidenza dai veti incrociati posti da inglesi e americani <256. La scelta monarchica era caduta su Badoglio in luglio, probabilmente con l’intenzione di usare quest’ultimo come soluzione transitoria in attesa di affidare il governo ad un uomo dalla provata esperienza politica che potesse tirare la monarchia e il paese fuori dal caos nel quale la guerra e l’arrivo degli Alleati li avevano precipitati. In una ben ragionata analisi di Murphy si leggeva di un presunto distacco tra il Re e Badoglio, determinato dalla volontà del monarca di sacrificare il proprio ministro sull’altare della resa incondizionata e dell’umiliazione che ne sarebbe derivata, serbando l’introduzione di una nuova figura dalle capacità politiche assai più spiccate per la conduzione della seconda fase della crisi italiana <257. L’emissario americano non era lontano dal vero. Durante i lavori della conferenza di Malta, infatti, Badoglio aveva presentato ad Eisenhower una lettera con la quale il Re chiedeva che fosse autorizzato il rientro di Dino Grandi da Lisbona, dove si era recato in esilio precauzionale, perché questi prendesse parte al governo nelle funzioni di ministro degli esteri. Il Comandante, pur promettendo di riferire la questione ai governi anglo-americani, aveva avvertito che il nome di Grandi era stato troppo a lungo associato con il regime fascista per poter essere considerato compatibile con il rinnovamento politico che gli Alleati si accingevano ad avviare in Italia <258.
Il Re non sembrava aver compreso appieno la gravità della nuova situazione e la concreta perdita di autorità che questa inevitabilmente comportava. La richiesta del rientro di Grandi non era stata la sola valutazione politica ad aver mostrato agli Alleati l’inaffidabilità del monarca già nel settembre 1943. Nelle settimane seguenti la firma dell’armistizio, quando la sovranità italiana era confinata alle province pugliesi lasciate, per cortesia e non necessità, dagli Alleati al governo italiano, Vittorio Emanuele aveva in rapida successione preteso la concessione immediata dello status di alleato per l’Italia, rifiutato di dichiarare guerra ai tedeschi e continuato a firmare i propri decreti con il titolo completo di Re d’Italia e Imperatore d’Albania ed Etiopia, suscitando incredulità e rabbia nel campo alleato <259. L’intervento alleato era inevitabile. Ad inizio ottobre gli Alleati interrompevano bruscamente il progetto monarchico intervenendo per la prima volta in maniera decisa nella selezione dei componenti del governo italiano. Le istruzioni ricevute da Eisenhower in proposito erano inequivocabili: la presenza di Grandi nel governo italiano non sarebbe stata accettata in conseguenza della sua marcata appartenenza a quel passato fascista che si tentava di cancellare con l’occupazione stessa. Nonostante il ruolo di fondamentale importanza giocato nell’estromissione di Mussolini dal potere, il suo ingresso nel gabinetto di Brindisi avrebbe generato un’ondata di fraintendimenti e critiche presso le opinioni pubbliche alleate. L’unico modo per far sì che i governi alleati potessero giustificare il proprio supporto al governo Badoglio era assicurarsi che le prime aggiunte ai ministeri militari già presenti in Puglia consistessero di uomini dall’indubbia tradizione democratica, almeno fino a quando non si fosse delineato un trend liberale e antifascista al governo del paese <260. Benché il gruppo italiano al comando fosse non molto più di un’ombra di un governo funzionante, la sua importanza stava nel fatto che questo si presentava come l’unica autorità in attività sulla quale gli Alleati si potessero appoggiare nei territori occupati. L’unica alternativa al riconoscimento del ruolo di questo gruppo sarebbe stata l’instaurazione del governo militare su tutte le regioni occupate, con il suo conseguente dispendioso impegno organizzativo, in una direzione completamente opposta a quella indicata dalle capitali alleate nel corso del 1943. Come sostenuto da Aga Rossi, l’evoluzione delle vicende politiche e militari italiane non aveva permesso il pieno svolgimento del piano elaborato da Aquarone e Vittorio Emanuele. La prima irruzione alleata in materia di politica interna italiana, legata al rifiuto di Eisenhower di accettare che Grandi tornasse da Lisbona e fosse incaricato della formazione di un nuovo governo, lo aveva impedito <261.
