Cesarini, hai finito di deportare i lavoratori della Caproni

Veduta panoramica delle officine Caproni di Taliedo, Milano 1920 ca (Archivio famiglia Caproni – Roma) – Fonte: Wikipedia

[…] Benché a partire dal 1938 si fosse manifestato un notevole rallentamento dello sviluppo tecnico nel settore aeronautico, dovuto probabilmente ai limiti imposti dalla politica autarchica del fascismo, […] lavorare alla Caproni significava sicurezza di un lavoro […] La Caproni era simbolo di prestigio, nonostante un declino che nessuno immaginava imminente. Lavorare alla Caproni, come in altri stabilimenti del tempo definiti “di interesse nazionale” permetteva all’operaio di sfuggire alla incerta sorte dei più. Le maestranze erano il fior fiore della gioventù operaia italiana. Perfino il regime doveva chiudere un occhio su certe insofferenze perché aveva bisogno degli operai della Caproni per la sua produzione[…]. [ Pesce G. 2005].
Nonostante gli indubbi vantaggi, l’atmosfera alla Caproni era pesante e vi vigeva in vero e proprio stato di polizia:
[…] Diversi gerarchi fascisti occupavano posti di rilievo nella struttura della direzione aziendale: massima autorità politica, oltre che delegato sindacale, il maggiore dell’esercito della RSI Stefano Guaraldi, membro della IIa Sezione Fabbriguerra dello stabilimento; Cesare Cesarini, responsabile dell’ufficio personale, tenente colonnello dell’Aeronautica Repubblicana e tenente onorario della “Muti”; Paolo Danese, capo dell’ufficio disciplina, confidente dell’OVRA e comandante del presidio della GNR nello stabilimento dal dicembre del 1943. Spie dell’OVRA erano presenti in ogni reparto, e il maggiore di disciplina Stefano Guaraldi poteva contare su zelanti confidenti come Ernesto Cipolla, Cologni, De Scipio, Marazzini, Primiero Lamperti e l’ing. De Bellis, [De Biaggi C. 29.10.2015].
Dal gennaio del 1940 Cesare Cesarini spadroneggiava in fabbrica come responsabile dell’ufficio del personale.
All’interno della Caproni gli operai si stavano organizzando, ma il clima instaurato dai fascisti della Muti (corpo militare della Repubblica Sociale Italiana con compiti di polizia politica e militare) agli ordini di Cesare Cesarini, era insostenibile.
Cesare Cesarini era tenente colonnello onorario della Muti e negli anni fu responsabile della schedatura di molti antifascisti e della deportazione di numerosi dipendenti dello stabilimento verso i campi di concentramento di Mauthausen e dei relativi sottocampi riservati ai detenuti politici.
Cesarini fu infine eliminato da Giovanni Pesce, nome di battaglia Visone, che la mattina del 16 marzo 1945, in via Mugello angolo corso XXII Marzo, affrontò lui e le due guardie del corpo armate di mitra. [Giannantoni F., Paolucci I. 2005].
Con due pistole Pesce uccise Cesarini e ferì le due guardie. Poi gridò frasi di rivolta ai milanesi presenti in centro città che applaudirono l’azione [Pesce G., 2005] e si allontanò in bicicletta mettendosi in salvo.
Questa azione fu riportata da Camus come racconto illustrato intitolato “Giustizia! nella seconda di copertina del suo fumetto n. 4 di “PAM il Partigiano” (1946).
