Bisogna distinguere gli interventi militari dall’attività che singoli gruppi partigiani misero in pratica per aiutare gli ebrei

Dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione militare tedesca dell’Italia, le autorità naziste cominciarono ad applicare anche nel territorio italiano i loro piani di “soluzione finale” della questione ebraica. Fin dal settembre 1943 e poi nei mesi successivi, le forze del Reich, in particolare la polizia di sicurezza, effettuarono rastrellamenti nell’Italia settentrionale, uccisero persone di origine ebraica e organizzarono le prime deportazioni da alcune principali città italiane: Milano, Verona, Bologna, Firenze, Trieste, Roma. In questo contesto, il ministero dell’Interno della RSI stabilì, tramite l’ordinanza n. 5 del 30 novembre 1943, di arrestare tutti gli ebrei presenti nel suo territorio e di rinchiuderli in campi di concentramento. Tra settembre 1943 e aprile 1945 le autorità fasciste e le forze di occupazione tedesche procedettero dunque all’arresto e all’internamento di migliaia di ebrei: fu soprattutto nell’autunno del 1943, nell’inverno e nella primavera successivi che la caccia alle persone di origine ebraica si manifestò con maggiore violenza. Nei 600 giorni di esistenza della RSI e di occupazione tedesca dell’Italia centro-settentrionale furono deportati circa sette mila ebrei, pari a un quinto circa della popolazione ebraica presente nel territorio italiano. La maggior parte di loro, dunque, riuscì a sfuggire alla persecuzione, vivendo in clandestinità o trasferendosi nel sud d’Italia occupato dalle forze angloamericane e in Svizzera. In molti casi, le speranze di salvezza di chi si nascondeva o scappava agli arresti erano strettamente legate al sostegno ricevuto per così dire dall’“esterno”, ovvero da parte della popolazione civile italiana e di entità politiche e religiose come i gruppi della Resistenza o gli istituti ecclesiastici.
Il seguente contributo intende soffermarsi sullo stato della ricerca riguardo l’atteggiamento della Resistenza italiana di fronte alla persecuzione nazifascista degli ebrei. Si prenderanno come punto di riferimento alcuni saggi di carattere generale comparsi negli ultimi anni e che costituiscono una prima ricognizione sulla produzione scientifica sull’argomento: S. Peli, Resistenza e Shoah, in «Passato e presente», n. 70, gennaio-aprile 2007, pp. 83-93; E. Collotti, La Resistenza europea di fronte alla Shoah, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levi Sullam, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah, vol. I, Utet, Torino 2006, pp. 1051-1075; B. Maida, La Resistenza di fronte alla persecuzione degli ebrei, in M. Flores, S. Levi Sullam, M.-A. Matard-Bonucci, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia, vol. I Le premesse, le persecuzioni, lo sterminio, Utet, Torino 2010, pp. 507-524.
Ci soffermeremo in particolare su tre nodi tematici che emergono in questi saggi: 1- i motivi del ritardo con il quale la storiografia si è interessata al rapporto tra Resistenza e Shoah; 2- la partecipazione degli ebrei alla Resistenza; 3- le operazioni dei partigiani indirizzate a salvare gli ebrei perseguitati.
1- La partecipazione di persone di origine ebraica all’interno della Resistenza italiana è ormai un fenomeno conosciuto e quantificabile da un punto di vista numerico. Personalità del mondo ebraico ricoprirono ruoli dirigenziali importanti nel CLNAI e di responsabilità politiche e militari; gli studi più recenti hanno accertato che furono circa mille gli ebrei che parteciparono al movimento partigiano[1]. Tuttavia, se si sposta il discorso sul comportamento della Resistenza, in particolare quella armata, nei confronti della politica antiebraica, ci si trova davanti a lacune e aspetti da approfondire e sui quali riflettere ulteriormente. Come afferma lo storico Santo Peli, infatti:
“le storie generali della Resistenza italiana, da quella ormai classica di Roberto Battaglia (1953) fino alla sintesi da me pubblicata nel 2004, non hanno riservato alcuna specifica attenzione alla Shoah” [2].
La persecuzione e la deportazione degli ebrei rimane ad esempio un tema marginale anche nella fondamentale opera di Claudio Pavone sulla Resistenza [3]. Ci si chiede così perché gli storici della Resistenza abbiano considerato marginale il soggetto della persecuzione antiebraica nelle loro ricerche. Loro “distrazione”, per utilizzare ancora le parole di Santo Peli, e loro incapacità di vedere le cose o piuttosto «un’effettiva mancanza d’interazione tra due fenomeni [Resistenza e Shoah] che pure sembrano naturalmente destinati a fecondarsi e a interagire, a partire quantomeno dalla ovvia constatazione di un comune nemico, il nazifascismo?»[4]. All’interno delle fonti utilizzate dalla storiografia risulta infatti essere decisamente scarsa l’attenzione da parte degli organi dirigenziali della Resistenza verso la politica persecutoria che colpiva gli ebrei (arresto, concentramento e deportazione), così come sono rare le prese di posizione ufficiali, salvo ovviamente alcune eccezioni.
Se dagli atti ufficiali si sposta l’attenzione alla sterminata produzione memorialistica o ai documenti delle principali formazioni partigiane (Garibaldi, GL e Autonome), si può verificare quanto l’attenzione dei protagonisti della resistenza armata sia fatalmente concentrata sui problemi “interni” alla guerra partigiana, problemi militari e politici, problemi di tattica e di strategia, di educazione politica, di proselitismi confliggenti , di rapporti con le popolazioni civili, di espansione e di sopravvivenza delle formazioni [5].
Già fin dalle prime settimane dopo l’8 settembre, gli ambienti antifascisti sembrarono in realtà consapevoli del pericolo che correvano con l’occupazione tedesca dell’Italia determinate tipologie di persone, schedate dalle autorità fasciste nel corso degli anni precedenti: oppositori politici e antifascisti, ma anche ebrei, colpiti dalla legislazione razziale del 1938 e da successivi provvedimenti varati dal governo fascista allo scoppio del conflitto [6]. I primi documenti prodotti dal CLN nel settembre-ottobre 1943, che riguardarono per lo più il dibattito istituzionale sulla presenza della monarchia nell’Italia liberata o sul rapporto tra i comandi del CLN in Italia settentrionale e il Regno del sud di Badoglio, accennavano così anche alla condizione di coloro che venivano perseguitati o ricercati [7]. Alcuni giornali clandestini, quali l’«Unità», l’«Avanti» e l’«Italia Libera», denunciarono i provvedimenti antisemiti di Salò [8]. Questa attenzione alla vittime delle persecuzioni, tuttavia, prendeva le mosse da un punto di vista più generale: la repressione nazifascista ora avrebbe colpito con violenza tutti coloro che erano stati schedati dalle questure fasciste, oppositori politici, antifascisti e, quindi, anche ebrei.. Solo il 14 settembre 1944, il CLNAI promulgò un decreto che abolì ufficialmente nel nord Italia la legislazione razziale [9].