La preferenza accordata a Badoglio non escludeva dure critiche e momenti di difficoltà. Con l’8 settembre, la considerazione alleata nei confronti di Badoglio e di ciò che egli rappresentava a livello politico era sul punto di svanire e lasciare che l’occupazione alleata prendesse un corso del tutto differente. I concitati eventi della notte che aveva preceduto l’annuncio della firma al popolo italiano e al partner tedesco sono noti. Badoglio aveva tentennato e tentato di tirarsi indietro, denunciando l’accordo con gli Alleati dopo aver rinunciato alla spedizione aerotrasportata a protezione della capitale <262. In quelle ore, ripetute minacce prendevano vita tra Algeri e Washington, dove la sfiducia nei personaggi romani si tramutava rapidamente in disprezzo. Il governo italiano e l’imbarazzo a questo procurato dalla proclamazione dell’armistizio contro la sua volontà non meritavano alcuna considerazione <263. In mancanza di un immediato annuncio, secondo Murphy, il Re e Badoglio «would be all through as far as the Allies are concerned». Le forze alleate presenti sulla penisola si sarebbero in quel caso dedicate all’incitamento di disordine e anarchia, al bombardamento indiscriminato dell’intero paese fino a quando tutte le principali città italiane, Roma compresa, «would be reduced to ashes and piles of rubble» <264. Dopo aver finalmente ceduto all’inevitabile entrata in vigore dell’armistizio, Badoglio veniva incoraggiato dai nuovi vincitori a conservare il controllo delle forze armate, in particolare della flotta, e a combattere attivamente i tedeschi, prospettando una diretta correlazione tra l’atteggiamento tenuto dagli italiani in questo frangente e quello riservato dagli Alleati agli italiani durante l’occupazione, ma senza riscontrare un gran successo <265. Secondo Garland, questi tentativi di stimolare l’attività l’esercito italiano erano «like beating a dead horse» <266.
La capacità produttiva del governo italiano era, nel settembre 1943, quasi nulla. La reale autorità di cui Badoglio disponeva era soltanto un’apparenza, una finzione giuridica concepita ad appannaggio della stampa internazionale. A descrivere alla perfezione la situazione di disordine istituzionale nella quale gli italiani si erano ritrovati con la fuga da Roma è un particolare aneddoto: il 22 settembre, quasi due settimane dopo l’arrivo della carovana romana in Puglia, le missioni diplomatiche italiane di Lisbona e Madrid erano ancora all’oscuro dell’ubicazione del proprio governo. Badoglio governava infatti soltanto su cinque province con una popolazione di circa due milioni, disponendo di tre divisioni dell’esercito, e non molto più, visto che tutti i ministeri civili erano rimasti nella capitale, occupata come il resto del paese dai tedeschi <267. L’importanza dell’amministrazione brindisina stava esclusivamente nella sua incontestata pretesa di legalità, dato che dal punto di vista militare poteva offrire soltanto qualche divisione alla deriva in territorio privo di tedeschi. Badoglio, per dirla con le parole di Ellwood, era sottoposto alla «unique humiliation of running a government from a hotel room in a seaside resort» <268.