[…] Alla Caproni ritorna il colonnello Cesarini bestia inferocita, l’immagine della prepotenza e del terrore. Ostenta la violenza e il cinismo. Assiste agli arresti; firma personalmente ogni atto di repressione. È insolente, ottuso, sanguinario. L’uomo che prima della guerra in fabbrica era incaricato della disciplina aziendale, ora è l’incarnazione della vendetta e della rappresaglia; l’immagine stessa del fascismo repubblichino. Ordina la schedatura degli antifascisti che si sono distinti nel periodo badogliano. Molti fanno già parte dell’organizzazione clandestina che ha già cominciato ad operare in fabbrica. Ha inizio il confronto senza quartiere tra i repubblichini della brigata nera che presidia gli stabilimenti e sorveglia gli uomini, li spia e li arresta e gli uomini dell’organizzazione clandestina che preparano le azioni di sabotaggio, che reclutano i combattenti per le formazioni di montagna e si sforzano di neutralizzare delatori e aguzzini. L’ingegnere Giovanni Cervi, dirigente di Giustizia e Libertà portato a San Vittore, viene fucilato all’Arena, in una mattina nebbiosa dell’ottobre del ’43. (in realtà Cervi fu arrestato nell’ottobre ma fucilato il 19 dicembre 1943 per rappresaglia a seguito dell’uccisione da parte dei GAP del federale Resega avvenuta il 18 dicembre 1943 [De Biaggi C. 23.10.2017]). È la prima vittima del colonnello Cesarini. L’assassinio alimenta un’atmosfera di odio; la presenza del gerarca e una provocazione continua sia quando, in ufficio, interroga gli operai, sia quando passeggia di reparto in reparto, seguito dai pretoriani. Gli operai proclamano lo sciopero: ben quattromila si assentano dal lavoro. [Pesce G. 2005].
Alla Caproni Giovanni Camusso conobbe molto bene anche Paolo Danese che raffigurò in una caricatura.
La figura del personaggio fascista che indossa una casacca con il teschio e le due tibie incrociate altri non è che Paolo Danese, capo delle guardie delle “Officine Caproni” e confidente dell’OVRA la Polizia Segreta dell’Italia fascista dal 1930 al 1943 e della Repubblica Sociale Italiana dal 1943 al 1945.
Danese è ricordato anche nella pubblicazione di Claudio De Biaggi “Il ragazzo dalla sciarpa rossa” storia di Giuseppe De Zorzi Naco entrato alla Caproni come apprendista in falegnameria che racconta: … ai primi di marzo del 1943… casualmente indossavo una sciarpa rossa…Dopo pochi passi sentii la voce di Paolo Danese, capo dell’ufficio disciplina della Caproni, che mi ordinò di fermarmi e, senza alcuna spiegazione, mi prese ripetutamente a sberle. Voleva sapere dov’era il covo dei comunisti, ed io gridai con quanto fiato avevo in gola che non ne sapevo nulla”. [De Biaggi C. n.d.]
Per Danese una sciarpa rossa era motivo più che sufficiente per essere qualificati comunisti, specie dopo gli scioperi che caratterizzarono la primavera del 1943.
Danese venne fucilato il 30 aprile 1945 da un plotone di esecuzione composto dai partigiani della 196° Brigata SAP, costituitasi presso la Caproni nei giorni dell’insurrezione.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno del 1940, la Caproni divenne un’industria protetta ed iniziò la produzione per i tedeschi. Era sicuramente un’azienda di importanza strategica tanto che la RAF, nella notte tra il 16 e il 17 giugno 1940, organizzò un’incursione aerea su Milano durante la quale furono sganciati dei bengala nelle zone attigue alla fabbrica seguiti da 25 bombe che sbagliarono l’obiettivo. La Caproni subì nel tempo vari bombardamenti, i peggiori si ebbero nella notte tra il 14 e il 15 febbraio 1943 quando furono distrutti due capannoni e mezzo ed il 28 marzo 1944 quando alcune bombe dirompenti caddero sull’aeroporto Forlanini e su alcuni capannoni della Caproni, con gravi danni per quattro aerei [De Biaggi C. 23.10.2017].