Enzo Collotti interpreta questa scarsa attenzione alla persecuzione degli ebrei negli studi sulla Resistenza non soltanto come la conseguenza del ritardo con cui la storiografia italiana è avanzata nella ricerca sulla politica antiebraica fascista: in realtà è legata a un insieme di fattori più complesso che investe direttamente, ad esempio, la questione della consapevolezza che i singoli movimenti partigiani ebbero del processo di sterminio degli ebrei[10]. Lo studio delle carte porta dunque ad ipotizzare che al vertice, le istituzioni della Resistenza erano più attente a obiettivi di ordine organizzativo e politico, «in uno sforzo di omogeneizzazione, di pedagogia politica, e di prefigurazione del ruolo e dei partiti nel dopo-liberazione» [11]; alla base, invece, erano piuttosto questioni strettamente operative a interessare le singole formazioni partigiane, quali ad esempio i problemi di sopravvivenza quotidiana [12]. In questo contesto, poco è lo spazio riservato alla persecuzione degli ebrei.
2- Il secondo aspetto riguarda la partecipazione degli ebrei all’interno del movimento partigiano. Come detto all’inizio, questo fenomeno è ormai noto: osserva Santo Peli che i risultati più importanti della ricerca sono stati raggiunti a partire dagli anni ’70 e ’80 non dagli storici della Resistenza bensì da studiosi della questione ebraica, quali Gina Formiggini, Liliana Picciotto Fargion e Michele Sarfatti[13]. La storiografia è sostanzialmente d’accordo oggi nel definire quella ebraica non una partecipazione “degli ebrei” ma “di ebrei” alla Resistenza italiana, per mettere così in evidenza il carattere individuale delle scelta e della adesione alla guerra partigiana, che in Italia non assunse, come invece avvenuto in altre parti d’Europa, una connotazione ebraica collettiva [14]. Certamente, la scelta dei singoli fu non soltanto espressione di idee antifasciste e del senso di appartenenza alla comunità nazionale italiana, maturato negli anni dell’emancipazione, ma anche una conseguenza dei provvedimenti razziali presi dal fascismo dal 1938 in poi [15]. Tuttavia, questa ampia e importante presenza di ebrei nel movimento di liberazione non sembrò contribuire a mettere la persecuzione antiebraica al centro degli obiettivi della Resistenza [16]. In questo discorso rientra del resto anche la questione della percezione del pericolo che si stava correndo. Sebbene le notizie di ciò che avveniva nell’Europa orientale a opera dei nazisti si stavano diffondendo ormai da qualche anno in molti ambienti,[17] persino tra alcuni ebrei che si impegnarono nella lotta resistenziale non vi era una precisa coscienza delle conseguenze che potevano derivare dall’occupazione tedesca della penisola e dai provvedimenti antiebraici presi dalla RSI. È nota ad esempio la vicenda di Primo Levi, il quale, catturato durante un rastrellamento nazifascista sui monti della Val d’Aosta, preferì dichiararsi “ebreo” alle autorità per paura delle conseguenze che sarebbero derivate dall’essere scoperto “ribelle” [18]. Gli unici episodi che sembrano attestare un collegamento tra la presenza di ebrei nei gruppi partigiani e le decisioni di agire in favore dei perseguitati riguardano esperienze locali. La più nota azione militare contro un campo di concentramento, ad esempio, è quella avvenuta a Servigliano nelle Marche e condotta dall’ebreo Haim Vito Volterra, fondatore e comandante del presidio del gruppo autonomo partigiano di Monte San Martino, sopra Ascoli Piceno. Ma questo rimane un episodio isolato.
3- L’azione di Servigliano introduce così il terzo nodo tematico: le azioni messe in pratica dalla Resistenza per salvare gli ebrei perseguitati. In un recente contributo sul caso francese, Renée Poznanski stabilisce una differenza tra l’attività propagandistica e di soccorso portata avanti dalla Resistenza dalle operazioni militari che avrebbero dovuto avere lo scopo di liberare le persone arrestate e internate nei campi, nonché di evitare la loro deportazione nei lager dell’Europa orientale. Queste operazioni, secondo la studiosa francese, in realtà mancarono quasi del tutto: il salvataggio degli ebrei, cioè, non fu messo tra i compiti militari della Resistenza, ma rimase nell’ambito di azioni, per così dire, “umanitarie”[19]. Anche nel caso italiano, bisogna distinguere gli interventi militari dall’attività che singoli gruppi partigiani misero in pratica per aiutare gli ebrei a nascondersi o a scappare oltre confine in Svizzera. Poche furono le iniziative militari intese a liberare gli ebrei arrestati e rinchiusi nei campi di concentramento o a evitare loro la deportazione: queste «hanno per teatro piccoli campi gestiti dalle prefetture italiane e scarsamente difesi», portano alla liberazione di pochi ebrei, mentre «i terminali italiani della concentrazione, Fossoli e Gries, direttamente gestiti e difesi dai tedeschi, non riceveranno disturbo di sorta» [20]. Osserva Collotti:
“nell’ottica della Resistenza italiana non vi fu generalmente una accentuazione di obiettivi specificamente rivolti a risarcire gli ebrei delle violazioni dei loro diritti e a proteggerli dalle minacce recate alla loro vite. Questi obiettivi erano riassorbiti negli scopi più generali della lotta di liberazione del popolo italiano dai vincoli della dittatura fascista e dall’oppressione dell’occupazione tedesca” [21]
Oltre all’irruzione al campo di Servigliano, si possono citare altre testimonianze di incursioni, come quella raccontata da Giorgio Nissim nelle sue memorie, indirizzata a evitare la deportazione degli ebrei concentrati in un campo di concentramento vicino Lucca[22]. Di recente, inoltre, lo studioso Luigi Boscherini ha riportato alla luce l’episodio del salvataggio degli ebrei internati nella provincia di Perugia e aiutati nella fuga dai partigiani locali al momento dell’arrivo degli anglo-americani[23].