Il governo stabilito a Brindisi, dunque, nonostante fosse soltanto un “guscio”, rimaneva la sola parvenza di legittimità istituzionale presente in quei mesi in Italia <269. L’alternativa al riconoscimento di questa amministrazione era, come era ben presente nelle menti degli strateghi alleati, l’instaurazione di un controllo militare diretto che avrebbe richiesto un enorme investimento in uomini ed energie da parte alleata. In mancanza di concrete alternative e riconosciuta l’ineluttabilità di affidarsi a Badoglio, gli Alleati avviavano la programmazione per un più stabile e duraturo rapporto con il gabinetto italiano. Tra il 9 e il 29 settembre, tra l’annuncio della resa e la firma dei long terms, infatti, si assiste ad un notevole rafforzamento della posizione del governo italiano da parte alleata. Alla metà di settembre, la questione dello status da accordare al governo Badoglio era al centro delle discussioni a Washington, Londra e Algeri. Ottenuta la resa, tuttavia, non vi era alcun accordo tra americani e inglesi su quale trattamento riservare all’Italia. In questo vacuum decisionale, l’iniziativa spettava di fatto ad Eisenhower, il quale, sulla base dei resoconti preparati dai suoi emissari a Brindisi, richiamava l’attenzione dei governi alleati sull’assoluta urgenza di prendere alcune decisioni, considerata la situazione di grave precarietà in cui il governo si trovava a vivere <270.
Ricevuti i rapporti di MacFarlane, Macmillan e Murphy sulle difficili condizioni dell’apparato brindisino, Eisenhower impostava la sua politica italiana per l’immediato futuro con due messaggi nei quali, sposando la linea inglese, raccomandava ai Combined Chiefs di rafforzare con ogni mezzo possibile l’autorità di Badoglio piuttosto che estendere le prerogative del governo militare e di avviare il processo di transizione alla cobelligeranza quanto prima in cambio di una democratizzazione del suo governo <271. La questione principale che si poneva per gli Alleati riguardava infatti lo status da concedere a Badoglio e all’Italia in generale. La dimostrazione di fiducia nei confronti degli italiani doveva essere soggetta alla garanzia di determinate condizioni che muovessero il governo in direzione di una coincidenza di obiettivi con la controparte alleata, dal rafforzamento del carattere nazionale del governo tramite l’innesto di rappresentanti dei partiti al suo interno, in una sorta di governo di coalizione nazionale, ad un decreto che ripristinasse la costituzione prefascista e promettesse libere elezioni per un’assemblea costituente appena terminata la guerra; dalla possibile abdicazione del Re in favore del figlio o nipote alla accettazione di una forma di controllo armistiziale che permettesse una graduale sparizione dell’AMG <272. Traendo le conclusioni due giorni più tardi, Eisenhower presentava due soli percorsi praticabili per gli Alleati in Italia: accettare e rafforzare il governo italiano, permettendone la massima collaborazione militare sotto la direzione del Comandante; mettere da parte Badoglio e il Re e instaurare un governo militare nell’intera penisola, accettandone il grave peso che da questo sarebbe derivato. Delle due opzioni, la prima era fortemente preferibile sulla base di considerazioni militari, dato che, con una campagna militare dura e rischiosa all’orizzonte, il rapporto con gli italiani «may mean the difference between complete and only partial success» <273.
[NOTE]
253 Il 12 settembre 1943 Mussolini era preso in custodia da paracadutisti tedeschi dalla prigione sul Gran Sasso; la sua liberazione era resa possibile dalla mancanza di chiari disposizioni impartite da Badoglio nella concitazione della fuga da Roma.
254 L’analisi di Eden nel telegramma a Macmillan del 17 settembre 1943, CAB 120/583. Cfr. anche Hearst, op. cit., per un approfondimento sul rapporto tra la rinascita del fascismo repubblicano a Nord e il rafforzamento del governo monarchico a sud. Il 21 settembre Churchill scriveva a Stalin in riferimento all’istituzione della RSI, che era diventato «essential to counter this move by doing all we can to strengthen the authority of the King and Badoglio», ricevendo una pronta approvazione da parte del Maresciallo, CAB 120/583.
