C’è però un aspetto della tradizione ebraica che conta per Bassani, mentre non sembra avere la stessa importanza per Levi

Nati a distanza di soli tre anni in famiglie ebraiche colte <1 dell’Italia del Nord, Primo Levi e Giorgio Bassani hanno subito tutti e due le conseguenze della legislazione razziale a partire dal 1938 <2, e hanno entrambi meditato sulla condizione ebraica nel loro tempo, ma con sensibilità molto diverse, che si riflettono nelle loro opere <3. La somiglianza delle situazioni che hanno affrontato dà un rilievo speciale alle loro diverse reazioni e rende il loro confronto particolarmente istruttivo.
Il filo conduttore per questo paragone mi sarà fornito dal “Sistema periodico” di Primo Levi (1975), narrazione autobiografica che, nonostante numerose ellissi, ripercorre la vita di Levi in ordine cronologico, a cominciare da un primo capitolo, “Argon”, che è dedicato ai suoi antenati.
In varie sezioni del libro Levi esamina la propria condizione di ebreo discriminato dalle leggi razziali, tra il 1938 e il suo internamento nel campo di Fossoli, all’inizio del 1944, e la sua vita a Torino nei primi anni del dopoguerra – due periodi che sono anche al centro dell’opera narrativa di Giorgio Bassani.
Farò solo brevi riferimenti, nelle ultime pagine, all’esperienza più importante e più tragica di Primo Levi, quella di Auschwitz, e mi soffermerò invece più a lungo su vari passi di “Se non ora quando” (1982), romanzo storico in cui è raccontata la storia di un gruppo di partigiani ebrei nell’Europa orientale occupata dalla Germania nazista. Parlando di loro, Levi si confronta anche con la propria esperienza, corta ma drammatica, di partigiano in Italia alla fine del 1943. Le numerose discussioni fra i personaggi gli offrono l’occasione di esporre la propria visione dell’ebraismo e delle trasformazioni che le comunità ebraiche hanno subìto nel corso di un XX secolo durante il quale il processo di emancipazione è prima rallentato dal diffondersi della propaganda antisemita, e poi bruscamente interrotto dall’ascensione, in Germania, di Hitler.
La prima considerazione che mi sembra imporsi riguarda le metafore bibliche cui Levi ricorre in tutta la sua opera, sia come figure di stile, per dare rilievo drammatico alle storie da lui raccontate, sia come chiavi di lettura della realtà <4. La torre di Babele, il diluvio, la schiavitù e la fuga dall’Egitto servono a Levi da impalcatura narrativa e sono similitudini per gli eventi di cui è vittima e testimone, prese però soltanto in un’accezione privativa. La Bibbia ci racconta catastrofi cosmiche, che coinvolgono intere nazioni, ma ci mostra anche l’intervento nella storia del Dio d’Israele, che punisce i malvagi, raddrizza i torti e restituisce al popolo ebraico la sua dignità. Come raccontato in un capitolo del “Sistema periodico”, a partire dalla fine degli anni Trenta anche Primo Levi assiste a esodi e stragi atroci, da lui paragonate alle imprese crudeli di Assuero e Nabucodonosor, ma constata che più niente lascia sperare in un intervento divino. Osservando che nell’Europa occupata dagli eserciti tedeschi Dio non vuole o non può salvare il suo popolo, egli arriva alla conclusione «che non avevamo alleati su cui contare, né in terra né in cielo, che la forza di resistere avremmo dovuto trovarla in noi stessi» (Levi I, p. 783). In altre pagine, egli preferisce invece ricorrere al vecchio topos ebraico della disputa fra l’uomo e Dio, di cui già abbiamo esempi nei testi biblici e in quelli talmudici. Capovolgendo la teodicea, Levi si rivolge al Dio in cui non crede e gli rimprovera di avere abbandonato il suo popolo, di essere diventato complice dei suoi oppressori <5.