La situazione in fabbrica era sempre più difficile. Dall’agosto del 1943, dopo l’arresto di Mussolini, in previsione dell’uscita dell’Italia dalla guerra e della smobilitazione dell’industria bellica, una massiccia ondata di licenziamenti colpì numerose fabbriche: alla Caproni su 6.000 dipendenti ci furono 2.000 licenziamenti.
[…] La personalità, l’integrità morale di Giovanni Camusso possono essere desunte dalla lettera che egli scrisse al padre a fine aprile 1945, in cui tra l’altro dichiara che il proprio licenziamento dalla Caproni è intervenuto dopo l’8 settembre per evidenti motivi di rappresaglia.
[…]Ora sto facendo un esposto al Comitato d’Agitazione Operaia della Caproni, trovandomi io nel caso d’un danneggiato politico essendo stato licenziato dopo l’8 settembre, in seguito a rappresaglia di 4 (?) fascisti che avevo denunciato alla Commissione di Fabbrica d’allora. Se il mio ricorso avrà buon esito, la Ditta mi deve pagare lo stipendio da allora fino ad oggi, che sarebbero 18 mesi a L. 2000, come minimo farebbero 36.000 lire. Ma credo sarà difficile ottenere qualcosa perché pretendono che dimostri d’aver aiutato il movimento insurrezionale. E sì che in casa mia fino a 8 giorni fa c’era nascosto proprio uno del Comitato, ricercato dalla Brigata Nera[…] [Camusso G. lettera 1945].
Giovanni Camusso e la Caproni in Nino Camus

[ Nella bibliografia qui sopra citata: “Senza tregua – La guerra dei G.A.P.” di Giovanni Pesce – Edizioni Feltrinelli – Milano 1967; Claudio De Biaggi, La Caproni di Taliedo. Storie di operai 1915-1950, Quattro, 2018 ]

Giovanni Camusso, Caricatura di Paolo Danese [o Danesi?], Collezione Camusso – Fonte: Nino Camus

Da Senza tregua di Giovanni Pesce [Editore Feltrinelli, 1973]
Negli anni prima della guerra lavorare alla Caproni, in tuta bianca, significava sfuggire all’Etiopia e dal 1937 in poi alla Spagna quando, invece di sbarcare a Massaua, gli emigranti scendevano a terra a Tangeri, prima di ripartire per il fronte iberico. Lavorare alla Caproni significava sicurezza di un lavoro: idrovolanti, bimotori, aerei da primato, una produzione moderna, un clima artigianale. La Caproni era simbolo di prestigio, nonostante un declino che nessuno immaginava imminente.
Lavorare alla Caproni, come in altri stabilimenti del tempo definiti “di interesse nazionale” permetteva all’operaio di sfuggire alla incerta sorte dei più. Le maestranze erano il fior fiore della gioventù operaia italiana. Perfino il regime doveva chiudere un occhio su certe insofferenze perché aveva bisogno degli operai della Caproni per la sua produzione. Se molti erano antifascisti, erano tuttavia capaci. Si lasciava perdere.
Con la guerra i tempi si fanno più duri. Cadono le bombe.
La disciplina si inasprisce. Il 25 luglio sembra che il calvario sia bruscamente interrotto. L’8 settembre, mentre i Savoia scappano a Pescara e i ricchi del Nord in Svizzera, gli operai occupano la fabbrica; si impadroniscono di duecento mitragliatrici e si preparano a resistere. Ma Milano capitola e gli operai della Caproni non possono far la guerra da soli. In fabbrica, lentamente riprende l’attività. Le duecento mitragliatrici scompaiono in luogo più sicuro. Prima in Via Manzoni, alla sede del comitato di Liberazione, e poi a Cernobbio dove servono ad armare uno dei primi reparti partigiani.
Alla Caproni ritorna il colonnello Cesarini, una specie di gigante, una bestia inferocita, l’immagine della prepotenza e del terrore. Ostenta la violenza e il cinismo. Assiste agli arresti; firma personalmente ogni atto di repressione. È insolente, ottuso, sanguinario. L’uomo che prima della guerra in fabbrica era incaricato della disciplina aziendale, ora è l’incarnazione della vendetta e della rappresaglia; l’immagine stessa del fascismo repubblichino.