255 La citazione in Garland, op. cit., p. 539.
256 Il secondo caso riguarda il mancato ingresso di Sforza al governo del paese in dicembre quando, dopo il suo rientro dall’esilio statunitense, riceveva il rifiuto britannico ad ogni incarico di prestigio nell’organigramma governativo italiano. Per esigenze di coerenza testuale, si rimanda a Miller, Carlo Sforza e l’evoluzione della politica americana verso l’Italia, 1940-1943, cit., per un approfondimento del ruolo giocato dal conte nello sviluppo degli eventi italiani, e al presente capitolo per eventuali accenni alla sua posizione. Se agli occhi della monarchia vi era il solo Grandi a poter affiancare o scalzare Badoglio, mentre gli inglesi insistevano sul sostegno al Maresciallo, gli americani puntavano sulla figura di Sforza, reduce da un lungo esilio negli Stati Uniti e fortemente legata al Dipartimento di Stato.
257 30 settembre 1943, rapporto di Murphy a Roosevelt e Hull, WAR, OPD, b. 2.
258 Cfr. Eisenhower ai CCS del 30 settembre, NAF 431, WAR, OPD, b. 2. Già il 28 settembre Aquarone aveva scritto a Taylor che l’inserimento di Grandi nel governo sarebbe stato di grande valore, essendo questi ormai una bandiera antifascista, in ACC, b. 1.
259 MacFarlane, dopo che il primo proclama emanato da Brindisi dal Re riportava il titolo completo, insistette affinché Vittorio Emanuele si firmasse soltanto in qualità di Re d’Italia, cfr. Garland, op. cit., p. 544. Reber e Caccia lamentavano lo stesso scandalo in un appunto di Prunas del 27 novembre 1943, in MAE, SG, vol. III.
260 La posizione alleata in materia era espressa chiaramente in Marshall a Eisenhower, 2 ottobre 1943, FDR, MRP, 34/5 e in McCloy a Leahy, poi CCS ad Eisenhower, del 1 ottobre, WAR, OPD, b. 2. Il Foreign Office concordava sul fatto che l’ingresso di Grandi al governo fosse «out of the question», rimanendo questi nell’immaginario collettivo britannico uno dei principali fondatori del fascismo, (nota del FO, 2 ottobre). In una conversazione con Taylor del 7 ottobre, Badoglio aveva accettato pienamente la posizione alleata a riguardo, FO 660/362.
261 Cfr. Aga Rossi, Una nazione allo sbando, cit., p. 72, e Komer, Civil Affairs, p. 22.
262 All’una di notte dell’8 settembre, Badoglio rinunciava all’armistizio e all’operazione Giant II a causa della mancanza di forze per il controllo degli aeroporti romani, cfr. Badoglio all’AFHQ, in Garland, op. cit., p. 502.
263 Sia Bedell Smith in un telegramma ai CCS che Marshall ad Eisenhower avevano espresso indifferenza per le eventuali difficoltà esperite dal governo italiano, FRUS, Conferences at Washington and Quebec, 1943, p. 1274.
264 Cfr. il rapporto di Murphy a Roosevelt dell’8 settembre, WAR, OPD, b. 2.
265 Badoglio era il destinatario di due messaggi il 10 settembre che lo incitavano a proseguire senza sosta sulla strada intrapresa con l’armistizio e a ritrovare il piglio necessario a riconquistare al proprio paese un posto rispettabile nella civilizzazione europea, cfr. Eisenhower, e Churchill e Roosevelt a Badoglio, PREM 3/242/5.
266 Cit. Garland, op. cit., p. 535.
267 I dati erano esposti da MacFarlane in un promemoria del 22 settembre, in ACC, b. 1.
268 Cit. Ellwood, Italy 1943-1945, p. 71.
269 Cfr. Komer, Civil Affairs, p. 5.
270 Eisenhower aveva inviato a Brindisi, a supporto della missione militare di MacFarlane e Taylor, anche Macmillan e Murphy, due emissari politici incaricati di rapportare sulle condizioni del governo italiano e di raccomandare il modo migliore di relazionarsi a questo nelle prime convulse fasi dell’occupazione.