Quando ci volgiamo all’opera narrativa di Bassani, siamo invece colpiti dalla scarsità dei rimandi alla Bibbia. Certo, l’episodio celebre della cena pasquale nel “Giardino dei Finzi-Contini”, con un «vento d’uragano», che «viene dalla notte» e «soffia via» tutti gli invitati «come foglie leggere» <6, non può non far pensare alle persecuzioni del popolo ebraico nel corso dei secoli. Più ancora, un passo importante della “Passeggiata prima di cena”, su cui avremo occasione di ritornare fra poco, ci mostra le incisioni sbiadite che illustrano «i libretti di devozione» distribuiti dal vecchio Salomone Corcos durante le cene di Pasqua, incisioni in cui sono rappresentati i noti episodi dell’esodo, dalle piaghe d’Egitto allo svelarsi a Giosuè della Terra Promessa (Bassani, p. 80). Ma lo stile di Bassani, a differenza di quello di Levi, non è mai veramente epico. Nel “Giardino” l’episodio della cena di Pasqua ci descrive un evento rituale che ha perso da tempo la sua dimensione sacrale, e a cui lo sgomento suscitato dalle leggi razziali e dall’alleanza nazi-fascista fa subire un’ulteriore profanazione. In un primo tempo, infatti, quando il narratore-protagonista si trova ancora in famiglia, la scena s’impernia sulle deplorabili recriminazioni dei convitati, che non smettono di rimuginare tanto gli «affronti» subiti nel corso degli ultimi mesi, quanto le speranze che ancora nutrono di sfuggire egoisticamente alle leggi razziali grazie a «meriti patriottici» o «certificati d’anzianità». In un secondo tempo, quando il protagonista prosegue la serata in casa Finzi-Contini, assistiamo invece a una grottesca seduta spiritica, che sfocia nella profezia pseudo-biblica di una guerra lunga e dolorosa, cui seguirà «la vittoria completa delle forze del bene», beffardamente identificate con Stalin. Stalin nuovo Messia, la Russia sovietica nel ruolo di Terra Promessa!
Ma l’unico che ci creda, Giampi Malnate, è assente, e fra poco la guerra lo schiaccerà, proprio in Russia (Bassani, p. 480, p. 489).
C’è però un aspetto della tradizione ebraica che conta per Bassani, mentre non sembra avere la stessa importanza per Levi. Mi riferisco a certi riti religiosi: la benedizione sacerdotale (birkat cohanim), che diventa però un’occasione, per Micòl, Alberto e il piccolo narratore, di compiere gesti trasgressivi, ammiccamenti invitanti (Bassani, p. 348); la processione dei rotoli della legge; i riti di sepoltura. Così, per esempio, in “Altre notizie di Bruno Lattes” (che riprende il più antico “Muro di cinta”), ci è ricordato che la salma del nonno Benedetto è stata «avvolta in un lenzuolo di lino ricamato» e che in cimitero la cassa è stata riaperta per spargervi «calce viva», «in ossequio al rito ebraico più antico» <7.
La precisione di questi dettagli non ci sorprende. È noto l’interesse di Bassani per i cimiteri, ebraici e cristiani, spesso evocati, del resto, nella letteratura italiana dell’Ottocento e della prima metà del Novecento. Non meno nota è la minuziosa registrazione, in Bassani, dei segni, dei gesti e dei riti, privati o pubblici, attraverso i quali gli uomini danno forma alla propria esistenza nel mondo.
Secondo Levi, l’uomo è, o almeno dovrebbe essere, un animale razionale, che argomenta e discute, cerca la verità e il bene nel dialogo, nell’esperienza scientifica e nella riflessione critica. Ma per Bassani, la cui opera ha subìto l’influenza profonda di Flaubert, di Proust e di Thomas Mann, i gesti quotidiani degli uomini, i loro comportamenti rituali, le cerimonie a cui partecipano sono spesso più importanti delle loro opinioni e dei presunti argomenti con cui pretendono di giustificarle.