Se poche sono le tracce delle azioni propriamente militari della Resistenza, al contrario viene riconosciuta l’importanza del contributo “non armato”e “umanitario”[24]. Anche Peli, non lontano da quanto afferma Collotti, non intravede insomma un rapporto diretto e consapevole tra la Resistenza organizzata e la persecuzione degli ebrei: “Ma se invece pensiamo alla Resistenza non armata e al rifiuto della guerra e delle sue logiche allora il legame si fa visibile quanto difficile da quantificare e da analizzare. Delle molteplici attività di soccorso, di nascondimento, di aiuto nell’espatrio, la memorialistica conserva numerose tracce ancora prive di un’accettabile sistemazione e quantificazione, come accade ogni qualvolta si passa dalla dimensione prettamente militare e politica a quella di un impegno umanitario; qui i confini tra resistenza organizzata e preziosi sacrifici individuali o comunitari originati da scelte spontanee tendono a sfumare e a confondersi […] Ed è qui, soprattutto in questi territori di confine, che la ricerca ha ancora molto da esplorare e da portare alla luce” [25].
[NOTE
[1] M. Sarfatti, La partecipazione degli ebrei alla Resistenza italiana, in «Rassegna mensile di Israel», vol. LXXIV, n. 1-2, gen-ago 2008, pp. 165-172; L. Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, in «La Rassegna mensile di Israel», vol. XLVI, n. 3-4, pp. 132-146; V. Ravaioli, Gli ebrei italiani nella Resistenza. Prima indagine quantitativa sui partigiani del Piemonte, in «La Rassegna mensile di Israel», vol. LXIX, n. 2, maggio-agosto 2003, pp. 571-574; M. Sarfatti, Ebrei nella Resistenza ligure, in Istituto storico della Resistenza in Liguria, La Resistenza in Liguria e gli Alleati: atti del convegno di studi, La stampa, Genova, 1988, pp. 75-92; Id., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2007, pp. 305-306.
[2] S. Peli, Resistenza e Shoah, in «Passato e Presente», n. 70, gen-apr 2007, p. 83.
[3] C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
[4] S. Peli, Resistenza e Shoah cit., p. 83.
[5] Ivi, p. 84.
[6] Come ad esempio le misure di internamento per gli ebrei stranieri e per gli italiani considerati pericolosi per motivi bellici, cfr. G. Antoniani Persichilli, Disposizioni, normative e fonti per lo studio dell’internamento in Italia (giugno 1940 – luglio 1943), in «Rassegna degli archivi di Stato», n. 1-3, 1978, pp. 77-96; P. Carucci, Confino, soggiorno obbligato, internamento: sviluppo della normativa, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), FrancoAngeli, Milano 2001, pp. 15-39.M. Toscano, L’internamento degli ebrei italiani, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia cit., pp. 95-112.
[7] R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964, pp. 153-154. Si veda anche G. Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo”. Atti e documenti del CLNAI 1943/1946, Feltrinelli, Milano 1977.
[8] Una breve analisi della stampa clandestina in E. Collotti, La Resistenza europea di fronte alla Shoah cit., pp. 1054-1056; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 305 (nota 172).
[9] G. Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo” cit., p. 174.
[10] E. Collotti, La Resistenza europea di fronte alla Shoah cit., p. 1051.
[11] S. Peli, Resistenza e Shoah cit., p. 84.
[12] Ivi, 84-85.
[13] Ivi, p. 88.
[14] L. Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana cit., pp. 132-146; si veda anche N. Tec, La resistenza ebraica: definizioni e interpretazioni storiche, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levi Sullam, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah, vol. I, Utet, Torino 2005, pp. 1023-1049.
[15] B. Maida, La Resistenza di fronte alla persecuzione degli ebrei, in M. Flores, S. Levi Sullam, M.-A. Matard-Bonucci, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia, vol. I Le premesse, le persecuzioni, lo sterminio, Utet, Torino 2010, pp. 520-521.
[16] S. Peli, Resistenza e Shoah cit., p. 89.
[17] Cfr. D. Bankier, La conoscenza dell’Olocausto e le reazioni in Europa, negli Stati Uniti e nelle comunità ebraiche, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levi Sullam, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah cit., pp. 1121-1153; si veda anche W. Laqueur, Le Terrifiant Secret. La Solution Finale et l’information étouffée, Gallimard, Paris 1981 (trad. italiana W. Laqueur, Il terribile segreto, La Giuntina, Firenze 1983).
[18] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2003, p. 11: «Negli interrogatori che seguirono [l’arresto], preferii dichiarare la mia condizione di “cittadino italiano di razza ebraica” poiché ritenevo che non sarei riuscito a giustificare altrimenti la mia presenza in quei luoghi troppo appartati anche per uno sfollato e stimavo (a torto, come si vide poi) che l’ammettere la mia attività politica avrebbe comportato torture e morte certa». Alcuni anni dopo ritornò su questo particolare: «essere ebrei era peggio che essere partigiani – io allora non me ne rendevo conto – i tedeschi erano talmente impregnati dalla follia hitleriana che per loro il fatto che qualcuno fosse ebreo era proprio il nemico da… da sterminare; peggio, peggio che fosse stato veramente un… politico. Forse sarebbe stato molto meglio dichiararsi partigiani», in A. Bravo, D. Jalla, La vita offesa: storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, F.rancoAngeli, Milano 1986, p. 98.
[19] R. Poznanski, Propagandes et persécutions. La Résistance et le “problème juif”, 1940-1944, Fayard, Paris, 2008; sul caso francese si vedano anche M. Baudrot, Le mouvement de Résistence devant la pérsécution des juifs, in S. Messinger (a cura di), La France et la question juive 1940-1944, Acte du colloque, Cdjc, Paris 1981, pp. 265-295 e in generale tutta la terza parte del volume sotto il titolo Les mouvements de Résistance, pp. 361-406.
[20] S. Peli, Resistenza e Shoah cit., p. 86
[21] E. Collotti, La Resistenza europea di fronte alla Shoah cit., p. 1054.
[22] L. Picciotto Fargion, Giorgio Nissim. Memorie di un ebreo toscano dal 1938 al 1948, Carocci, Roma 2005, pp. 122-123.
[23] L. Boscherini, La persecuzione degli ebrei a Perugia. Ottobre 1943-luglio 1944, Le Balze, Montepulciano 2005.
[24] Si veda ad esempio S. Antonini, L’ultima diaspora. Soccorso ebraico durante la seconda guerra mondiale, De Ferrari, Genova 2005; Id., Delasem: storia della più grande organizzazione ebraica italiana di soccorso durante la seconda guerra mondiale, De Ferrari, Genova 2000. Si vedano anche M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 295-308; K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, La Nuova Italia, Firenze 1993-1996, vol. II, pp. 491-511; L. Picciotto Fargion, Gli interventi del mondo libero in favore degli ebrei in Italia, 1943-1945, in «Rassegna mensile di Israel», numero speciale a cura di L. Picciotto Fargion, Saggi sull’ebraismo italiano del Novecento in onore di Luisella Mortara Ottolenghi, LXIX, maggio-agosto 2003, pp. 495-516.
