Canelli si chiama Orchidea, Cassinasco è Garofano, Isola d’Asti è Viola…

[…] Una delle più recenti testimonianze ci viene offerta da Nicoletta Soave Liberati con il suo “I ragazzi del Falchetto”.
Epicentro del racconto è, appunto, il colle del Falchetto, che all’alba del 15 giugno 1944 vide l’eccidio di cinque ragazzi, nel loro primo giorno da ribelli.
Due di questi erano stati accompagnati da Nicoletta la sera prima, attraverso boschi e sentieri accidentati, a raggiungere la squadra del comandante garibaldino Rocca.
Il colle del Falchetto è un bricco (così i monferrini e i langaroli chiamano le alture delle colline) che si erge solitario in mezzo alle vigne e allo splendido paesaggio delle Langhe che ha indotto recentemente l’Unesco a dichiararlo “patrimonio dell’umanità”.
Nel silenzio e nella quiete delle vigne all’alba, una squadra dell’Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana di Asti, la cosiddetta Banda Poggi, irrompe alle spalle dei ragazzi: i quali non fanno in tempo neppure a prendere le armi. Una mitragliata nella schiena li stende a terra.
Verranno portati su un carro sulla piazza di Canelli e buttati per terra.
Un capitano dà l’ordine di passare sopra i cadaveri con i carri. La popolazione, indignata, li ferma. Persino i buoi si rifiutano allo scempio, si impuntano e non avanzano.
Saranno portarti nell’obitorio del cimitero di Canelli dove Nicoletta ritroverà Bruno. Era arrivato da Torino il giorno prima, accompagnato dalla madre. Nicoletta non può dimenticare l’abbraccio tra la madre e il figlio nel cortile di casa sua. Il figlio le sussurra “Stai tranquilla mamma, fatti coraggio tornerò sano e salvo”. La donna si avviò senza voltarsi indietro per non farsi vedere piangere. Il giorno dopo Bruno non c’era più.
I racconti di Nicoletta non sono mai soltanto una rigorosa quanto asciutta narrazione di ciò che ha visto. C’è sempre, mescolata, questa partecipazione accorata. Si indovina che, mentre scrive, Nicoletta è in quel luogo, rivede svolgersi il fatto, rivive il dolore appassionato di allora, come non fossero trascorsi tanti anni. Ha osservato e memorizzato piccoli dettagli, come diicilmente facevano i partigiani, a meno che non si tratti di dettagli legati alle armi e a fatti di guerra (atteggiamento tipico delle donne?). Nel momento in cui rivede Bruno sul tavolo di marmo del cimitero, nota un briciolo di uovo sodo rimasto sull’angolo della bocca e lo pulisce, precisa, con questo dito; erano le uova che la mamma aveva portato a Bruno, il ragazzo lo stava sbocconcellando quando la raffica lo colpì a tradimento.
Ciò che rende particolare la testimonianza è il senso di Nicoletta per l’umano: non c’è parola, descrizione di un momento, di un paesaggio o personaggio, che non comunichi questo profondo innato sentimento. Partigiana, vive a S. Stefano Belbo, celebre per avere dato i natali a Cesare Pavese, avamposto delle Langhe, quasi una piccola, civile cittadina in mezzo alle poverissime terre coperte di boschi di castagno, abeti, vigneti che a quei tempi rendevano poco. La sua Resistenza inizia recapitando qualche messaggio, segnalazioni, informazioni.
Piccole cose. Il salto lo fa quando attraversa un posto di blocco recapitando una pistola in mezzo ai seni, facilmente individuabile nonostante la fasciatura.
Da allora, fa tutte le cose che fanno le stafette, il trasporto di armi, l’accompagnamento attraverso posti noti a loro sole di ragazzi decisi a diventare ribelli, i pidocchi, la scabbia, ecc.