Un secondo punto, che emerge nelle prime pagine del “Sistema periodico”, merita di essere sottolineato, se si vuole comprendere appieno la posizione di Levi. Nonostante il suo dichiarato ateismo e le sue occasionali polemiche contro l’ortodossia religiosa, Levi sembra credere profondamente nell’unità della tradizione ebraica e nella coerenza del suo messaggio nel corso dei secoli, di quello religioso in particolare. Egli certo ammette che ci sia una discontinuità fra la lingua della Bibbia e le lingue parlate nella Diaspora, per esempio lo yiddish o il giudeo-piemontese, il dialetto che usavano nella vita quotidiana i suoi antenati. Le lingue diasporiche sono caratterizzate da un senso dell’humour, da un gusto per il riso e l’autoironia, da uno scetticismo pieno di saggezza e da una familiarità con il sacro che mancano alla lingua biblica, più solenne e ieratica <8. Ma nonostante questa importante differenza, Levi vede una coerenza e una continuità di fondo fra la Bibbia, che promulga una Legge austera ma giusta, e narra la lotta secolare del popolo ebraico contro la schiavitù e la tirannide, e la tradizione ebraica della Diaspora, caratterizzata dal gusto per le dispute intellettuali e per le sottigliezze talmudiche <9. Per Levi questa predilezione è l’espressione di una ricerca morale, di un’aspirazione alla verità e alla giustizia, e in tal modo egli ci suggerisce – non senza una certa forzatura – che lo spirito dell’ebraismo, oltre a essere costante nel corso dei secoli, non sia sostanzialmente diverso da quello dei Lumi e della democrazia, fondamenti della modernità <10. Colpiscono, in questa prospettiva, gli sforzi di Levi per cancellare o almeno sminuire l’importanza dei cambiamenti che, nel corso del XIX secolo, producono la transizione da una società ebraica tradizionale, ripiegata su se stessa e rinchiusa nei ghetti, a delle comunità ebraiche moderne che rapidamente si aprono alla società italiana, vi si integrano o vi si assimilano. Levi è ovviamente consapevole di queste trasformazioni e non può che rallegrarsi dell’uscita dai ghetti e dell’emancipazione ebraica nel XIX secolo, ma minimizza il suo impatto sulla coscienza ebraica e sulla sua sensibilità morale. Ciò emerge assai chiaramente in “Argon”, il primo capitolo del “Sistema periodico”, che Levi dedica ai propri antenati. Da un lato egli vi asserisce, attraverso diversi aneddoti, che perfino i suoi antenati più lontani nel tempo erano capaci di tradire le proprie origini ebraiche innamorandosi di una governante cattolica, o convertendosi al cristianesimo e diventando predicatori <11, e dall’altro constata la persistenza, anche fra i rappresentanti più recenti dell’ebraismo piemontese, di un certo spirito di rivolta e di libertà, ricordo di un passato di esclusione e persecuzione (Levi II, p. 1255). Levi, in altre parole, presenta i suoi antenati come dei sognatori stravaganti e bizzarri, e si vede bene che è fiero delle loro bizzarrie – reali o inventate <12 – perché in esse si riflette secondo lui l’anima ebraica più autentica. Nel “Romanzo di Ferrara” Bassani insiste invece costantemente sul gretto conformismo della borghesia ebraica ferrarese, succube dell’opinione pubblica, e acquiescente al potere.
In “Se non ora quando” Levi concentra la sua attenzione sugli ebrei dell’Europa centrale e orientale. Vi si mostra più attento alle trasformazioni prodotte dalla modernità e ai dilemmi etici che esse implicano. Ma nonostante i conflitti e le tensioni che in tal modo affiorano, le sue analisi lo portano in ultima analisi a ribadire l’idea di una fondamentale continuità col passato. L’ebreo del XX secolo partecipa ai movimenti emancipatori del suo tempo, scopre il socialismo, il sionismo, la lotta partigiana, ma rimane fedele agli imperativi etici che ha attinto dall’esperienza millenaria dell’esilio.

[NOTE]
1. Il nonno materno e il padre di Bassani sono medici, il padre di Levi ingegnere, ma le condizioni economiche delle due famiglie sono molto diverse: Enrico Bassani amministra le proprietà ereditate dal padre Davide, ricco commerciante di tessuti, e la sua famiglia non sembra aver patito troppo sul piano economico per le leggi razziali, almeno fino all’8 settembre. La famiglia di Levi viene invece a trovarsi in gravi difficoltà alla morte del nonno materno nel 1941, seguita l’anno successivo da quella del padre di Primo (cfr. Ian Thomps on, Primo Levi. A Life, New York, Metropolitan Books, 2002, pp. 104-109).
2. Le leggi razziali non impediscono a nessuno dei due di laurearsi (Bassani nel 1939, Levi nel 1941), ma Levi sarà costretto a lavorare nella semi-clandestinità o per aziende straniere fra il 1941 e il 1943, mentre Bassani, in quegli stessi anni, insegnerà italiano, storia e storia dell’arte agli adolescenti ebrei esclusi dalla scuola pubblica, nei locali dell’asilo israelitico di via Vignatagliata. Si veda, a questo proposito, la testimonianza preziosa di Paolo Ravenna, Bassani, insegnante negli anni Trenta, in Bassani e Ferrara, in Le intermittenze del cuore, a cura di Alessandra Chiappini e Gianni Venturi, Ferrara, Corbo, 1995, pp. 91-99. Arrestato per attività antifascista nel maggio 1943, Bassani fu liberato il 26 luglio dello stesso anno, e sfuggirà alla deportazione trasferendosi prima a Firenze e poi a Roma. Arrestato in Val d’Aosta in quanto partigiano il 13 dicembre 1943 Levi è invece deportato poco dopo a Auschwitz.