[25] S. Peli, Resistenza e Shoah cit., pp. 87-88.
Matteo Stefanori, La resistenza italiana e la persecuzione degli ebrei: una questione storiografica?, Officina della Storia, 15 luglio 2011

Grande fu il contributo che gli ebrei italiani dettero alla Resistenza: oltre mille si unirono come combattenti alle formazioni partigiane. Numerosi furono anche i dirigenti del Comitato di Liberazione Nazionale, tra i quali Umberto Terracini ed Emilio Sereni per il Partito Comunista e Leo Valiani per il Partito D’Azione. Per tutto il periodo della Guerra di Liberazione non vennero mai create unità partigiane esclusivamente ebraiche: chi combattè lo fece nelle formazioni antifasciste nazionali, all’interno delle quali venne di fatto ripristinato quel “patto di cittadinanza” infranto dalle leggi razziste del 1938.
Molti di questi partigiani morirono in combattimento, tanti furono arrestati e poi uccisi nelle esecuzioni sommarie. Altri ancora furono incarcerati o deportati come prigionieri politici. La scelta partigiana per gli ebrei comportava però un ulteriore rischio: chi veniva catturato, se riconosciuto come tale, seguiva la sorte degli altri appartenti alla “razza ebraica” nei campi di sterminio nazista. Come avvenne per Primo Levi e per due giovani donne ebree, Luciana Nissim e Vanda Maestro. I tre erano amici e insieme decisero di unirsi a un gruppo partigiano in Val d’Aosta. Furono arrestati dalle milizie fasciste nel dicembre del ’43. Tutti e tre verranno deportati ad Auschwitz nel febbraio del ’44. Primo Levi e Luciana Nissim sopravvissero alla Shoah. Vanda Maestro morirà nelle camere a gas.
Se la storia di Primo Levi è ampiamente conosciuta, per anni quelle dei tanti altri partigiani ebrei caddero nell’oblio, salvo essere poi essere recuperate grazie al meritorio lavoro degli storici e delle associazioni più attente alla trasmissione della memoria.
Tra questi un posto unico nel ricordo della Resistenza lo occupa Franco Cesana, il più giovane partigiano morto in combattimento. Prima la discriminazione subita a causa delle leggi razziali e poi la persecuzione nazifascista fecero maturare in lui l’urgenza di partecipare attivamente alla lotta contro l’oppressione: aveva solo 12 anni quando, di nascosto dalla madre, raggiunse il fratello maggiore già inquadrato in una formazione partigiana nelle montagne dell’Appennino modenese. Riuscì a convincere il comandante a tenerlo con loro, nonostante la giovanissima età. Fu utilizzato come “staffetta” e prese parte anche a diversi scontri a fuoco con i nazifascisti. In uno di questi fu ucciso, sotto gli occhi del fratello, una settimana prima del suo tredicesimo compleanno.
Emanuele Artom, ebreo torinese, era invece un giovane storico. Il rifiuto di iscriversi al Partito Fascista, prima, e le leggi razziali, poi, gli impedirono di coronare il suo sogno, quello dell’insegnamento. Con l’occupazione nazista, nonostante gli venisse offerta la possibilità di fuga verso la Svizzera, scelse di restare in Italia e di prendere parte alla Resistenza, ricoprendo importanti incarichi per il Partito d’Azione tra le formazioni presenti sulle montagne piemontesi. Fu arrestato dalle milizie fasciste nel corso di un rastrellamento e un informatore lo denunciò come ebreo. Fu allora preso in consegna dai nazisti. Venne ripetutamente torturato per estorcergli informazioni, ma non tradì mai i suoi compagni. Morì a causa delle sevizie. Il suo corpo, seppellito lungo le rive del torrente Sangone alla periferia di Torino, non è mai stato ritrovato.
Dei tanti ebrei romani che presero parte alla Resistenza, vogliamo ricordare la figura di Elena Di Porto. Una donna eccezionalmente coraggiosa, con un temperamento che la portava a distaccarsi nettamente dai canoni femminili dell’epoca. Nel 1938, poco dopo l’introduzione delle leggi razziali, fu arrestata per essere intervenuta in difesa di un vecchio aggredito dai fascisti perché stava comprando una copia dell’Osservatore Romano, il quotidiano cattolico che, unico in Italia, pubblicava notizie non manipolate dal regime. Mise in fuga i fascisti con schiaffi e pugni, ma venne poi fermata e mandata al confino politico. Tornò a Roma nell’estate del ’43, dove si adoperò attivamente nell’attività antifascista e prese parte ai combattimenti della Cecchignola e di Porta San Paolo per cercare di impedire l’entrata delle truppe naziste nella Capitale. Il 16 ottobre riuscì a sfuggire al rastrellamento degli ebrei, ma venuta a sapere della deportazione della sorella e dei nipoti, si consegnò spontaneamente alle SS per non lasciarli soli, forse con la speranza di poterli aiutare. Elena Di Porto morì nel campo di sterminio di Auschwitz.
Nella storia della Resistenza italiana un ruolo unico fu quello svolto dalla DELASEM (Delegazione per l’assistenza agli emigranti ebrei). Nata nel 1939 con l’autorizzazione del governo fascista, si occupò inizialmente dell’assistenza agli ebrei stranieri presenti in Italia per favorirne l’emigrazione.
Inizialmente furono infatti questi i più colpiti dalla promulgazione delle leggi razziste: moltissimi si trovarono presto privi dei più basilari mezzi di sostentamento e, dall’entrata in guerra dell’Italia, vennero poi rinchiusi nei campi di concentramento presenti nel paese. Con l’occupazione nazista del Centro-Nord Italia, la DELASEM dovette occuparsi del soccorso a tutti gli ebrei presenti in Italia per cercare di salvare più vite possibili dai rastrellamenti e dalle deportazioni. Migliaia di persone, grazie alla DELASEM, riuscirono a emigrare verso i paesi rimasti neutrali nel conflitto o furono aiutati a nascondersi, sopravvivendo allo stermino nazifascista.
La DELASEM era un’organizzazione ebraica a tutti gli effetti e, come tale, dovette passare all’azione clandestina in tutte le zone sottoposte all’occupazione nazista e al controllo della Repubblica Sociale. I due centri logistici principali furono Genova e Roma, e qui i responsabili dell’organizzazione presero contatti con uomini di Chiesa ed esponenti dei gruppi partigiani: il loro aiuto fu fondamentale per azioni di salvataggio che poterono contare anche sulla collaborazione di tanti semplici cittadini.