Racconta divertita il lavoro di telefonista, che consiste nel collegamento radiofonico tra tutti i paesi della zona liberata dai partigiani […] Due volte viene arrestata. La prima volta nell’agosto 1944; viene rilasciata perché giudicata non pericolosa, forse a causa della sua aria giovane e ingenua. La seconda volta – è l’inizio del gennaio ’45 – ad opera dei feroci Arditi della San Marco. Viene portata insieme ad una novantina di uomini ed altre cinque ragazze, in un camerone della caserma di Asti dove vengono consegnati ai tedeschi. Per coprirli, un poco di paglia. Improvvisamente Nicoletta riconosce, nel soldato di guardia alla porta, il tedesco che mesi prima era stato prigioniero del distaccamento di Freccia a Santo Stefano Belbo. La situazione si è rovesciata. Avverte Claudia, si sentono perdute. Il tedesco le avrebbe sicuramente riconosciute, non avevano scampo. Ricordava benissimo quel soldato, perché era fisicamente fisicamente diverso dal tipo di tedesco delle SS, alto, biondo. Questo era piuttosto basso, con bai scuri. Con lui c’era un ragazzo molto giovane, completamente sordo a causa dello scoppio di una bomba. Il più grande aveva verso di lui un atteggiamento protettivo. Erano molto abbattuti e di aspetto umile. La gente del paese li dileggiava e gli sputava addosso. Nicoletta e l’amica Claudia avevano avuto molta pena per loro. Avevano trovato due pagnottone di pane e gliele avevano portate. Il più anziano le aveva ringraziate per il ragazzo. Non lo rividero più. Ora si trovavano con un testimone attendibilissimo della loro appartenenza ai partigiani. Accadde che nella notte videro nella penombra entrare in punta di piedi il loro tedesco. Finsero di dormire. Il tedesco stese su di loro una coperta. Poi, delicatamente, appoggiò vicino alle loro mani una borraccia caldissima piena di cioccolato e tornò indietro. Il giorno dopo si incontrarono due volte nel corridoio, non si rivolsero neppure un’occhiata. Il senso di Nicoletta per l’umano era riuscito a toccare persino un tedesco!
[…] Il padre è, per i figli, il modello. Antifascista da sempre – “il più accanito antifascista del paese”, licenziato dalle ferrovie perché si rifiutava di prendere la tessera del fascio, manteneva la famiglia facendo il cestaio. “A noi figli ha lasciato l’eredità di continuare a gridare contro ciò che è ingiusto. Parlava pochissimo: fu dai suoi silenzi che imparai molte cose. Rispettare il prossimo, non inchinarsi e non essere servili con i potenti”. La Resistenza fu il suo riscatto […]
Marisa Ombra, Un libro sui cinque giovani massacrati il primo giorno da ribelli. “I ragazzi del Falchetto” nel racconto di Nicoletta Soave, Patria Indipendente, ottobre-novembre 2014

Nicoletta Soave – Fonte: Patria Indipendente

Nicoletta Soave Liberati appartiene a quella schiera di protagonisti dimenticati. Eppure, la sua storia si intreccia e tocca con mano i nomi noti delle grandi opere letterarie, come quelle di Beppe Fenoglio, in quel delle Langhe piemontesi. Lei è tra le ragazze della piazza di Santo Stefano Belbo, così vividamente descritta ne “Il Partigiano Johnny”, allegramente affollata dagli azzurri badogliani e dai rossi garibaldini; Nicoletta è tra le partigiane che rischiano la vita percorrendo il panorama della Resistenza delle Langhe, descritto nello stesso libro, per trasportare armi, viveri, consegnare messaggi, per mantenere i collegamenti tra le formazioni garibaldine del comandante Rocca e i badogliani del comandante Nord (Piero Balbo, Poli).
Come gran parte della gente che partecipò alla Resistenza, parla poco di sé. Quando lo fa, spesso si ritrae con genuina modestia. Crede veramente che il suo contributo sia stato poca cosa, che fece soltanto ciò che andava fatto, semplicemente perché era giusto. L’hanno infine convinta a scrivere un libro, in collaborazione con Antonella Saracco, “I Ragazzi del Falchetto”, editore Araba Fenice. Tuttavia, tenendo fede alla sua innata umiltà, dedica gran parte dell’opera agli altri. Così infatti inizia il suo racconto: “La mia partecipazione alla Resistenza è stata una piccolissima cosa, sono passata come un moscerino intorno a quelle vicende, a quelle tragedie”.
