Bianco di Saint-Jorioz, Pisacane, Cattaneo e l’esercito di popolo

… Il fronteggiarsi di due strategie sia militari che politiche segna tutta la vicenda risorgimentale: da una parte i fautori di un esercito di popolo, braccio armato della rivoluzione democratico-repubblicana; dall’altra i teorici della guerra regia incentrata su di una struttura militare rigidamente staccata dalle masse popolari, strumento di oppressione interna al servizio delle classi dominanti.

Il confronto fu vivacissimo. Già nel 1828 Carlo Bianco di Saint-Jorioz pubblica a Malta uno smilzo libretto dal titolo significativo “Della guerra nazionale d’insurrezione per bande”. La guerra di liberazione è una guerra partigiana da far precedere da una fase cospiratoria. Ancora caldo è il ricordo della vittoriosa guerriglia delle masse contadine spagnole contro l’occupante francese.

L’esaltante biennio 1848-49 pone i democratici di fronte al compito di spiegare il fallimento dei moti rivoluzionari e delle teorie cospiratorie di derivazione mazziniana.

Carlo Pisacane

Carlo Pisacane, ex ufficiale dell’esercito borbonico, raccoglie nell’esilio svizzero le sue riflessioni in un volumetto che è il contributo più interessante del partito democratico alla teoria politico-militare dell’insurrezione. Nel libro “Sulla guerra in Italia del 1848-49”, pubblicato a Genova nel 1851, Pisacane sottopone ad una critica serrata gli avvenimenti di quel biennio rivoluzionario. Fieramente avverso alla “guerra regia”, egli è profondamente convinto che solo il risvegliarsi delle masse contadine, cioè della stragrande maggioranza del popolo, possa portare non solo alla liberazione dallo straniero, ma anche alla creazione di un assetto sociale radicalmente nuovo. Egli afferma a gran voce la necessità di una guerra di popolo che respinga sia il metodo della guerriglia che quello rivelatosi predente delle barricate, e che si fondi sulla formazione di un esercito regolare, emanazione diretta del popolo, basato sul reclutamento di massa e sulla democrazia interna. Il modello a cui si richiama è significativamente quello delle milizie della democratica e federale repubblica elvetica.

Quanto al Cattaneo nel suo libro “Dell’insurrezione di Milano nel 1848” egli ripropone il concetto democratico di “nazione armata”. In pagine violentissime egli attacca la condotta bellica di Carlo Alberto, maggiormente timoroso della libera e repubblicana Milano delle cinque giornate che dell’esercito austriaco. Egli documenta l’avversione dei generali piemontesi verso i volontari che “potevano spargergli nell’esercito pensieri di libertà”.

Anche ad un sommario esame delle tre campagne del 1848-49, del 1859 e del 1866 si nota come la teoria democratica della guerra di popolo non venga mai neppure presa in considerazione. La guerra è totalmente affare degli Stati Maggiori e non del popolo e dei suoi partiti. Il fenomeno del volontariato è visto con fastidio come una possibile fonte di ribellione e di indisciplina, di concetti democratici oggettivamente sovversivi.

La liquidazione dell’impresa garibaldina ne è l’esempio più drammatico. Come nota lo storico inglese Mack Smith l’esercito piemontese fu in gran fretta spedito al Sud con l’ordine segreto di attaccare se necessario i garibaldini per porre fine all’inquietante dittatura democratica di Garibaldi nell’ex Regno delle Due Sicilie. I volontari, considerati una seccatura politica, vennero smobilitati in gran fretta e molti di loro, che avevano disertato dall’esercito sabaudo per unirsi alla spedizione, trattati con maggiore severità dei borbonici sconfitti.

L’esercito nazionale si costituì con l’immissione nei ranghi di migliaia di ex ufficiali e graduati dell’esercito napoletano, mentre venivano sistematicamente epurati i quadri di origine garibaldina. La stessa polizia fu ampliata utilizzando le spie, gli informatori e i funzionari dei passati regimi mentre i carabinieri inglobano le gendarmerie locali.

La grande occasione storica di creare un’Italia più libera e democratica era andata perduta. A livello militare ciò comporterà la creazione di un esercito e di una polizia come corpi separati. Il vero nemico è quello interno, l’obiettivo da colpire sono le nascenti rivendicazioni di libertà e giustizia sociale. La spietata repressione dell’insurrezione contadina al Sud (il brigantaggio come la chiamano sprezzantemente i giornali dell’epoca) e l’uso costante della truppa nella repressione delle lotte operaie e bracciantile saranno il banco di prova della rispondenza dello strumento militare agli obiettivi di politica interna delle classi dominanti.

Poco importa la conclamata inefficienza bellica delle Forze Armate dimostrata nella campagna del 1866 e nelle spedizioni africane. Proprio nell’aristocratico isolamento della casta militare, educata din dall’Accademia al disprezzo verso tutto ciò che anche lontanamente sappia di eguaglianza, di democrazie, di progresso che verranno a maturazione via via i germi di Custoza, Adua, Caporetto e dell’8 settembre 1943.

di Giorgio Amico in  Vento largo