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, il compito principale dell’organizzazione divenne quello di assistere i superstiti dei campi di sterminio e i tanti bambini rimasti orfani, oltre a quello di cercare di riunire le famiglie che si erano spesso separate per sopravvivere nascoste.
[…] Nelle forze alleate combatterono anche migliaia di giovani volontari ebrei provenienti dalla Palestina del mandato britannico, tanti dei quali, inquadrati nella Brigata Ebraica, presero parte alle azioni in Italia. Moltissimi di questi erano emigrati dall’Europa quando il crescente antisemitismo di stampo fascista e nazista, troppo spesso accettato silenziosamente dalle masse di cittadini, aveva loro reso chiara l’impossibilità di rimanere nei paesi nei quali erano nati. Non ebbero però alcun dubbio sulla necessità di tornare per liberare quegli stessi Stati che li avevano discriminati e nei quali, adesso, gli ebrei rimasti venivano perseguitati e sterminati. Tra di loro vi erano anche ebrei italiani.
Uno di questi era Enzo Sereni. Fratello del dirigente comunista Emilio Sereni, Enzo aderì invece giovanissimo al sionismo socialista ed emigrò in Palestina nel 1926. Mantenne sempre forti legami con l’Italia e fu uno dei più strenui sostenitori della necessità di creare una forza militare ebraica che contribuisse alla guerra contro il Terzo Reich. Fu catturato dai nazifascisti nel corso di un’azione militare e deportato a Dachau, dove morì.
Un altro ebreo italiano che si unì alla Brigata Ebraica fu Vittorio Dan Segre. Dopo la promulgazione delle leggi razziali, emigrò in Palestina all’età di 17 anni. Nel 1941 si arruolò nell’esercito britannico e nel 1944 fu in Italia con la Brigata Ebraica. Dopo la guerra divenne un famoso e stimato giornalista, oltre che docente universitario e diplomatico.
Il ruolo militare di questa formazione fu fondamentale per la liberazione di città e paesi della provincia di Ravenna. E’ qui che la memoria di quegli eventi è più forte e la città di Ravenna ha voluto dedicare una strada alla Brigata Ebraica, mentre una lapide ne ricorda i 45 caduti in quei combattimenti. […]
Redazione, La Resistenza Ebraica, Scuola e Memoria

Il punto dovrebbe ormai essere chiaro ma vale la pena citare un ultimo episodio, se non altro perché uno dei più recenti e perché evidenzia, nelle reazioni suscitate, tutta la frustrazione degli storici, interpretata ed espressa a tal proposito da Giovanni Sabbatucci: Berlusconi proprio durante le celebrazioni milanesi della Giornata della Memoria del 2013 ha definito le leggi razziali un’imposizione della Germania, riproponendo un vecchio cliché che – come ha sottolineato Sabbatucci: “fa parte di una cultura politica che non è né fascista né antifascista, ma afascista. È una cultura condivisa da tanta maggioranza silenziosa italiana, che è la stessa dei rotocalchi moderati tipo Oggi negli anni Cinquanta. Una cultura che tende non a rimpiangere il fascismo – in fondo non credo che Berlusconi sia mai stato fascista – però tende a dare dell’esperienza fascista una versione edulcorata e sostanzialmente falsa. Dietro a tutto questo c’è l’ignoranza, una scarsa conoscenza e una deformazione dei fatti. Berlusconi è l’incarnazione di questa cultura – o incultura – afascista” <164.
Alla domanda «che effetto fa, da storico, sentire dichiarazioni del genere proprio in un giorno dedicato alla Memoria?», lo storico ha risposto efficacemente: «un effetto di frustrazione. Si scrive, si studia per tutta la vita… e poi? Ho citato De Felice, un uomo che è stato anche molto attaccato dalla cultura di sinistra italiana. Ha scritto migliaia e migliaia di pagine invano, evidentemente. Questa è la sensazione che prova uno come me: di scoramento» <165.
Questi tentativi di riabilitazione che hanno visto imporsi, nella strategia retorica ufficiale del centro destra, la prassi della smentita e della rettifica che, se è vera la massima di Mario Missiroli, fatta propria e resa celebre da Giulio Andreotti, «è una notizia data due volte» <166, conferendogli maggiore portata e virulenza, come sottolineato da Ginsborg, hanno quantomeno avuto il merito di imporre l’intervento degli storici per ribattere e ridefinire visioni del fascismo false e inveterate <167, nel compito ancora, a quanto pare, improbo di rimettere in bolla e riequilibrare una prospettiva sbilanciata, in un contrasto stridente tra le ricostruzioni degli specialisti e un discorso pubblico che insiste nel prescindere da queste, oppure che per malafede o per leggerezza e per le qualità inerziali della memoria cui si è già accennato, le filtra, le stravolge e le adatta agli stereotipi narrativi consolidati <168.
[…] Quando si parla di campi di concentramento il pensiero corre inevitabilmente ai più tristemente noti lager nazisti, ai campi di sterminio e, in particolare, a quello che è divenuto il luogo simbolo della Shoah: Auschwitz, uno dei primi campi a essere liberato dall’Armata sovietica nel gennaio del 1945 mostrandosi al mondo come la più imponente e terribile delle fabbriche di morte approntate dal regime nazista.
Il campo polacco ha calamitato a lungo e comprensibilmente l’attenzione della ricerca e della divulgazione, contemporaneamente assumendo nell’uso corrente un valore metonimico tanto forte da oscurare ogni altra manifestazione dei fenomeni concentrazionari <223, in una tendenza del senso comune già naturalmente incline alla semplificazione e alla generalizzazione, come dimostrato dalla rapida fortuna di definizioni quali «secolo dei campi» per designare il Novecento <224.
Dopo una lunga fase di silenzio e rimozione, la Shoah, a partire dagli anni sessanta, iniziò a emergere come «fenomeno storico fondamentale» e «soggetto autonomo nel processo della memoria collettiva» <225; da evento marginale della Seconda guerra mondiale e sfumatura di una monolitica prassi nazista di aggressione e violenza per cui le vittime erano tali senza alcuna distinzione, ha assunto progressivamente uno status autonomo, trasformandosi in una vera e propria disciplina – quella degli Holocaust Studies – insediandosi «al centro della memoria occidentale come un momento di svolta nella storia del Novecento» <226.
