Carlo Levi dovette la sua incolumità durante il periodo clandestino a una rete di protezione quasi tutta femminile

Firenze – Fonte: Wikipedia

[…] 26 luglio 1943. Durante l’estate Carlo Levi partecipa alle caute speranze e alle modeste prospettive aperte dal governo militare di Badoglio, consolida i suoi rapporti con gli ambienti del liberalsocialismo fiorentino e insieme a quegli uomini e a quelle donne è partecipe dei primi passi del Partito d’Azione (capitolo 4). L’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione nazista lo costringono a interrompere bruscamente i suoi nuovi impegni. Solo a poco a poco, verso la fine del suo periodo di clandestinità, può riprendere un ruolo attivo, prima ancora in modo informale, attraverso la sua rete di relazione, quindi entrando nella Commissione stampa del CTLN, attiva a partire dalla tarda primavera del 1944 (capitolo 5). Allo scoppio della battaglia di Firenze, Levi assume un ruolo pubblico: è uno dei cinque direttori della “Nazione del Popolo” (capitolo 6). La terza parte ha per scenario la Firenze libera e liberata: la prima città italiana dove le truppe anglo-americane trovano un effettivo governo locale organizzato dalle forze antifasciste; una città che per molti mesi ancora sarà occupata – questa volta dagli Alleati – e retrovia della guerra che continua nel Nord. Levi ha impegni nuovi e per i suoi incarichi si trova coinvolto in tutte le discussioni e i conflitti che nascono intorno alla costruzione della vita democratica nell’Italia liberata e alla ricostruzione materiale di Firenze. A partire dal maggio 1945, aumenta la mole degli impegni di Levi: non sono più solo a Firenze, ma di nuovo a Torino e anche a Milano; alla fine di quell’estate un incarico a Roma sarà all’origine di un trasloco definitivo. Per me questo rappresenta l’epilogo della vicenda: lascio Levi mentre Levi sta lasciando Firenze.

  1. Questi anni costituiscono un periodo poco conosciuto della biografia di Levi, su cui anzi, nel corso del tempo, si sono accumulati malintesi e inesattezze. Per esempio, Gigliola De Donato – una delle principali studiose e biografe dell’intellettuale torinese – ha sostenuto che Levi riuscì a pubblicare il saggio Paura della pittura nell’estate 1942, in un fascicolo della rivista di Curzio Malaparte “Prospettive”, sulla base di una inesatta testimonianza resa dallo stesso Levi negli anni Sessanta. L’errore è stato ripreso senza che ci si interrogasse su quali possibilità aveva un uomo di “razza ebraica” di pubblicare qualcosa in Italia nel 1942, e nemmeno chiedendosi sotto quale pseudonimo avesse potuto celarsi Levi. Una verifica sulla collezione della rivista avrebbe risolto ogni dubbio: l’articolo in questione non è mai stato pubblicato su “Prospettive”. Anche il terzo arresto e la carcerazione subita da Levi a Firenze hanno suscitato scarsa curiosità e si è sempre genericamente parlato di un arresto avvenuto in primavera, qualcuno azzardando il mese – aprile o maggio –, probabilmente sulla base della nota sul risvolto della prima edizione del Cristo si è fermato a Eboli. In realtà, Levi è arrestato il 26 giugno a Torino, e quindi trasferito alle Murate qualche giorno dopo.

[…]

Le scarse notizie relative al suo soggiorno fiorentino tra 1941 e 1943 sono abbastanza eloquenti sul modo in cui visse a Firenze; in quegli anni – come si vedrà – Levi si sposta di continuo e – a parte alcuni brevi periodi – dà l’impressione di essere sempre di passaggio nello studio di piazza Donatello. Stupisce di più che ci sia un silenzio simile per i mesi tra il 1944 e il 1945, e a volte si ha l’impressione che Levi sia stato smarrito nel conflitto per il controllo della memoria della Resistenza e delle vicende del Partito d’Azione a Firenze.