271 Il 17 settembre Macmillan descriveva cosi la situazione del governo Badoglio nelle prime settimane dopo la resa: «the Brindisi party can hardly be dignified by the name of government. From the military and civil points of view it is little more than a name». Murphy riportava simili sensazioni a Roosevelt e Hull il 19 settembre invitandoli a far quanto in loro potere per semplificare e chiarire una situazione «where we are invoking terms of armistice we are at the same time calling on Italians for active cooperation in prosecution of war against Germans», WAR, OPD, b. 2.
272 Cfr. Eisenhower al War Department e ai CCS, NAF 409, del 18 settembre, in ACC, b. 1. Dopo aver elencato tutte le questioni calde che emergevano con il nuovo regime determinato dall’entrata in vigore dell’armistizio – disarmare gli italiani oppure favorire un loro contributo alla lotta contro il nemico tedesco, appropriarsi della flotta oppure lasciare che restasse in mani italiane, impiantare un governo alleato diretto o indiretto; il Comandante, realizzando la portata politica della proposta, chiedeva che «the burden be placed upon us, on the grounds of military necessity, which I am convinced should be the governing factor».
273 Cfr. il telegramma del 20 settembre di Eisenhower ai CCS, NAF 410, a conclusione del 409, WAR, OPD, b. 2. Già il 26 luglio, a poche ore dalla cacciata di Mussolini, il Comandante inviava una nota ai CCS nella quale si considerava della massima importanza che si sfruttasse appieno la confusione romana a vantaggio delle finalità alleate, avvertendo dei pericoli in cui sarebbero incappati i governi anglo-americani se si fossero troppo frettolosamente liberati di Badoglio, la cui dipartita avrebbe potuto lasciarli senza alcuna autorità con la quale confrontarsi, FDR, MRP, b. 34/2.
Marco Maria Aterrano, “The Garden Path”. Il dibattito interalleato e l’evoluzione della politica anglo-americana per l’Italia dalla strategia militare al controllo istituzionale, 1939-1945, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, Anno Accademico 2012-2013

Se la Repubblica sociale, l’«alleato-occupato» della Germania <1, ebbe sempre a subire severi limiti d’azione nelle sue ambizioni di partecipazione bellica a fianco dei «camerati» tedeschi, allo stesso modo, sull’altro fronte, anche il legittimo governo italiano presieduto da Vittorio Emanuele III e le forze antifasciste sotto l’egida del Comitato centrale di liberazione nazionale (CCLN) di Roma e del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI) di Milano dovettero fronteggiare molti ostacoli nei loro sforzi per attuare un impegno militare contro l’invasore e il «traditore» interno che lo spalleggiava.
Il Regno del Sud possedeva margini di autonomia molto esigui rispetto alle autorità militari angloamericane, cui il «lungo armistizio», firmato a Malta da Badoglio ed Eisenhower il 29 settembre 1943, assegnava pervasivi poteri di controllo in materia politica, economica e finanziaria, sottoponendo ogni atto amministrativo del governo regio al placet della Commissione di controllo alleata <2. La stessa giurisdizione delle autorità monarchiche fu del resto limitata per alcuni mesi esclusivamente alle province di Brindisi, Bari, Taranto e Lecce, e solo a partire dal 10 febbraio 1944 gli Alleati consentirono che essa si estendesse alla Sicilia, alla Sardegna e ai territori a sud della linea Salerno-Potenza-Bari <3. Gli stessi messaggi del re e di Badoglio pronunciati da Radio Bari, cui abbiamo fatto riferimento, avevano potuto raggiungere un numero invero limitato di italiani per la scarsa potenza dell’emittente radiofonica, che a malapena veniva captata oltre i confini