Chi voleva fare il delinquente in Veneto doveva avere il permesso di Felice Maniero

In un Veneto dal quale si scappava e “per quelli che decidevano di restare si presentavano due alternative: piantare fagioli o iniziare a rubare” (Fossati,2019:16), l’attività illegale, nel ventennio successivo alla Grande Guerra, ha costituito per molte piccole bande criminali un mezzo per sopravvivere. In un primo momento si trattava di piccoli delinquenti, ladruncoli per lo più in concorrenza fra di loro e ben lontani dal trasformarsi o unirsi in un’unica organizzazione criminale, diretta a controllare l’intero territorio. Alla fine degli anni ’50, la mafia siciliana inizia a imporsi nel mercato illegale del gioco d’azzardo, escludendo gli altri trafficanti e estendendo il potere e controllo sull’intero territorio. In quel periodo, diversi boss mafiosi, come Totuccio Contorno, Antonio Duca e Gaetano Fidanzati, vengono inviati in Veneto per scontare il periodo di libertà vigilata. Già presente nel territorio lombardo dal 1958, la mafia isolana, comincia a comprendere le potenzialità anche del Nord-est, dove a differenza del Sud, le aziende sono in attivo e gli stessi imprenditori, sono ben disposti a negoziare con il business criminale per fare del “nero”. E in tale contesto la criminalità organizzata cercherà spazio grazie ad una crescita economica che già nel corso degli anni ’60 e in particolare nel successivo decennio si fa, nelle province del Veneto e del Nord-est
di straordinaria intensità. Una crescita, a fronte di un consistente arretramento della grande industria, caratterizzata da alti tassi di natalità delle imprese, in specie di piccole e medie dimensione, da una variegata articolazione della produzione manifatturiera, da un forte radicamento territoriale, nonché da una gestione tendenzialmente informale dei rapporti di lavoro e delle relazioni istituzionali.
La presenza nel territorio, di alcuni mafiosi specializzati nel gioco d’azzardo e nel traffico di droga, costituisce un’occasione, per un giovane Felice Maniero e la sua banda la Mala del Brenta, intenzionati a uscire dall’anonimato. Dediti fino a quel momento, a sequestri e rapine ai danni di orafi vicentini, la presenza di Cosa Nostra costituisce una “scuola criminale” per un gruppo giovane e inesperto, ma intenzionato a guadagnarsi uno spazio nel controllo del territorio (ivi:29). Maniero comprende, che per imporsi nel territorio Veneto, è necessario ottenere il controllo sul racket dei cambisti: una banda organizzata che trattiene parte degli incassi dei giocatori d’azzardo. I patiti dell’azzardo, una volta esaurito il credito, pur di giocare, si rivolgono ai cambisti, “consegnando un assegno da dieci milioni e ricevendo un milione in contanti, nelle migliori delle ipotesi” (De Francisco, Dinello, 2020:30). Ecco perché, nel 1980, Maniero appoggiato da Cosa Nostra, costringe i cambisti a cedere il controllo delle bische, diventando così il nuovo boss della mala di tutto il Veneto.
Chi voleva fare il delinquente in Veneto doveva avere il permesso di Felice Maniero (Zornetta, Guerretta, 2006). Il gioco d’azzardo, è un business redditizio, e gli affari per la mala del Brenta continuano a crescere, grazie anche alle nuove attività, con camorra e ‘ndrangheta. Proprio l’alleanza con la camorra permetterà alla Mala del Brenta di intraprendere un’attività nuova e alternativa al gioco d’azzardo: lo spaccio di droga.