[…] sulla “Nazione del Popolo”, riprendendo le riflessioni che svolgeva sin dagli anni Venti, sulla scia della collaborazione con Piero Gobetti, Levi ribadiva che il fascismo non era “una malattia occasionale in un corpo sano, l’interruzione violenta e casuale di un processo storico ricco di sviluppi che potrà riprendere, dopo l’intervallo, la sua evoluzione”. Per questo motivo, era impossibile pensare la nuova democrazia italiana in continuità con l’Italia liberale. “Riattaccarci alle condizioni e alle idee politiche precedenti il fascismo significherebbe porre le basi di un nuovo e peggiore fascismo. E, veramente, avremmo trascorso invano questi anni di inferno”. La Resistenza sviluppatasi a partire dall’8 settembre – dopo l’esperienza delle lotte della primavera 1943, culminate nell’entusiasmo del 25 luglio, stroncato dalla “Restaurazione” del re e di Badoglio – rappresentava la massima espansione di una lotta antifascista che era stata iniziata da pochi già vent’anni prima, e allo stesso tempo il primo passo di una rivoluzione più ampia, capace di travalicare tanto i confini della politica tradizionalmente intesa che quelli degli Stati e delle nazioni. Levi non esitava a insistere – e si trattava quasi di un auspicio – sul carattere di guerra civile europea che aveva preso il conflitto negli ultimi due anni. È la guerra civile di Europa, e in essa non vi sono italiani e francesi e inglesi e tedeschi e russi e americani, ma uomini liberi contro uomini servi. Anche se talvolta la guerra può prendere l’aspetto di una guerra di imperi, di una lotta per la potenza, essa è, invece, necessariamente, la guerra civile rivoluzionaria in Europa.
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Ci sono altri scenari e altre città in queste pagine: i luoghi a cui Levi era legato da vincoli affettivi, o da questioni pratiche, e in cui si recava regolarmente: Torino e Alassio. Poi ci sono le città degli amici e dei corrispondenti. Quindi ci sono gli “interni”: le case, un atelier, i luoghi di ritrovo dei circoli letterari, e quelli in cui Levi sarà costretto a vivere: – il carcere e i rifugi durante il periodo clandestino –, e ancora la redazione de “La Nazione del Popolo”. Infine, c’è un contesto generale che a volte soverchia tutti gli altri: la guerra, con i pericoli e le privazioni che comporta, la precarietà dell’esistenza, la paura dei bombardamenti, le perdite, le sofferenze che si prolungano ben oltre il giorno in cui le autorità proclamano “è finita”. In questo caso ho cercato di seguire il consiglio di Arthur Schnitzler: “Il vocabolario della guerra è fatto dai diplomatici, dai militari, dai potenti. Dovrebbe essere corretto dai reduci, dalle vedove, dagli orfani, dai medici e dai poeti”.
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Fra il 1945 e il 1950 – fa notare Portelli –, non esisteva nemmeno la parola per nominare le “molestie sessuali” con cui queste donne – giovani vedove, quindi implicitamente prede disponibili per l’immaginario maschile – avevano dovuto fare i conti negli anni subito dopo la guerra, negli uffici dove andavano a svolgere le pratiche delle pensioni o nei posti di lavoro. Se dunque è venuto fuori il racconto, lo si deve al fatto che l’intervista si pone come uno spazio aperto di esplorazione reciproca, che non si chiude dopo che sono stati espletati il racconto offerto dall’intervistata e le domande immaginate dall’intervistatore, ma che lascia uno spazio di indeterminatezza e possibilità, di conversazione informale, in cui può emergere proprio la materia non ancora formalizzata. Ed è questo graduale prendere forma, questo riconoscersi come storia di memorie non dette o indicibili, il processo che vediamo svolgersi sotto i nostri occhi in queste narrazioni e al quale l’intervista come incontro sul campo di pari e diversi dà un contributo di grande importanza.
[…] Levi dovette la sua incolumità durante il periodo clandestino a una rete di protezione quasi tutta femminile; rivelò una rara capacità di stabilire dei legami solidi con compagni più giovani di lui; nei suoi articoli sostenne l’idea di una rivoluzione politica fondata su una rivoluzione “antropologica” – a sua volta basata su pratiche libertarie e sul rifiuto di ogni forma d’autoritarismo -, e una concezione particolare della forma e del ruolo dei partiti.