della Puglia <4. Anche in questo caso, solo la disponibilità degli Alleati aveva permesso ad alcune di quelle comunicazioni di raggiungere un pubblico più vasto, attraverso registrazioni mandate in onda da Radio Algeri. Enormi erano anche le difficoltà della mobilitazione militare. Difficoltà di ordine psicologico, per la stanchezza dei soldati e dei civili nei confronti della guerra, resa evidente dalle dimensioni del fenomeno dello sbandamento dei reparti dopo l’armistizio <5 e successivamente dalla massiccia renitenza alla leva, sfociata nelle regioni meridionali, nel corso del 1944 e poi nel gennaio 1945, in un vasto movimento di contestazione (soprannominato del «Non si parte») represso nel sangue dalle forze dell’ordine <6. A ciò si aggiungevano difficoltà materiali, dovute allo scadente equipaggiamento dei reparti militari rimasti a disposizione di Badoglio
e all’atteggiamento degli Alleati, contrari a un consistente riarmo italiano: gli inglesi perché determinati a far pesare fino in fondo la loro vittoria su un avversario che non doveva risollevarsi, gli americani – pur inizialmente ben disposti – perché delusi dal remissivo comportamento italiano in occasione dell’8 settembre, in particolare per la mancata difesa di Roma tanto inattesa quanto catastrofica <7, e da allora scettici sulla capacità e la volontà di combattimento degli italiani. Di conseguenza gli Alleati, mentre impiegarono intensamente al loro fianco la marina da guerra italiana rifugiatasi a Malta, furono disposti a rifornire l’esercito del Regno del Sud solo di una quantità modesta di armamenti moderni, sufficienti a inquadrare appena poche migliaia di uomini, preferendo servirsi piuttosto su ampia scala dei militari italiani come «unità ausiliarie» nei servizi logistici di seconda linea e nella difesa costiera e contraerea <8. Lungi dal riuscire a mettere in campo dieci divisioni combattenti, come si era ripromesso, il governo di Brindisi non ottenne che la costituzione di una piccola forza di cinquemila uomini, il primo raggruppamento motorizzato, che operò con gravi perdite sul fronte di Cassino nel dicembre 1943. Sciolta quest’unità, nel marzo 1944 nacque il Corpo italiano di liberazione (CIL) con un organico autorizzato di venticinquemila uomini, e solo dopo la liberazione di Roma (da cui le truppe italiane furono escluse) gli Alleati permisero la creazione di sei gruppi di combattimento, con oltre cinquantamila uomini, che sarebbero stati impiegati nella primavera del 1945 nello sforzo finale per la liberazione del paese.
[NOTE]
1 Secondo la felice formula usata da Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
2 Cfr. D.W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Feltrinelli, Milano 1977, e per una sintesi G. Oliva, I vinti e i liberati. 8 settembre 1943-25 aprile 1945. Storia di due anni, Mondadori, Milano 1994, pp. 228 sgg. Il testo dell’armistizio di Malta in E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze (1993), Il Mulino, Bologna 2003 (nuova edizione ampliata), pp. 228-237.
3 Di conseguenza, l’11 febbraio il governo Badoglio si trasferì da Brindisi a Salerno. Il 4 giugno 1944, con la liberazione di Roma, ebbe termine l’esperienza del Regno del Sud. Ad ogni modo, solo il 20 luglio 1944 furono restituite allo Stato italiano tutte le province liberate a eccezione di Napoli città. Cfr. G. Chianese, Il Regno del Sud, in Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, a cura di E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi, Einaudi, Torino 2000, p. 84.
4 Cfr. ad esempio A. Pizarroso Quintero, Stampa, radio e propaganda. Gli Alleati in Italia 1943-1946, Franco Angeli, Milano 1989, p. 140.