Nata e cresciuta a Santo Stefano Belbo, paese che diede i natali a Cesare Pavese, Nicoletta respira quotidianamente gli ideali che il padre le insegna e pratica. Valori di libertà, solidarietà, giustizia, che si addicono bene alla sua indole umanitaria. Nel libro descrive il padre come socialista, non credente, che però “…seguiva gli insegnamenti di Cristo”. E ancora, “Nel cortile di casa nostra c’era un posto dove ogni mendicante che passava poteva sedersi a mangiare quello che era possibile offrirgli…” Più tardi, dopo la guerra, nel letto di morte, il padre le vuole rivelare un rimorso per un fatto accaduto quando era giovane. Lei crede che si tratti di chissà quale crimine, e invece le confessa: “Un mattino andavo a caccia e, a un certo punto ho scoperto in un anfratto il giaciglio di una lepre. Punto il fucile e sparo: era un leprone di quasi cinque chili. Non mi sono mai perdonato quella vigliaccheria. Non si spara a un dormiente”.
Nicoletta è Partigiana della prima ora, quando gli esiti della guerra sono ancora incerti, nel nord della penisola dominato dai nazifascisti, quando è ancora conveniente aderire al fascio, o rimanere nascosti o indifferenti. La casa di suo padre diventa subito un luogo di transito e di soggiorno della Resistenza. Appena diciottenne, riceve il suo primo incarico: andare in bicicletta a ritirare una pistola, superando un posto di blocco fascista. Ragazza attraente, con la pistola sotto il seno fermata da una cintura, passa sorridente il posto di blocco tra i saluti e le frasi galanti dei fascisti.
Dopo il suo primo incarico, Nicoletta diventa membro delle formazioni garibaldine del comandante Rocca, con il nome di battaglia Mirka. Le missioni di staffetta si moltiplicano, fino all’avvento delle Repubbliche Partigiane, zone liberate e autonomamente amministrate. In tale periodo di surreale libertà, quando la guerra sembrava finita, lavora come telefonista; ogni paese delle Langhe liberato ha per nome di battaglia un fiore: Canelli si chiama Orchidea, Cassinasco è Garofano, Isola d’Asti è Viola…
Ma arrivano i grandi rastrellamenti d’autunno, e la perdita delle zone libere. Ora per Nicoletta finisce l’anonimato, il suo ruolo è conosciuto e inizia quindi la sua vita partigiana interamente clandestina. Catturata il 7 gennaio 1945, assieme all’amica Claudia Perini di Genova, viene sottoposta a numerosi, duri interrogatori. Trasferita ad Asti, in una caserma tedesca, inizia una dura vita carceraria, mentre i pressanti interrogatori continuano. Nessuno si sorprenderebbe se una ragazza diciottenne, intimorita dai metodi nazifascisti, cedesse e cominciasse a parlare. Ma lei non lo fa, continua a sostenere che lavorava come telefonista perché la pagavano bene.
Qui si inserisce un episodio umano che le salvò la vita. Una sera, durante il breve periodo passato nelle zone libere delle Repubbliche Partigiane, Nicoletta e l’amica Claudia avevano fatto la guardia a due giovani tedeschi catturati dai partigiani. Avevano provato pietà per quei due ragazzi intimoriti, e le avevano portato una pagnotta. Adesso, lei prigioniera nella caserma tedesca di Asti, riconosce nel soldato tedesco che piantona l’ingresso, uno dei due ragazzi prigionieri ai quali aveva fatto lei la guardia. Si sente perduta; aveva finora negato il suo coinvolgimento nella Resistenza, ma ora esiste un testimone con i fiocchi. Invece, la notte, mentre sta coricata con l’amica Claudia e cerca di addormentarsi sconfiggendo il freddo e la fame, vede entrare nella penombra il conosciuto tedesco; le due, vicinissime per riscaldarsi, con le mani unite, fingono di dormire; il soldato le copre con una coperta e posa vicino alle mani una borraccia di cioccolata caldissima.
Trasferite alle Carceri Nuove di Torino, vengono liberate il 10 febbraio e tornano a Santo Stefano Belbo, credendo che ormai il calvario sia finito. Il destino, tuttavia, riserva altre sorprese. In quei giorni era stata giustiziata una donna, spia fascista, e i fascisti cercavano vendetta. Il capitano fascista da ordine di arrestare Nicoletta e Claudia. Ma il caso volle che il parroco del paese si trovi nell’ingresso dell’ufficio quando viene dato l’ordine. Prende quindi la bicicletta e si precipita ad avvisarle. Claudia torna a Genova, mentre Nicoletta si trasferisce a Torino, dove continua la sua azione partigiana fino alla Liberazione, distribuendo stampa clandestina in città e dintorni.
Gerardo Ongaro, Nicoletta Soave Liberati, ovvero, umanità nella tragedia, SinistrainEuropa.it, 30 ottobre 2019