A partire dagli anni ottanta, dalla seconda metà in particolare, si è cominciato ad assistere a una massiccia produzione scientifica sulle leggi razziali e la deportazione dall’Italia e la questione ebraica ha assunto una posizione di centralità negli studi sul fascismo, entrando rapidamente in qualunque discorso sulla storia del regime fascista e della Seconda guerra mondiale in Italia <227.
Questo ha consentito un enorme incremento delle conoscenze in merito ma, per contro, si è accompagnato allo sviluppo di quella che Enzo Traverso ha definito una «forma di “autismo” metodologico [che] coesiste con il comparativismo intrinseco alla storicizzazione della Shoah» <228, in virtù del quale l’evento è stato slegato dal contesto storico globale di una guerra totale dispiegata contro categorie di nemici molto eterogenee.
La categoria di unicità attorno alla quale si è costruita la conoscenza della Shoah, se condivisibile sul piano storiografico in quanto ponderato risultato di attenta analisi storica, nell’uso pubblico può diventare problematica perché dato assunto a priori che rischia, come sottolineato giustamente da David Bidussa, di produrre un effetto di astoricità e di proporsi come «schermo» a una riflessione di carattere generale <229.
Come ha scritto Valentina Pisanty sulla scia di un concetto elaborato da Giovanni De Luna, la Shoah «riscattata dalla latenza a cui era stata consegnata nell’immediato dopoguerra», ha visto così affermarsi la sua memoria come «paradigma per tutte le altre memorie collettive» <230.
Mentre chiunque sa cosa sia stata la Shoah, pochi ad esempio hanno mai sentito parlare del Porrajmos che in lingua romanes designa le persecuzioni e lo sterminio delle popolazioni sinte e rom cui peraltro non fa cenno nemmeno la legge n. 211 del 20 luglio 2000 che ha istituito in Italia il giorno della memoria, la cui ricorrenza è stata fissata per il 27 gennaio <231.
Anche per quanto riguarda l’internamento ebraico, la deportazione verso lo sterminio, nella sua incommensurabile tragicità, ha oscurato nella prospettiva storiografica, ma anche all’interno della stessa memoria ebraica, le vicende precedenti all’8 settembre.
Enormi progressi si sono registrati nell’ambito della ricostruzione della deportazione ebraica dall’Italia – si pensi al monumentale lavoro di schedatura condotto da Liliana Picciotto della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea <232 -, mentre si è a lungo trascurato il fatto che per molti dei deportati, il percorso di umiliazione e internamento era iniziato ben prima dell’8 settembre 1943 o del successivo ordine di polizia del 30 novembre; prima che – come ha sottolineato Michele Sarfatti – anche in Italia si passasse dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite , tanto che alcuni, già da tempo discriminati <233 e privati dei diritti di uomini e di cittadini dalla normativa antiebraica del regime, avevano già alle spalle due anni ininterrotti di internamento perché colpiti dal provvedimento allo scoppio del conflitto.
In questo caso non si tratta ovviamente di un uso strumentale finalizzato all’autoassoluzione – si è accennato precedentemente al nocumento recato agli studi storici dal “demone” del confronto – ma semplicemente, nelle esperienze degli stessi ebrei discriminati, internati e deportati, quanto è avvenuto prima dell’8 settembre 1943, in confronto con l’efferata brutalità della persecuzione nazista e della soluzione finale, è stato automaticamente relativizzato ed è passato in secondo piano, ricordato nel complesso positivamente e in alcuni casi queste esperienze hanno assunto addirittura i tratti del ricordo felice; questo è vero sopratutto nel caso degli ebrei stranieri che hanno trovato in Italia un rifugio, quantunque «precario», dalla persecuzione nazista, scappando da condizioni di violenza e segregazione insostenibili, per i quali la parentesi dell’internamento fascista tra il 1940 e il 1943 fu un triennio di tregua, quasi avulso dal continuum che legava la persecuzione subita nei territori occupati dalla Germania e quella subita anche in Italia dopo l’armistizio.
Un esempio in questo senso è la lapide apposta nel 1993 dal dott. Paul Pollak, unico sopravvissuto dei circa cento ebrei internati nel campo di Urbisaglia deportati ad Auschwitz: «Nelle ore grigie ed oscure di Auschwitz abbiamo sempre visto avanti a noi, come un miraggio, il luminoso giardino dell’Abbadia di Fiastra, in Italia paese di sole e di buona gente. Paul Pollak – 8 settembre 1943-1993» <234.
Come ha notato John Foot, i morti «non potevano tramandare alcun ricordo felice del passato» <235 e il fatto che Pollak fu l’unico sopravvissuto degli ebrei deportati da Urbisaglia a Fossoli e poi ad Auschwitz, fa sì che la targa diventi «uno strano modo per ricordare un internamento che portò direttamente tutti, fuorché uno, alla camera a gas» <236.
Anche la storia dell’internamento ebraico è stata dunque per lungo tempo relegata in una posizione marginale nella riflessione sulla storia degli ebrei italiani durante il fascismo; come ha opportunamente evidenziato Michele Sarfatti «in linea generale si può dire che da parte degli ebrei italiani l’internamento è stato vissuto come un episodio tutto sommato minore della propria vicenda complessiva di quegli anni. E forse proprio questa svalutazione ha inciso anche sulla
riflessione degli storici» <237.
Alcuni accenni all’internamento degli ebrei italiani e stranieri nel periodo ’40-43 pur nella delineazione di ricostruzioni per forza di cose frammentarie e carenti, risalgono all’immediato dopoguerra, anzi la prima testimonianza che ha dato conto di un campo di internamento fascista – il campo femminile di Lanciano (Chieti) – fu data alle stampe già nell’ottobre del 1944, in una Roma appena liberata dagli Alleati, anche se i riferimenti geografici e i toponimi sono indicati solo con l’iniziale e questo non ha consentito di comprendere immediatamente di quale struttura si trattasse, tanto più che il campo di Lanciano, così come molti altri, è sfuggito ai primi tentativi di censimento delle strutture di internamento, almeno fino alla fine degli anni Ottanta <238. Si tratta del diario di Maria Eisenstein – giovane studentessa straniera iscritta alla facoltà di lettere dell’Università di Firenze e che proprio per motivi di studio aveva ottenuto di poter restare in Italia nonostante i decreti di espulsione degli ebrei -, pubblicato per i tipi di De Luigi con il titolo L’internata numero 6. Donne fra i reticolati del campo di concentramento. Questo racconto autobiografico, lettura gradevole da un punto di vista squisitamente letterario e testimonianza di grande valore, ricostruisce la sua vicenda dall’arresto avvenuto a Catania nel giugno 1940, fino alla primavera del 1941 dedicando ampio spazio proprio ai cinque mesi di internamento a Lanciano tra il 4 luglio e il 13 dicembre 1940 <239.