Alla fine degli anni’70, le organizzazioni criminali, comprendono l’importanza del nuovo business, ma la mala del Brenta è altresì consapevole, che per potere entrare nel traffico di stupefacenti, deve essere autorizzata dalla mafia. Tuttavia, la domanda di droga in Veneto è tale che la stessa mafia non riesce a garantire le dosi richieste dalla Mala del Brenta, che quindi può, con il consenso di Cosa Nostra, farsi inviare la droga dalla Camorra, e fare altresì affari diretti con la mafia turca (De Francisco, Dinello, Rossi, 2015). In quegli anni, in Veneto, oltre ai quantitativi che arrivano dai canali tradizionali, vengono inviati dalla Turchia quaranta kili di cocaina ogni due mesi. Ma a Maniero non basta essere entrato nelle grazie della mafia, è deciso a intraprendere una nuova strada ed agire senza più dipendere dalle organizzazioni criminali presenti nel territorio. Nel 1980, la mala del Brenta, grazie all’intermediazione di alcuni esponenti dell’Ndrangheta ottiene i primi contatti con i narcos colombiani di Pablo Escobar. La cocaina veniva direttamente importata in Italia dal Sudamerica, in cambio l’ndrangheta, che aveva favorito la Mala del Brenta, poteva aprire dei locali in Veneto. Grazie a questa nuova collaborazione “la stessa droga che arrivava in Veneto (…) era possibile trovarla dagli spacciatori al minuto del quartiere di Santo Domingo di Medellin” (Fossati, 2019:57). Non a caso nel 1983, il Veneto detiene il quarto posto tra le Regioni d’Italia, con 251 decessi causati dall’assunzione di droga (Dalla Valle, 2013). Nel 1985 Vicenza guadagna il triste primato di mortalità per Aids nel Veneto (ibidem). Ma sono soprattutto i comuni della provincia di Venezia, Dolo, Fiesso d’Artico, Stra e Mira, a registrare un numero di tossicodipendenti decisamente superiore rispetto alle zone limitrofe (Fossati, 2019:59).
Nel 1994 Maniero si costituisce alle forze dell’ordine. Con la fuoriuscita della Mala del Brenta, le mafie tradizionali hanno la possibilità di occupare il Nord-est. Accanto a Camorra, ‘Ndrangheta e Cosa Nostra appaiono nuove mafie: nigeriana, cinese e albanese. Ad eccezione del Lido di Jesolo, controllato dalla Camorra, il resto del Veneto, per quanto concerne le attività di spaccio, “non è più nelle mani esclusive della mafia italiana” che comprende che i veri soldi si fanno infiltrandosi nel tessuto economico del territorio (ivi:216). Aziende in difficoltà che non possono più accedere al credito delle banche ottengono dei prestiti dalla Camorra. Con il passare del tempo molti imprenditori non riescono più a pagare i debiti contratti con la mafia smettendo di pagare e finendo per cedere l’attività intestandola alla banda criminale. Non ci vuole molto per le mafie straniere capire che è possibile insediarsi e allearsi con le mafie autoctone del Veneto per il traffico di stupefacenti.
L’interesse delle mafie locali a indirizzare le proprie attività verso settori più remunerativi, rispetto al traffico di stupefacenti, permette alle bande di nigeriani di inserirsi nel mercato delle attività illegali. Più timidi al sud, dove la presenza delle mafie storiche, impedisce ai nuovi arrivati di insediarsi, se non autorizzati, e pagando in ogni caso una tangente, i nigeriani ritengono le città del nord ideali per iniziare (Fossati,2020). Scartata la Lombardia dove i calabresi hanno il monopolio del traffico di droga, si spostano in Veneto, regione dove “non c’è nessuno o se c’è qualcuno” con quest’ultimo è possibile accordarsi (ivi:217). Nasce così una sorte di alleanza tra mafie straniere e autoctone e tra bande di nigeriani, marocchini e albanesi. I primi gestiscono l’importazione di eroina dalla Turchia, i secondi hanno il monopolio dell’hashish e infine gli albanesi regolano l’ingresso della cocaina nel Nord-est. Così spiega Fossati (2020:217): “una sorta di “cartello” che comprende droga e prostituzione, parte da Bolzano e si estende in tutti i più grandi centri del Triveneto: Verona, Vicenza, Padova, Venezia/Mestre, Treviso, Udine e Trieste”.