Ordina la schedatura degli antifascisti che si sono distinti nel periodo badogliano. Molti fanno già parte dell’organizzazione clandestina che ha già cominciato ad operare in fabbrica. Ha inizio il confronto senza quartiere tra i repubblichini della brigata nera che presidia gli stabilimenti e sorveglia gli uomini, li spia e li arresta e gli uomini dell’organizzazione clandestina che preparano le azioni di sabotaggio, che reclutano i combattenti per le formazioni di montagna e si sforzano di neutralizzare delatori e aguzzini.
L’ingegnere Giovanni Cervi, dirigente di Giustizia e Libertà portato a San Vittore, viene fucilato all’Arena, in una mattina nebbiosa dell’ottobre del ‘43. È la prima vittima del colonnello Cesarini.
L’assassinio alimenta un’atmosfera di odio; la presenza del gerarca e una provocazione continua sia quando, in ufficio, interroga gli operai, sia quando passeggia di reparto in reparto, seguito dai pretoriani. Gli operai proclamano lo sciopero: ben quattromila si assentano dal lavoro.
Le rappresaglie creano vuoti in ogni reparto. Se il compagno di lavoro non si fa vedere per un giorno o due non vi e dubbio che sia in prigione. Dalla prigione molti partiranno per la Germania; altri moriranno su qualche piazza o a qualche angolo di via, impiccati. Lo si saprà scorrendo i giornali o leggendo i nomi dei “banditi” fucilati. Nel frattempo bisogna stare in guardia: attorno al posto dell’assente si aggira uno sgherro della Muti o una faccia sospetta di spia; bisogna evitare di chiedere notizie del compagno per non subire la stessa sorte.
Contro i 30 della Muti agli ordini di Cesarini gli operai resistono ma non cedono. Dopo lo sciopero dell’ottobre, altri si succedono in novembre e in dicembre: le rivendicazioni aziendali mascherano i motivi politici. L’organizzazione clandestina comincia anch’essa a vibrare i suoi colpi. A novembre uno dei trenta repubblichini della Caproni, uno dei più feroci, mentre passa in via Aselli, viene abbattuto da alcuni colpi di pistola. E’ stato uno dei gappisti della Caproni. Ha vendicato l’ingegnere Cervi e gli operai deportati e imprigionati.
Furore alla Caproni: centinaia di operai vengono deportati. Molti lasciano la fabbrica, se ne vanno in montagna, coi partigiani. La 196ª brigata Garibaldi costituita all’interno della Caproni fa saltare la cabina elettrica, sabota gli aeroplani e costruisce sotto lo sguardo dei repubblichini, i micidiali chiodi a tre punte che bloccheranno le auto nazifasciste.
Arresti, deportazioni e l’allontanamento dalla fabbrica di molti dirigenti della lotta clandestina, non impediscono la massiccia partecipazione agli scioperi del marzo 1944. La situazione si aggrava. Non si tratta piú di arresti isolati ma di decimazioni in massa. Il problema numero uno del movimento clandestino della città è quello di eliminare Cesarini. L’uomo è riuscito ad imporre il terrore ed è quasi impossibile mobilitare le energie ancora vive perché la sorveglianza e incessante e la rappresaglia durissima. La lotta continua, ma in condizioni estremamente ardue.