[…] Passando a rievocare la militanza nel gruppo “Giustizia e Libertà”, Foa ricordava che nel 1933 credeva che Levi fosse “il capo del movimento in Italia”. Ma ben presto si dovette ricredere: questo ruolo era incompatibile con l’idea di impegno e di politica che Levi aveva e cercava di praticare; Levi “era una cosa diversa, più importante di un capo, era un animatore, che proponeva un quadro generale di riferimento, rispetto al quale la ricerca, lo studio, l’azione creativa, dovevano rendere effettiva la capacità degli uomini”. […]

Filippo Benfante, Carlo Levi a Firenze e la Firenze di Carlo Levi (1941-1945). Vita quotidiana e militanza politica dalla guerra alla Liberazione, * Tesi di dottorato, European University Institute, Firenze, 2003

 

* Questa ricerca nasce dal recente ritrovamento, presso gli eredi del pittore fiorentino Giovanni Colacicchi, di lettere e documenti appartenuti a Carlo Levi, risalenti al periodo in cui il pittore e scrittore torinese tenne aperto uno studio a Firenze: dalla fine del 1941 alla fine del 1945. Durante questi anni, accadono molte cose che un biografo definirebbe “fondamentali”. Dalla Questura di Firenze parte l’ordine di arresto che costa a Levi la terza carcerazione della sua vita: dalla fine del giugno 1943 sarà detenuto al carcere delle Murate, da cui uscirà il 26 luglio. Tra il 1943 e il 1944, nascosto in piazza Pitti, scrive Cristo si è fermato ad Eboli, che resterà il suo libro più celebre. A Firenze Levi aderisce al Partito d’Azione, e quindi lo rappresenta, dall’agosto 1944, nella direzione interpartitica della “Nazione del Popolo”, il quotidiano pubblicato a cura del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale. Tra i cinque condirettori, Levi si ritaglia un ruolo di assoluto primo piano: ha un peso molto rilevante nella scelta dei collaboratori, a lui si devono la presenza di certi temi e prese di posizione sulle pagine della “Nazione del Popolo”. Levi interviene direttamente – sono almeno trenta i suoi articoli di fondo, concentrati soprattutto nei primi mesi di vita del giornale -, oppure commissiona alcuni pezzi ad hoc ai suoi collaboratori più stretti.
Filippo Benfante

La ricordo ancora, quella vecchia grande radio sopra il mobile del salotto e tutta la famiglia attorno in attesa della proclamazione: Repubblica o Monarchia? Il 5 giugno del ’46 fu il ministro dell’Interno Giuseppe Romita a dichiarare, in una conferenza stampa, la vittoria della Repubblica (e i giornali pubblicarono il risultato il 6 giugno). Il 10 giugno fu la Cassazione a dare i risultati definitivi.
Il giorno prima su Il nuovo Corriere della sera, Piero Calamandrei aveva scritto un articolo che intitolarono “Miracolo della ragione”. Scrisse infatti che il referendum Repubblica/Monarchia svoltosi il 2 giugno aveva reso possibile “un fatto mai accaduto nella storia, che una Repubblica si sia fatta con paziente lentezza e con il re sul trono”.
Ferveva allora il dibattito attorno alla futura Costituzione, nata sui sentieri dei partigiani che avevano combattuto per la libertà.
E già dalla primavera del ’45 Carlo Levi, che in un appartamento di piazza Pitti aveva scritto “Cristo si è fermato a Eboli”, aveva raccontato la sua Firenze sui giornali fiorentini. Par di vederlo, mentre si affanna a descrivere la città nelle pagine della Nazione del Popolo, il quotidiano edito dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale.
È dunque qui che nell’estate del ’45 Levi scrive il suo inno più bello: “Firenze, questa città granducale, addormentata nell’ombra pigra dei suoi palazzi gloriosi, mostrava al mondo, prima fra le città italiane, che cosa fosse la guerra di popolo…una passione civile empiva i cuori di tutti, una speranza di libertà nata nel più profondo della disperazione, un senso di spontaneo sdegno e di naturale dignità contro la sadica barbarie”.
[…] “Oggi è per tutti gli uomini giorno di pace e di rinascita” scrisse Carlo Levi nell’estate del ’45, sempre sulla sua Nazione del popolo. Una rinascita però che non fu così immediata e semplice e nemmeno tanto razionale come forse l’avevano sognata sia Carlo Levi che Piero Calamandrei. Pochi mesi appena, e si trovarono entrambi nella Roma chiassosa del ’46, dello scontro politico attorno alla nascita dello Stato e della Costituzione, mentre l’Italia tutta si preparava al referendum del 2 giugno. Nel collegio di Firenze-Pistoia furono eletti fra gli altri Teresa Mattei, Giorgio La Pira, Bianca Bianchi, Sandro Pertini, Celeste Negarville.
Quel giorno che ascoltammo dalla vecchia radio la vittoria della Repubblica, ci fu molta festa in casa. Mio padre e mia madre si abbracciavano e ridevano come due giovani innamorati, io saltavo da uno all’altra senza sapere davvero perché.Cercavo un po’ d’attenzione. Poi arrivarono gli amici scrittori e artisti, e la festa frugale continuò. Dopo tanto dolore, le persecuzioni, la fame e il freddo, la grande paura, crescevo e giocavo in un mondo che risuonava ora di parole come Repubblica democratica, diritti inviolabili, Libertà, uguaglianza, progresso materiale e spirituale.
Parole che scolpirono la prima parte di quella Costituzione e che Piero Calamandrei e gli altri costituenti vollero però terminasse con una “disposizione” breve e definitiva, qualcosa di più di una storica sentenza: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. […]
Sandra Bonsanti, 2 giugno: l’alba di libertà che illuminò Firenze, la speranza di Carlo Levi e quelle parole che arrivano fino a noi, la Repubblica, 2 giugno 2020