5 Nel dicembre 1943 le autorità militari calcolavano vi fossero ancora circa 100 mila soldati sbandati. Cfr. G. Conti, Aspetti della riorganizzazione delle Forze armate nel Regno del sud (settembre 1943-giugno 1944), in «Storia Contemporanea», VI, 1, marzo 1975, p. 115. Il fenomeno della renitenza si era manifestato già in occasione delle prime chiamate alle armi di alcune classi di leva nell’aprile e nel maggio del 1944, producendo poi nel dicembre del 1944 e nel gennaio 1945 un moto di protesta popolare concentrato soprattutto in Sicilia, ma presente anche in Puglia, Calabria, Sardegna, Campania, Lazio e Umbria. In Sicilia si stima che fossero almeno una quarantina le vittime dei disordini. Cfr. Conti, Aspetti della riorganizzazione delle Forze armate cit., pp. 109-117; E. Forcella, Introduzione a L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a cura di N. Gallerano, Franco Angeli, Milano 1985, pp. 26-30; S. Peli, La
Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, pp. 228-231; G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Donzelli, Roma 2007, pp. 57-61.
7 Durante le trattative per l’armistizio, da parte italiana era stato chiesto l’invio a Roma di una divisone alleata aviotrasportata per la difesa della capitale dai tedeschi. Gli Alleati avevano acconsentito, predisponendo l’impiego dell’LXXXII divisione americana. Pur godendo di una superiorità rispetto alle forze della Wehrmacht dislocate nell’area di Roma, le autorità militari italiane non presero alcuna delle misure previste per l’impiego della divisione americana, la cui missione dovette essere annullata in tutta fretta. Cfr. Aga Rossi, Una nazione allo sbando cit., pp. 106 sgg., nonché E. Di Nolfo e M. Serra, La gabbia infranta. Gli Alleati e l’Italia dal 1943 al 1945, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 49-53, dove viene posta in evidenza la non volontà dell’establishment militare e monarchico di combattere contro i tedeschi a Roma, poiché la difesa della città avrebbe incrementato la forza dei partiti antifascisti
compromettendo il controllo del potere da parte della dinastia.
8 Cfr. Conti, Aspetti della riorganizzazione delle Forze armate cit., pp. 85-120; N. Labanca, Corpo italiano di liberazione, in Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione cit., pp. 207-215; C. Vallauri, Soldati. Le forze armate italiane dall’armistizio alla liberazione, Utet, Torino 2003.
Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Editori Laterza, 2013

L’elusivo discorso fatto da Badoglio a San Giorgio Ionico, secondo cui l’Italia fu sconfitta per le ruberie dei gerarchi, poteva essere ritenuto più che sufficiente a spiegare le traversie dell’armistizio <731. Ciò che maggiormente contava per il vecchio Maresciallo, comunque, fu la necessità di inserire la guerra contro la Germania in una supposta continuità storica con gli interessi italiani, evidentemente traditi dal fascismo. Per questo la Germania «è sempre stata nostra nemica», e, come sul Piave, l’Esercito avrebbe dovuto fare il possibile per «scacciare questi ladroni ed assassini» <732. Come vedremo, la guerra avrebbe dovuto avere carattere anti-tedesco e rifarsi alla retorica risorgimentale <733. Per intanto è sufficiente ricordare come la decisione di spingere sul carattere patriottico della Guerra di Liberazione dallo straniero, venne intesa anche come legittimazione di chi scelse di combattere contro gli Alleati o contro Tedeschi, senza alcuna considerazione della natura politica dello scontro.
[NOTE]
731 Diario di Alvaro Mori, Parte Prima, 4 dicembre 1943, in ibid., p. 51.
732 Discorso di Badoglio di Agro San Giorgio Jonico, come riportato da MERCURI, I giovani per una nuova Italia, in «L’Astrolabio», n. 6, giugno 1975, pp. 58-60.
733 RIZZI Loris, L’esercito italiano nella guerra di liberazione: appunti e ipotesi per la ricerca, in «Italia Contemporanea», aprile giugno 1979, n. 135, pp. 67-68.
Nicolò Da Lio, Il Regio Esercito fra fascismo e Guerra di Liberazione. 1922-1945, Tesi di dottorato, Università del Piemonte Orientale, 2016