[NOTE]
164 G. Belardelli, Giorno della Memoria, lo storico Giovanni Sabbatucci boccia Silvio Berlusconi: “Le sue affermazioni sono bestialità, ecco perché…”, in «L’Huffington Post», 27 gennaio 2013, disponibile all’indirizzo:
[http://www.huffingtonpost.it/2013/01/27/sabbatucci-boccia-berlusconi_n_2561063.html].
165 Ibidem.
166 E. Biagi, L’Italia dei peccatori, Rizzoli, 1991, p. 168. Si veda Ginsborg, Silvio Berlusconi. Television, Power and Patrimony, cit., p. 154.
167 Ginsborg, Silvio Berlusconi. Television, Power and Patrimony, cit., pp. 154-155.
168 Winterhalter, Raccontare e inventare. Storia, memoria e trasmissione storica delle Resistenza armata in Italia, cit., pp. 293-298. Ci si limita qui a citare e segnalare a titolo di esempio, gli episodi recenti di manipolazione e falsificazione del materiale fotografico che testimonia i crimini di guerra fascisti e nazisti in Jugoslavia spacciato ripetutamente e insistentemente – in particolare durante le commemorazioni del Giorno del ricordo – come documentazione riguardante le vittime delle foibe. Un esempio significativo è l’immagine che ritrae uno scheletrito internato sloveno nel campo di concentramento italiano di Arbe che si può vedere in copertina del libro Lager Italiani di Alessandra Kersevan o ne I campi del duce di Carlo Spartaco Capogreco – già erroneamente identificata come immagine di un internato ad Auschwitz -, associato nel 2008 a una manifestazione viterbese per la commemorazione dei martiri delle foibe. Un altro esempio altrettanto eloquente è l’immagine della fucilazione di cinque ostaggi civili sloveni nei pressi del villaggio di Dane il 31 luglio 1942 da parte delle truppe italiane, pubblicata nel 1946 a Lubiana in un libro sull’occupazione italiana della provincia di Lubiana di Giuseppe Piemontese e negli ultimi anni spacciata ripetutamente, anche nella puntata del 13 febbraio 2012 del programma televisivo “Porta a porta” condotto da Bruno Vespa, come l’immagine della fucilazione di cinque italiani da parte dei partigiani titini. Sulla questione si faccia riferimento a P. Purini, Come si manipola la storia attraverso le immagini: il #GiornodelRicordo e i falsi fotografici sulle #foibe, in «Giap», 11 marzo 2015, all’indirizzo [http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=20649] e in particolare sulla prima foto si veda Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), cit., p. 7 e immagine n. 12, sulla seconda immagine si vedano G. Piemontese, Ventinove mesi di occupazione italiana nella provincia di Lubiana. Considerazioni e documenti, Lubiana 1946, M. Smargiassi, Non dire falsa testimonianza, in [http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2012/03/23/non-dire-falsa-testimonianza/] e Sul web fioccano le bufale, in «l’Espresso», 12 marzo 2015, p. 129.
169 Vidotto, Guida allo studio della storia contemporanea, cit., pp. 18-19.
223 A.V. Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, Einaudi, Torino 2001, pp. 71-75.
224 Kotek, Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio. La tragedia del Novecento, cit. Sulle riserve in proposito alla definizione «secolo dei campi», semplificazione che «non aiuta lo sforzo euristico di comprensione. Appiattisce vicende, a tratti omologhe ma anche distinte, all’interno di un unico paradigma» si vedano C. Vercelli, Tanti olocausti. La deportazione e l’internamento dei campi nazisti, Giuntina, Firenze 2005, pp. 17-23, (la citazione a p. 17) e Id, Il secolo dei campi? I lager nazisti e i gulag staliniani tra interpretazione e comparazione, in «Asti contemporanea», n. 9, 2003, pp. 13-108.
225 R.S.C. Gordon, Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Bollati Boringhieri, Torino 2013, (edizione originale: The Holocaust in Italian Culture, 1944-2010, Stanford University Press, Stanford 2012),
pp. 14-15.
226 E. Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, traduzione di L. Cortese, Feltrinelli, Milano 2012, (edizione originale, L’Histoire comme champ de bataille. Interpréter les violences du XXᵉ siècle, La Découverte, Paris 2011), p. 106. Si veda anche Id., Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, cit., pp. 52-60, 79-86.
227 Si veda Stefanori, La Resistenza di fronte alla persecuzione degli ebrei in Italia (1943-1945), cit., pp. 4-5.
228 Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, cit., p. 106.
229 D Bidussa, Narrazione, rievocazione, rappresentazione. Le domande alla storia e i percorsi di memoria, in Oltre la notte. Memoria della Shoah e diritti umani. In occasione degli 80 anni di Elie Wiesel, a cura della Comunità ebraica di Venezia, Giuntina, Firenzae 2009, p. 83.
230 V. Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano 2012. Si veda anche Ead., Banalizzare e sacralizzare, in Baiardi, Cavaglion, Dopo i testimoni. Memorie, storiografie e narrazioni della deportazione razziale, cit., pp. 185-194.
231 P. Bonetti, I nodi giuridici della condizione di Rom e Sinti in Italia, in Id., A. Simoni, T. Vitale (a cura di), La condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia, vol. I, Giuffrè, Milano 2011, p. 18. Si veda il testo della legge n. 211 del 20 luglio 2000, pubblicato in «Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana», n. 177, 31 luglio 2000. Sul giorno della memoria si vedano Gordon, Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), cit. pp. 284-298, D. Bidussa, La politica della memoria in Italia. Appunti sulla storia e la pratica del Giorno della memoria, in «Annali del Dipartimento di Storia», Politiche della memoria, a cura di A. Rossi Doria e G. Fiocco, n. 3, 2007, pp. 89-108, D. Bidussa, Attorno al Giorno della Memoria, in M. Flores, S. Levis Sullam, M.-A. Matard-Bonucci, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni. Vol. II. Memorie, rappresentazioni, eredità, UTET, Torino 2010, pp. 550-567, E. De Cristofaro, L’inquadramento giuridico del passato: memoria della Shoah e legge italiana, ibidem, pp. 337-356, F. Rocchetti, Il simbolo del voto unanime: l’istituzione del “Giorno della memoria” attraverso il dibattito parlamentare, in G. Capriotti (a cura di), Antigiudaismo, Antisemitismo, Memoria. Un approccio pluridisciplinare, EUM, Macerata 2009, pp. 331-346 e F. Focardi, Rielaborare il passato. Usi pubblici della storia e della memoria in Italia dopo la Prima Repubblica, in G. Resta. V. Zeno-Zencovich (a cura di), Riparare Risarcire Ricordare. un dialogo tra storici e giuristi, Editoriale Scientifica, Napoli 2012, pp. 241-271, in particolare p. 268.