Carlo Levi nasce a Torino nel 1902, da una famiglia torinese della borghesia liberale, progressista, socialista, di origine ebraica. Sua madre è Annetta Treves, sorella del grande leader socialista Claudio Treves.
Carlo trascorre un’infanzia serena e felice. Fin da ragazzo, è appassionato dalla pittura e dipinge molto. A tredici anni dipinge il suo primo quadro, e a quindici il primo ritratto, ispirato all’Autoritratto con guanto di Dürer.
Frequenta il Liceo Alfieri della sua città: qui si lega d’amicizia con Natalino Sapegno <1 e, a partire dal novembre 1918, con Piero Gobetti e il cenacolo della sua prima rivista «Energie Nove».
Nel 1923 un suo quadro, un ritratto del padre, è esposto a Torino. Nello stesso anno, fa un viaggio a Parigi in cui entra a contatto con i Fauves, Modigliani e Soutine.
Trova rapidamente nella pittura una possibilità di ribellarsi contro la retorica fascista e la cultura ufficiale.
A Torino frequenta anche Gramsci e in seguito a questo viaggio in Francia, scrive un articolo sulla pittura per la rivista «L’Ordine Nuovo». Progressivamente, e in modo molto naturale, è a contatto con tutti i grandi antifascisti dell’epoca – Antonicelli, Bobbio, Foa, Mila, Giua, Monti <2.
Nel 1924, all’età di soli 22 anni, è già laureato in medicina e, per quattro anni, fino al 1928, sarà assistente presso la Clinica medica dell’Università di Torino. Ma rapidamente preferisce l’attività di pittore alla carriera universitaria. La sorella maggiore, Luisa, studia anche lei medicina e diventerà una famosa neuropsichiatra.
Accanto alla pittura, pubblica articoli su «Rivoluzione liberale», giornale antifascista, fra i quali un’analisi molto acuta del totalitarismo, Pensiero fascista.
Nel 1924 partecipa alla XIV Biennale di Venezia con le sue prime opere, il Ritratto del padre e il levigato nudo di Arcadia, pur rimanendo molto impegnato politicamente.
Per interessi artistici, fa frequenti viaggi a Parigi, dove apre uno studio (rue de la Convention poi, dal 1929, rue du Cotentin <3).
Nel 1925 e 1926, svolge il servizio militare come sottotenente medico. E continua di partecipare alla Biennale di Venezia, esponendo i suoi quadri.
Nel 1926 muore il suo amico Gobetti, giovane e già notissimo antifascista emigrato a Parigi, dopo le lunghe e aspre persecuzioni fasciste. Viene sepolto nel cimitero di Père Lachaise.
Dal 1927 al 1934 Levi sarà il caposcuola della pittura moderna a Torino e uno dei pittori italiani di notorietà internazionale. Nel 1929, fa parte del Movimento dei «Sei pittori di Torino» e partecipa a diverse mostre, perfino a Parigi e a Buenos Aires, nel 1932.
Nel 1931 prende parte alla stesura del programma rivoluzionario di «Giustizia e Libertà» con i fratelli Rosselli. Questo gruppo liberal-socialista, legato al pensiero di Gobetti, propone una rivoluzione liberale, dunque di sinistra ma non comunista, perché antitotalitaria. Come spiega giustamente Filippo La Porta, il gruppo «tenta di coniugare centralità dell’individuo e ampliamento effettivo della democrazia» <4.
È un movimento che si basa sull’azione degli intellettuali della borghesia illuminata e socialista in senso non strettamente di partito. Del resto, il maestro di Carlo Rosselli all’università di Firenze era stato Gaetano Salvemini, anche lui fieramente antifascista e portatore di un meridionalismo severo nei confronti della piccola borghesia meridionale e della sua insipienza politica e subalternità etico-civile.
Sono per una cultura sinonimo di «coscienza di libertà, azione con gli altri, che allarga e istituisce per tutti, in modo creativo, la libertà» <5. Vogliono proporre un’iniziativa politica che partirebbe dall’alto con una mobilitazione di energie popolari.