Uno dei principali centri di spaccio del nord-est è Via Anelli a Padova (De Francisco, Dinello, 2020). Qui negli anni Settanta, era stato costruito il complesso Serenissima, costituito da 6 palazzine, composte da appartamenti di piccola metratura per soddisfare le esigenze soprattutto di studenti universitari, manager, imprenditori che si recavano in città per affari (Mantovan,2015). La situazione cambia intorno agli anni ’90, quando i proprietari degli immobili iniziano ad affittare, in nero o attraverso prestanome, a soggetti senza permesso di soggiorno e quindi disposti a pagare prezzi più alti di quelli pagati dagli studenti, a convivere in 6-7 persone in locali destinati al massimo a 2-3, e a non lamentarsi per le mancate manutenzioni dell’immobile da parte del proprietario. Il complesso Serenissima rappresenta una zona appetibile per trafficare sostanze stupefacenti, nel completo silenzio e omertà di chi versa in situazione di irregolarità. Via Anelli, per la sua posizione strategica, accanto alla stazione ferroviaria e vicina allo svincolo della Stanga che si collega all’autostrada, diventa terreno di scontro tra i due principali clan nigeriani, Ascia nera e i Supreme Eye per il controllo dello spaccio nel territorio. Nel 2006, dopo la vittoria dei Supreme Eye, la confraternita inizia a espandersi in tutto il Veneto proprio da Via Anelli (De Francisco, Dinello,2020:120).
A Vicenza, secondo gli operatori di strada, a fine anni ’90 inizio 2000, nonostante la presenza di alcuni nordafricani sul territorio, l’attività di spaccio è ancora controllata e gestita dai gruppi locali autoctoni. Così spiega un’operatrice: “per quanto concerne (n.d.a) lo spaccio non c’erano gli extracomunitari ingaggiati dalle mafie che li piazzano lì, erano veri e propri spacciatori che passavano all’ora prestabilita nel parco e tutti i tossicodipendenti andavano a prendersi la dose, si infrattavano, si facevano e funzionava così”.
L’intervistata spiega altresì che l’attività di spaccio avviene attraverso l’uso di un automezzo. Gli spacciatori, in auto, arrivano nel luogo d’incontro prestabilito, si fermano senza mai scendere dal veicolo, per il tempo necessario a consegnare la droga e ritirare il denaro, per poi ripartire non sostando nel luogo di incontro più del dovuto. La gestione dell’attività di spaccio è molto diversa, da quella che si verrà a formare in pochi anni, quando la piazza di spaccio, anche a Vicenza, verrà controllata dalla mafia nigeriana. Così spiega un cittadino: “una volta non c’erano i nigeriani, ora non so dirle chi c’era, ma sicuramente, credo io, erano locali. Se lei mi avesse chiesto 40 anni fa: «quando usciva con i suoi figli chi erano i pusher?» Non lo so, ma sicuramente italiani. Probabilmente, si è creato questo giro di nigeriani. Poi secondo me la domanda da porsi è: «da quanto tempo ci sono questi nigeriani?». Io faccio fatica a pensare a 10 anni fa, a queste problematiche, cioè c’era lo spaccio ma in misura sicuramente minore. Quindi negli ultimi anni è aumentata la quantità di questi personaggi (si riferisce agli spacciatori) ed è aumentata la quantità di persone che vengono a cercare il prodotto”.
Nei primi anni 2000 e fino al 2010, Vicenza pur avendo un florido mercato di spaccio e un bacino di utenti non irrilevante (Dalla valle, 2010) non pare essere considerata dai cittadini una città insicura. La presenza invisibile sul territorio degli spacciatori, e il fatto che molti vicentini si rechino nella città patavina per rifornirsi e comprare la dose, potrebbe spiegare la tolleranza o la non preoccupazione dei cittadini verso il fenomeno spaccio. La stessa amministrazione comunale, non si interessa del problema droga, se non verso il 2008, quando nell’agenda politica si inizierà a parlare di microcriminalità come “un problema da risolvere” (Selmo,2017/2018:60). Proprio la capacità della vicina città di Padova, di rispondere in maniera soddisfacente e puntuale, alle esigenze dei consumatori, porterà la stessa Unità di Strada Verde, attiva dal 1998, a interrompere le uscite nel 2005 non trovando quasi più nessun tossicodipendente nelle strade di Vicenza. Così un’operatrice: “poi c’è stato un cambiamento, nel senso che i ragazzi sono spariti da Parco Querini e quindi abbiamo dovuto rifare una mappatura