3. Sull’argomento vedi già Francesco Bausi, Giorgio Bassani e Primo Levi: due diversi approcci alla Shoah (e alla letteratura), SAMGHA, 4/7/2012 (https://samgha.me/2012/07/04/giorgio-bassani-e-primo-levi-due-diversi-approcci-alla-shoah-e-alla-letteratura/). Meno pertinenti per la mia ricerca che ho qui svolto i paragoni fra i due autori che si possono trovare in saggi di Nancy Harrowitz (1990) e Danielle Camilleri (1999).
4. Levi ricorre all’immagine biblica perfino quando parla della chimica, di cui per esempio scrive che era per lui «una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il suo avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge» (Primo Levi, Opere [infra Levi], Torino, Einaudi, 1997, vol. I, p. 758).
5. Un tipico esempio di questo atteggiamento è il capitolo dedicato a Giobbe nell’antologia La ricerca delle radici. Levi accusa in sostanza Dio di trattare Giobbe come un «animale da esperimento» e di schiacciarlo alla fine «sotto la sua onnipotenza » (Levi II, p. 1369).
6. Giorgio Bassani, Opere, Milano, Mondadori, coll. «I Meridiani», 1998 [infra Bassani], p. 480. La similitudine delle foglie è in realtà più classica che non biblica.
7. Bassani, p. 871. Il rito, poco noto, è tuttavia ricordato dal testo fondamentale della casuistica ebraica, ed era praticato a quanto pare a Ferrara o in altre comunità ebraiche dell’Italia settentrionale (cfr. Shulchan Arukh, Yorè Deà, § 363). Ringrazio Mila Sachs Rathaus e Ariel Rathaus per avermi fornito questa informazione.
8. Levi I, p. 746. Secondo Levi, in questo fatto linguistico si riflette un contrasto tipico dell’ebraismo diasporico, «teso fra la vocazione divina e la miseria quotidiana dell’esilio». Ne derivano una «saggezza» e un «riso» che invece mancano «nella Bibbia e nei Profeti».
9. Così per esempio scrive Levi, anche dei propri antenati piemontesi, che erano «portati alla speculazione interessata, al discorso arguto, alla discussione elegante, sofistica e gratuita» (Levi I, p. 741). Egli aggiunge che l’emancipazione non colse gli ebrei piemontesi impreparati perché erano abituati, nei ghetti, a considerare «la cultura, religiosa e laica, come un dovere, un diritto, una necessità e una gioia della vita» (Levi II, p. 1252).
10. Nell’appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo, Levi osserva per esempio che Hitler odiava gli ebrei in quanto «eredi di una cultura in cui si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato inchinarsi agli idoli» (Levi I, p. 194). Si tratta di un’idea che in forme diverse ricorre spesso nella sua opera, come avremo ancora modo di vedere.
11. Levi ci racconta per esempio che lo zio Bonaparte (il cui nome era già un ricordo della prima emancipazione ebraica, elargita da Napoleone) «era decaduto dalla sua qualità di zio perché il Signore, benedetto sia Egli, gli aveva donato una moglie così insopportabile che lui si era battezzato, fatto frate, e partito missionario in Cina, per essere il più possibile lontano da lei» (Levi I, pp. 743-744). In modo simile Barbabramìn di Chieri si era innamorato della domestica cattolica e siccome i genitori gli avevano vietato di sposarla, si era messo a letto per ventidue anni. Non meno bizzarro il padre di Levi, con le tasche gonfie di libri, e che compra di nascosto il prosciutto e ne verifica il conto «con il regolo logaritmico» (ivi, pp. 753, 755-756).
12. Come giustamente osservato da Alberto Cavaglion, Argon non è un documento attendibile della preistoria di Levi. I ritratti di antenati che propone lo scrittore non sono il frutto di una ricostruzione storica minuziosa; ci mostrano personaggi picareschi, fantasiosi, che derivano in gran parte da modelli letterari come le Scorciatoie e i Ricordi-Racconti di Saba, o da un Ariosto riletto attraverso Calvino (Alberto Cavaglion, Notizie su Argon, Torino, Instar Libri, 2006, pp. 1-17).
Enzo Neppi, Sguardi incrociati sulla condizione ebraica in Italia nel XX secolo: le testimonianze di Primo Levi e di Giorgio Bassani, Sarah Amrani, Maria Pia De Paulis-Dalembert (dir.), Bassani nel suo secolo, Giorgio Pozzi editore, pp. 325-346, 2017. ￿hal-02898125￿