I fratelli Rosselli sono emigrati in Francia per evitare la persecuzione fascista.
Levi è il responsabile di Giustizia e Libertà per il Piemonte, poi per tutta l’Italia con Leone Ginzburg. Va spesso a Parigi; come cospiratore abile e coraggioso, si serve della sua attività di pittore per tenere contatti con dirigenti del movimento.
Comincia ad avere un successo importante in Francia (ci sono mostre sue a Parigi) e all’estero. Nella capitale francese, è in stretto contatto con Garosci, Moravia e frequenta molti artisti come De Chirico, Stravinskij o Prokofiev <6. Quando è espulso dalla biennale di Venezia dai fascisti nel 1934 in Francia protestano artisti come Chagall, Léger, Signac.
A Torino come a Parigi, Levi divide la sua vita tra cospirazione politica e pittura.
Conosciuto come antifascista, il 13 marzo 1934 viene arrestato in seguito all’arresto di Sion Segre Amar e alla fuga di Mario Levi a Ponte Tresa: lui e molti ebrei antifascisti sono accusati, ed è vero, di far venire dalla Svizzera manifestini di propaganda antifascista.
Nel 1934, nasce allora una propaganda antisemita fascista che ne approfitta per accusare in blocco gli ebrei italiani di antifascismo e di non meritare la nazionalità italiana. Certi storici hanno del resto situato l’inizio dell’antisemitismo statale in quel periodo e collegato l’inizio della campagna fascista contro gli ebrei a quel preciso evento. Levi viene poi rilasciato il 9 maggio grazie all’appello di alcuni artisti residenti a Parigi.
Nel 1935 è arrestato una seconda volta, su delazione. È chiuso nelle carceri di Torino e poi a Regina Coeli a Roma da dove, in agosto, viene trasferito a Grassano e poi ad Aliano dove rimarrà fino al 26 maggio 1936. Il tribunale speciale fascista ha comminato la sua pena di prigione in tre anni di confino.
Questo periodo rappresenta per Levi una profonda esperienza durante la quale nasce la sua volontà di scrivere. Inoltre, simpatizza molto con i contadini del paese dove è esiliato. Per loro, esercita con pochi mezzi la sua professione iniziale di medico.
Prende molti appunti dal suo soggiorno, vi dipinge settanta quadri e scrive una cinquantina di poesie. Saranno un po’ l’avantesto di CR [Cristo si è fermato a Eboli] <7.
È amnistiato il 20 maggio 1936 a seguito della proclamazione dell’Impero, cioè della vittoria dell’esercito italiano in terra d’Africa, ad Addis Abeba, dopo l’uso massiccio di gas asfissianti sulla popolazione: è allora concessa l’amnistia a tutti i confinati, anche i mafiosi, ma non ai comunisti, considerati i più pericolosi di tutti.
Levi parte con un senso di malinconia. Un grande affetto reciproco è nato con questa regione. I contadini del paese gli sono molto affezionati e gli dichiareranno, prima della sua partenza: «tu sei un cristiano bono. Resta con noi contadini».
Tra il 1936 e il 1939 intensifica la sua attività di pittore ed è presente in numerose mostre. Parallelamente, nel 1937, i fratelli Rosselli sono assassinati in Francia, a Bagnoles-de-l’Orne, dai miliziani della Cagoule, gruppo di estrema destra francese, probabilmente su mandato fascista.
Levi diventa allora il principale animatore del movimento Giustizia e Libertà.
Nel 1938, sono promulgate in Italia le leggi razziali di cui Carlo Levi parlerà pochissimo. Tuttavia è anche per questo, oltre per il fatto di essere sorvegliato in permanenza dalla polizia fascista, che decide nel 1939 di esiliarsi in Francia e di raggiungere Parigi.