232 L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), nuova edizione, Mursia, Milano 2011 (1ª edizione, 1991).
233 Si veda M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, Torino 2009 (1ª edizione, 2005), pp. 98-123
234 La lapide si trova all’interno del giardino, sul muro esterno della foresteria, perpendicolare alla facciata del palazzo Giustiniani-Bandini. Il testo della lapide è stato riportato, con qualche imprecisione, anche in Galluccio, I lager in Italia. La memoria sepolta nei duecento luoghi di deportazione fascisti, cit., p. 100. Una foto della lapide si può vedere all’indirizzo [http://www.damjanabratuz.ca/family/urbisaglia2011.htm]. Si tratta del sito personale della
Dr.ssa Damjana Bratuž, figlia di Rudolf Bratuž, ex internato nel campo di Urbisaglia, in cui racconta della cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria del Comune di Urbisaglia a lei e a sua sorella l’11 luglio 2011. Si veda in proposito il Verbale di Deliberazione n. 23 del 11 luglio 2011 del Consiglio Comunale del Comune di Urbisaglia. Si veda inoltre R. Cruciani, Campo di concentramento di Urbisaglia Bonservizi all’abbadia di Fiastra, Villa Bandini: Memorie dell’internato Bratuž Rudolf (Bertossi Rodolfo), s.e., s.l. 1998. Il dott. Pollak ha scritto anche un memoriale dedicato alla sua esperienza di internamento a Urbisaglia conservato presso l’Archivio del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, nel fondo Israel Kalk. P. Pollak, Das Konzentrationslager Urbisaglia (Macerata), ACDEC, Israel Kalk, III-IV. Confino e altri campi, b. 3, f. 33. Testimonianze del medico viennese Pollak. Il fascicolo conserva anche la deposizione di Pollak al Comando Sovietico di Cracovia, dal titolo ProtoKoll, rilasciata dopo la sua liberazione da Auschwitz, avvenuta l’8 febbraio 1945 in cui racconta le sue esperienze a Buchenwald, Urbisaglia e Auschwitz. Il fondo Israel Kalk, donato nel 1982 al CDEC dalla moglie Giorgetta Lubatti Kalk, è stato digitalizzato ed è consultabile all’indirizzo [http://www.cdec.it/Fondo_kalk/default.asp]. Il memoriale è stato pubblicato in diverse occasioni: in una pubblicazione di carattere divulgativo, redatta nel 1993 in occasione di una mostra di posta militare e aggiornata in una nuova edizione nel 2000, opera di un appassionato di filatelia marchigiano Roberto Cruciani, nel 1997 nel volume di Aldo Chiavari dedicato alla liberazione di Macerata e nel 2010 nel volume, curato da Christina Köstner e Klaus Voigt, incentrato sulle esperienze degli ebrei austriaci che scapparono dalla persecuzione nazista rifugiandosi in Italia, R. Cruciani (a cura di), E vennero…50 anni di libertà, (1943-1993). Campi di concentramento, prigionieri di guerra, internamento libero nelle Marche, 1940-1943, Artivisive, Macerata 2000 (1ª edizione, 1993), pp. 29-35, A. Chiavari, L’ultima guerra in Val di Chienti. Il passaggio del fronte e la liberazione nel Maceratese, Sico, Macerata 1997, pp. 195-203, P. Pollak, Il campo di concentramento di Urbisaglia (Macerata), in C. Köstner, K. Voigt (a cura di), «Rinasceva una piccola speranza». L’esilio austriaco in Italia (1938-1945), traduzione di L. Melissari, Forum, Udine 2010, (edizione originale, Österreichisches Exil in Italien 1938-1945, Mandelbaum, Wien 2009), pp. 274-275. Anche la figlia del dott. Pollak, dott.ssa Helga Feldner, arrestata a Vienna e deportata a Theresienstadt, è stata insignita della cittadinanza onoraria dal Consiglio comunale di Urbisaglia nel gennaio 2015. Si vedano S.S. Kalmar, Goodbye Vienna!, Strawberry Hill Press, San Francisco 1987, p. 94 e D.J. Hecht, Jüdische Jugendliche während der Shoah in Wien. Der Freundeskreis von Ilse und Kurt Mezel, in A. Löw, D.L. Bergen, A. Hájková (a cura di), Alltag im Holocaust. Jüdisches Leben im Großdeutschen Reich 1941-1945, Oldenbourg, München 2013, p. 114. Si veda inoltre l’intervista a Feldner realizzata dalla USC Shoah Foundation Institute e pubblicata sul canale YouTube dell’istituto Yad Vashem all’indirizzo [https://youtu.be/4kWEtVZzUUo].
235 Foot, Fratture d’Italia. Da Caporetto al G8 di Genova. La memoria divisa del paese, cit., p. 206.
236 Ibidem, pp. 206-207.
237 M. Sarfatti, L’internamento nei campi degli ebrei italiani antifascisti e degli ebrei stranieri (1940-1943). Rassegna bibliografica e spunti di ricerca, in Volpe, Ferramonti: un lager nel sud, cit., p. 51. Si veda inoltre M. Toscano, L’internamento degli ebrei italiani 1940-1943: tra contingenze belliche e politica razziale, in Di Sante, I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), cit., pp. 96-97.
238 In proposito si veda G. Orecchioni, I sassi e le ombre. Storie di internamento e di confino nell’Italia fascista. Lanciano 1940-1943, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2006, pp. 13-15.
239 M. Eisenstein, L’internata numero 6. Donne fra i reticolati del campo di concentramento, prefazione di G. Giovannelli, postfazione di C.S. Capogreco, Tranchida, Milano 1994 (1ª edizione, D. De Luigi, Roma 1944), ripubblicato nel 2014 in M. Eisenstein, L’internata numero 6, a cura di C.S. Capogreco, prefazione di G. Giovannelli, Mimesis, Milano 2014. Si vedano inoltre Sarfatti, L’internamento nei campi degli ebrei italiani antifascisti e degli ebrei stranieri (1940-1943). Rassegna bibliografica e spunti di ricerca, cit., pp. 37-65, Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), cit., pp. 10, 217-219 e Orecchioni, I sassi e le ombre. Storie di internamento e di confino nell’Italia fascista. Lanciano 1940-1943, cit., passim.
Matteo Soldini, Fiori di campo. Storie di internamento femminile nell’Italia fascista (1940-1943), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2017