Cesarini è all’apice della sua potenza. È voce autorevole della federazione repubblichina, è il “padrone” della Caproni, dispone come vuole dei suoi uomini, una pattuglia dei quali lo segue sempre, in fabbrica come a casa, ovunque si sposti. Gli ultimi mesi del 1944 e i primi del ’45 sono penosi per tutti. Il freddo entra nelle case prive di riscaldamento; la fame incombe; i lugubri manifesti delle condanne capitali tappezzano i muri; i plotoni di esecuzione della Muti, delle SS, dell’Aeronautica repubblichina si alternano al Campo Giuriati. Basta un sospetto per cadere nelle mani degli oppressori. Il nemico avverte che l’ora del tramonto si avvicina. Da ogni finestra può partire un colpo di fucile, dalla mano di un “gappista” che attende ad un angolo di via può giungere la morte. La paura aumenta la ferocia. Dai lampioni pendono i corpi dei patrioti impiccati; i rastrellamenti diventano più spietati; alla Caproni Cesarini infuria.
Per il solito canale nascosto, mi avvertono che un compagno del Comando regionale lombardo mi attenderà nel pomeriggio di domenica in un bar. Il proprietario è un militante insospettato. Ci troveremo nel suo locale per fumare una sigaretta e giocare una partita a carte. Tutto normale, ma proprio mentre attendo la domenica apprendo dalle cronache dei giornali che sono stati arrestati alcuni garibaldini. Non si fanno nomi. La polizia repubblichina è vigile e prudente. Quale anello della nostra catena è stato rotto? Tuttavia ho l’impressione che la notizia nasconda qualcosa di strano. Si accenna ad un attentato criminale sventato dalle forze di sicurezza della repubblica di Salò; l’operazione si sarebbe conclusa con alcuni arresti. Non si fa neppure cenno della località e si parla solo genericamente di Milano città.
Abitualmente, quando notizie di questo genere vengono pubblicate, si concludono immediatamente con l’annuncio di una o più esecuzioni capitali. Stavolta non se ne accenna neppure. Sembra una notizia trabocchetto. La prudenza mi impone di controllare per prima cosa l’invito a incontrare un compagno del Comando: tutto e regolare. Non e possibile che vi siano state infiltrazioni spionistiche. Il mio controllo e minuzioso. Risalgo a ritroso lungo il collegamento che ha permesso ad Alberganti di avvertirmi. Tutto è regolare; ma alla domenica, prima di entrare nel bar, controllo anche più accuratamente del solito i dintorni. Almeno in apparenza non c’è ombra di poliziotti o di repubblichini in borghese.
Dentro, nei due locali, l’atmosfera è tranquilla. Gente che gioca una partita a biliardo con l’impegno e l’abbandono dei giorni di pace, chi beve il surrogato di caffè o un bicchiere di vino. L’odore delle sigarette è pestilenziale. Un tipo anziano, in un angolo, le confeziona per tutti gli avventori del locale con foglie di platano conservate chissà come, forse dall’inverno precedente. L’atmosfera è irrespirabile. Vicino al telefono, davanti a un bicchiere di birra, sta Alberganti, una vecchia conoscenza del confino di Ventotene. Siamo due vecchi del mestiere e non ci perdiamo in convenevoli. Siamo tutti e due abbastanza preoccupati. Alberganti perché sa quel che è accaduto e io perché lo ignoro. Gli arresti annunciati dal giornale non ci sono stati, ma un’azione importante è fallita e, quel che è peggio, gli esecutori hanno rinunciato al compito dopo aver messo a repentaglio le loro vite. I repubblichini li avevano individuati con le armi in pugno. Non ci sono stati arresti perché nessuno si è salvato, conclude Alberganti: “E’ la terza volta che il tentativo fallisce.”
In parole povere, il quarto tentativo di togliere dalla circolazione il boia della Caproni tocca a me. Naturalmente il Comando mi lascia libero di decidere e di accettare e una settimana per rifletterci. Tanto vale decidere subito ed eliminare il rischio di un altro incontro. Accetto. Alberganti mi batte la mano sulla spalla e se ne va. Indugio un po’ e sto per andarmene anche io, quando una voce mi richiama perentoriamente mentre sto per varcare la soglia. La mano mi corre alla tasca dove tengo la pistola; è il cameriere che reclama il conto di Alberganti che non è stato pagato. Mi vien da ridere. Rivedendolo dopo tanti anni mi ero ricordato solo del suo straordinario coraggio, non di queste sue piccole avarizie. Lascio una buona mancia.