Nello stesso anno, si rifugia a La Baule – dove legge la Bibbia e Vico – e scrive Paura della libertà <8 in cui spiega come l’origine del fascismo sia legata essenzialmente a una pigrizia mentale, tipica della classe borghese e della società europea in generale che rifiuta di essere libera e di assumere le sue responsabilità: secondo lui, l’indiguida di un Capo (il Duce, il Führer) che pensi a tutti e per tutti. Esercitare la libertà costa fatica; così nasce, secondo Levi, la tendenza dei deboli e dei pigri a rifugiarsi nell’ideologia di un capo <9.
L’avanzata dei tedeschi lo costringe a scendere nel Sud della Francia. Trascorre gli anni 1940 e 1941 tra Cannes e Marsiglia. Nel 1941, rinuncia alla possibilità di un visto internazionale proposto dal presidente americano Roosevelt ad alcuni artisti e intellettuali europei, un visto che gli avrebbe permesso di recarsi negli Stati Uniti e così di mettersi definitivamente al riparo <10.
Preferisce lottare e combattere contro il fascismo; ha un’alta visione della resistenza, perfettamente incarnata per lui nella figura del caro amico Leone Ginzburg che condensa «allo stesso tempo, elevatezza di ingegno e rigore di vita morale» <11.
Torna in Italia, a Firenze, e aderisce al Partito D’Azione, nato da Giustizia e Libertà, che parteciperà alla Resistenza. Nel 1943, si impegna nella lotta di Liberazione e nella resistenza fiorentina. È arrestato nella primavera del 1943 a Firenze e liberato il 26 luglio successivo, durante l’Armistizio.
A Firenze è ricercato dagli italiani e dai tedeschi, che dopo l’armistizio hanno occupato la città, in quanto partigiano ed ebreo. È ospitato nella casa di una giellista, Anna Maria Ichino, in Piazza Pitti, che ospiterà anche Umberto Saba, sua moglie e la figlia, anche loro ebrei.
È a quell’epoca, dal dicembre 1943 al luglio 1944, che Levi elabora CR a partire da appunti che aveva preso con precisione durante il confino. Si ispira anche a lettere scritte alla famiglia e a poesie composte durante il confino. Come già detto, anche i quadri costituiscono l’avantesto di CR, pur appartenendo ad un altro codice espressivo.
Durante i mesi si stesura, Levi si isola in una stanza, come in un mondo chiuso.
Testimonia perché è consapevole che ogni giorno può essere l’ultimo e non vuole che sia occultata la realtà del Sud, le sue ingiustizie, le sopraffazioni, neanche l’umanità e la dignità di questi luoghi amati e dei loro abitanti.
Dopo la liberazione di Firenze, l’11 agosto 1944, entra nel Comitato Toscano di Liberazione Nazionale in qualità di rappresentante del Partito d’Azione. Dirige allora la rivista «Nazione del Popolo», organo del Comitato toscano di Liberazione.
[NOTE]
1 Sergio D’Amaro, Le parole di Carlo Levi. Guida e dizionario tematico, Bari, Stilo editrice, 2010, p. 10.
2 Giovanni Russo, Carlo Levi segreto, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2011, p. 138.
3 Sergio D’Amaro, Le parole di Carlo Levi cit., p. 13.
4 Filippo La Porta, Carlo Levi. Liberarsi dalla politica attraverso la politica in Oltre la paura. Percorsi nella scrittura di Carlo Levi, a cura di Gigliola De Donato e Guido Sacerdoti, Roma, Donzelli, 2008, p. 113.
5 Carlo Levi, Ricordo di Leone Ginzburg in Le tracce della memoria, a cura di Maria Pagliara, Roma,
Donzelli, 2002, p. 101.
6 Sergio D’Amaro, Le parole di Carlo Levi cit., p. 15.
7 Da qui in avanti CR indicherà il libro analizzato: Cristo si è fermato a Eboli cit.
8 Carlo Levi, Paura della libertà, introduzione di Giorgio Agamben, Vicenza, Neri Pozza, 2018.
9 Riccardo Gasperina Geroni, Il custode della soglia. Il sacro e le forme dell’opera di Carlo Levi, Milano,
Mimesi, 2018, p. 18, 39.
10 Mario Miccinesi, Invito alla lettura di Carlo Levi, Milano, Mursia, 1989, p. 35.
11 Vedi Maria Pagliara, Luoghi e persone nella memoria di Carlo Levi in Oltre la paura cit., p. 131.
Sophie Nezri-Dufour, Levi si è fermato a Eboli, Zamorani, 2019, hal-0238530