dei luoghi di spaccio e di consumo (…) Abbiamo cominciato a girare la città a chiedere alle persone ecc. dove si potevano trovare i ragazzi. Effettivamente era cambiato il sistema di spaccio. Nel senso che non c’era più Parco Querini come unico luogo di spaccio, ma bensì c’erano varie zone della città dove le persone o meglio gli spacciatori si trovavano e le persone andavano a raccolta, in tali luoghi. Quindi abbiamo usato il camper per spostarci. Abbiamo così individuato come luoghi di spaccio (n.d.a): il centro storico, Parco Querini però la parte esterna del parco quindi zona ospedale, scalette di Monte Berico Piazza Matteotti. Ma il numero di persone era più basso, era diminuito. Da quello che abbiamo sentito dai ragazzi, era entrato in uso il cellulare, e quindi la consegna della droga a domicilio. Quindi le persone non si ammassavano più, erano meno visibili. Sembrava che non ci fosse più nulla in giro per le strade. In realtà, era cambiato il sistema di spaccio e di uso. In questo modo la piazza di Vicenza è andata in crollo e i ragazzi si sono spostati tutti a Padova. Per cui, al di là della fine dei fondi, non aveva più senso proseguire nel progetto, perché non c’era più bisogno. Non era più utile stare in strada, perché non c’era più nessuno”. L’estratto di intervista si sofferma su due questioni centrali per il lavoro di ricerca: chiarisce dove lo spaccio è concentrato in città e come è cambiato il fenomeno nel corso del tempo. Tra il 1998 e il 2005, il fulcro dello spaccio a Vicenza si trova in centro storico nel parco pubblico Querini. Il parco sorge a nord-est di Vicenza, tra il fiume Bacchiglione e il suo affluente Astichello, adiacente all’Ospedale San Bortolo in centro storico. Accessibile da quattro ingressi, questa oasi verde è nota ai cittadini non solo per le statue e il tempietto neoclassico che si trovano all’interno, ma bensì per lo spaccio e il consumo di droga.
La concentrazione dello spaccio in uno spazio preciso della città facilita l’attività degli operatori che sanno dove potere incontrare i ragazzi e lavorare con loro. In tal senso lo spostamento dello spaccio in varie parti della città, obbliga gli operatori a muoversi nel territorio, nel tentativo di trovare i nuovi luoghi di consumo di droga. Non solo gli operatori gradiscono la concentrazione dello spaccio in un unico punto, ma anche le forze dell’ordine, sia pure per motivi diversi. In tal senso alla domanda «e con la polizia come funzionava?» così risponde un operatore: “noi eravamo da accordo, con le forze dell’ordine. Avevamo fatto degli incontri in prefettura, quindi sapevano della nostra esistenza come operatori e educatori e sapevano cosa facevamo (n.d.a). Poi nella realtà, quando venivano a fare i controlli, ci controllavano tutti e tutti cadevano dal pero e dicevano “no, a noi nessuno ci ha detto niente”. E a livello di spostamenti, la polizia riesce a incidere sullo spostamento dell’uso e dello spaccio? Allora io mi ricordo benissimo un incontro in sede dei carabinieri e polizia in cui loro molto chiaramente ci hanno detto: va bene così; finché sono tutti a parco Querini noi sappiamo che sono lì, entriamo con la macchina ed è più controllabile il fenomeno, piuttosto che sparso in città. Per cui era anche una strategia politica. Per quanto parco Querini rappresentava ciò che oggi è Campo Marzo per la città, nessuno ci entrava, nel senso che era diventato il luogo dei tossici. Una parte della città vietata ai cittadini. Poi c’è stata tutta la ristrutturazione di parco Querini per cui i ragazzi sono andati via si sono spostati altrove. Quindi zona off limits ma almeno sono tutti lì (n.d.a). Certo, era comodo per loro (si riferisce alla polizia)”.
L’estratto di intervista sovrapponendo la questione della concentrazione dello spaccio al problema sicurezza conferma l’idea condivisa in letteratura (Foucault,2014; Indovina,2000; Pisanello,2017) secondo la quale riunire la popolazione sgradita in un unico spazio sia un’azione logica, razionale e di controllo, una sorte di “strategia politica” come dichiara l’intervistata.
Linda Danieli, Apprendere l’insicurezza. Il Caso di Campo Marzio: un’indagine sull’interazione fra attori, Tesi di dottorato, Università IUAV – Venezia, 2023

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