Tra le tante azioni fatte questa è una delle peggiori. Meglio operare da solo. Mando a dire ai miei gappisti che ci sarà una breve pausa e che ne approfittino per leggere e studiare, come insegnava Gramsci. Chissà se lo faranno! D’altra parte non hanno molte altre distrazioni, visto che la regola della clandestinità esige che rimangano tappati in casa, in prigionia volontaria.
Anch’io sono chiuso in casa, davanti allo schizzo della zona in cui si dovrà concludere l’operazione Cesarini: Viale Mugello, angolo Corso XXII Marzo, di qua una salumeria, proprio di fronte alla fermata del tram e, dall’altra parte, un vecchio magazzino. In astratto lo schema dell’azione è facile; quando decido di verificarne la rispondenza coi luoghi mi rendo conto che la cosa non sta in piedi; la zona è completamente allo scoperto, sia Viale Mugello, sia piazza Grandi, formicolante di poliziotti; sia viale Campania larghissimo e diritto, ideale campo di tiro dei guardiani di Cesarini.
Trascorro una notte tutt’altro che tranquilla. La mattina dopo ritorno sul posto. Compro un etto di mortadella e un po’ di formaggio, poi sorseggio un caffè in un bar all’angolo con viale Campania. Mi sorprende d’essere più tranquillo. La zona è scopertissima ma il vecchio magazzeno abbandonato non potrebbe non favorire la fuga. Un’altra soluzione ancora mi viene suggerita da un operaio dell’acquedotto che sta scendendo in un tombino. Potrei tentare anch’io di sollevare il chiusino per cercare nel sottosuolo un’altra via di uscita. Accendo una sigaretta proprio accanto all’operaio. Mi chiede del fuoco. Getto il fiammifero spento, ne prendo un altro e con calma, gli accendo la sigaretta. Barattiamo quattro chiacchiere sul tempo e sul loro lavoro sotterraneo. Alle fine ne so abbastanza per potermi servire in caso di necessità della buca e orientarmi nel sottosuolo per alcune centinaia di metri prima di riemergere dal chiusino più discosto.
Il vecchio magazzeno abbandonato resta tuttavia quello che offre le migliori possibilità di salvezza: ha una porta secondaria su un’altra strada, grandi finestre facili da scavalcare, un cancello scorrevole sui cardini. Il magazzeno non ha custodi. Occorrono le chiavi per entrare, ma a questo provvederà un compagno fabbro.
Mi sveglio di notte. In strada c’è brusio di voci forse di militari. Scosto le imposte, sono soldati. Il risveglio riaccende in me preoccupazioni e tensione. Quante ore trascorrono? Dalle imposte filtra la luce dell’alba. Scatta qualcosa in me. Il volto di Cesarini, l’immagine della potenza e della viltà che entra in fabbrica e colpisce gli inermi. O forse il ricordo di una lontana alba in terra spagnola?
Alle sette del mattino, con le chiavi che tintinnano in tasca, e l’occhio attento sul quadrante dell’orologio, mi faccio accompagnare da un compagno in bicicletta in viale Mugello. Scendo, passeggio un po’ davanti alla salumeria, proprio a due passi dalla fermata del tram. Sono le 7,20 e mi scopro impaziente e tranquillo.
In strada c’è gente. Tra poco gli operai dovranno entrare al lavoro e i tram transitano sempre più affollati. Alla fermata attigua si affollano uomini e donne. Da piazza Grandi spunta Cesarini. L’ho visto poche volte ma so che è lui, il personaggio di sempre, il nemico da combattere ovunque, in Spagna, in Francia, in Italia, a Milano. Ha fatto deportare centinaia di operai e di tecnici, quasi tutti ad Auschwitz, ha fatto imprigionare e fucilare compagni e amici. Ora anche lui sta arrivando all’ultima fermata assieme ai due militi armati di mitra che lo scortano. Non ho bisogno di muovermi. È lui stesso che mi viene incontro col passo tracotante, di chi non vuole nessuno sul suo cammino. Ma sulla sua via ci sono io, il figlio dell’operaio piemontese fuggito in Francia per non subire la prepotenza dei Cesarini di ieri e di oggi. Gli sbarro la strada.
Gli spiano in faccia le due rivoltelle e la sua faccia rivela soltanto stupore. Non avrebbe mai creduto possibile che qualcuno osasse fermarlo. Gli grido forte, perché gli operai che sono attorno sentano: “Cesarini, hai finito di deportare i lavoratori della Caproni.” Sparo. Tenta di mettere mano alla fondina ma è già a terra assieme a uno dei suoi accompagnatori. L’altro cerca di togliersi di spalla il mitra, ma non fa in tempo. Le mie armi sono scariche. Grido: “Giustizia è fatta, insorgete contro il fascismo.” La gente che, al rumore degli spari, si è gettata a terra, si alza e applaude. Alcuni gridano: “Hanno ucciso Cesarini, evviva.”
È il momento di fuggire. La strada è libera. Non val la pena di addentrarsi nel vecchio magazzino. Balzo sulla bicicletta e pedalo rabbiosamente. Un capitano d’aviazione mi si para davanti brandendo una rivoltella; punto la mia scarica e l’eroe di Salò lascia cadere l’arma e fugge. Me ne vado senza altri incidenti.
Giustizia è fatta. Gli operai che prendono il tram diranno in fabbrica, di lì a poco, la grande notizia: il boia della Caproni, l’assassino di centinaia di operai, è stato giustiziato […]
Redazione, Aprile 1945: l’ingegnere della Caproni viene giustiziato, Operai Contro, 20 Aprile 2018

“Giustizia! ” L’uccisione di Cesarini in “Pam il Partigiano” n. 4, Collezione Luciano Niccolai – Fonte: Nino Camus

[…] Per la 3ª GAP l’uccisione di Curiel è un nuovo motivo per intensificare gli attacchi. I gappisti sono mobilitati 24 ore su 24. I fascisti e i tedeschi sentono ormai prossima la fine, sospettano di tutto e di tutti, rimangono chiusi nelle loro caserme. E quando ne escono, camminano in gruppo, guardinghi, armati fino ai denti. Ma ormai l’iniziativa è nostra. Sono del marzo 1945 l’esecuzione del colonnello Cesarini, il boia della Caproni, del sottufficiale rastrellatore della GNR Angelo Contini, del maresciallo della Wehrmacht che si distinse nelle repressioni nel quartiere Lambrate, del noto squadrista Romualdo Papa; l’esecuzione di alcuni ufficiali della “Resega”, comandanti di reparti che si distinsero negli ultimi feroci rastrellamenti contro le brigate partigiane di montagna. E ancora: l’attacco e la quasi eliminazione di una nota spia la cui attività era costata la vita a numerosi patrioti; l’azione contro un ritrovo fascista, in via Delfico; il recupero di armi in casa di un noto fascista, sulla strada di Novate Milanese; il disarmo di diversi fascisti della X Mas.
Le azioni incessanti dei gappisti agevolano le agitazioni degli operai. In questo clima, il 28 marzo, scendono in sciopero i lavoratori di oltre cento fabbriche milanesi. La parola d’ordine è “Basta con la guerra, via i tedeschi, morte ai fascisti”. […]
(Tratto dal libro di Giovanni Pesce «Senza tregua – La guerra dei Gap», Editore Feltrinelli, 1973)
Giovanni Pesce, Milano, cronaca di un gappista, Patria Indipendente, 24 aprile 2017