Ci misero nella caserma vicino alla Rocca

Il torrente Lavino nei pressi di Anzola (BO) – Fonte: Wikipedia

[…] Sull’attività del gruppo partigiano di Borgata Città dopo il rastrellamento del 6 aprile 1944 riportiamo una pagina della testimonianza resa nel 1983 da Carlo Franchini, cl. 1919.
Dopo la partenza del nostro primo comandante Ettore Guazzaloca a seguito del rastrellamento
del 6 aprile, i partigiani della Città dopo alcune riunioni decisero di passare alla VII Brigata G.A.P. che operava nell’Anzolese.
Io invece ero rimasto in Borgata e comandavo la S.A.P. «Ivan» che agiva nella nostra zona.
Il 6 ottobre 1944 io, Serra Nello e Fantuzzi Renato, unitamente alla S.A.P. comandata da Turrini, andammo ad Anzola per scaricare delle armi da un treno tedesco fermo sui binari in attesa della partenza. Prendemmo dieci mitra, trenta fucili e bombe a mano che provvidi a nascondere subito nel mio fienile; il giorno dopo le distribuimmo a quelli della Città e a partigiani di altre zone.
In quel periodo si tenevano molte riunioni, almeno una decina in casa di Alfonso Bizzarri presso l’impresa Mangelli e in casa Alvisi (padre e figlio morirono poi a Mauthausen) situata subito oltre il Samoggia in territorio di Anzola (frazione Immodena). In queste riunioni erano presenti «Toni» (Antonio Marzocchi), comandante delle S.A.P., e Raffaele Buldini.
Fra le attività varie di disturbo contro i tedeschi ricordo il taglio dei fili telefonici: per evitare che i tedeschi potessero riannodarli, ne tagliavamo dei lunghi pezzi (erano di rame) e li affondavamo nel macero dei Nadalini; invece per il cavo telefonico diretto Roma-Berlino, che passava interrato lungo la via di Mezzo, si procedeva al taglio con una trivella in punti distanti dai tombini di controllo per rendere più difficoltosa la ricerca del guasto.
Il 3 [5] dicembre 1944 fui fermato e non riconosciuto durante il rastrellamento di Anzola.
Ricordo uno dei sistemi che i tedeschi usarono per individuare i partigiani fra gli uomini rastrellati: guardavano sotto le camicie o i giubbotti e per quelli che indossavano una maglietta identica a quelle che i «ribelli» avevano asportato durante un assalto a un maglificio, quella era la prova di appartenenza alle forze della resistenza e quindi era l’arresto.
Io, che indossavo una di quelle magliette, feci in tempo a stracciarla e farla scendere dentro le mutande, così i tedeschi non la videro e, non avendo altre prove contro di me, mi lasciarono libero. Tornai così a casa a rassicurare quelli della Borgata che potevamo agire liberi in quanto non eravamo conosciuti. Infatti noi della squadra S.A.P. si lavorava al mattino con i tedeschi (postazioni verso Anzola con la Todt) e alla notte si agiva contro di loro.
UN’AZIONE INTIMIDATORIA DI ODDONE BAIESI
Oddone Baiesi di Anzola, cl. 1923, militava nel Battaglione Tarzan della VII Brigata GAP «Gianni» Garibaldi; quasi ogni giorno partecipava ad azioni di sabotaggio o di combattimento.
Durante l’estate 1944, venuto a conoscenza che alle Budrie famiglie simpatizzanti dei repubblichini intralciavano l’azione partigiana, insieme con altri compagni si travestì da fascista e affrontò quelle famiglie facendo comprendere che dovevano modificare il loro comportamento: la missione intimidatoria ottenne l’effetto desiderato.
Oddone cadde poi nella battaglia di Porta Lame il 7 novembre 1944. (Da una testimonianza anonima)
LA CORSA DI «FUNSÒN»
Sono centinaia le missioni compiute dai partigiani persicetani o individualmente o in gruppo, alcune senza grave pericolo, la maggior parte con rischi più o meno elevati; non tutte conseguono l’effetto programmato o sperato; in tutte possono intervenire elementi imprevisti che determinano il fallimento dell’azione o conseguenze ancora più dolorose.
Così capitò, per esempio, nell’estate 1944, ad Alfonso Ziosi («Funsòn»), cl. 1920, abitante in Borgata Forcelli, n. 29.
Narra in breve l’episodio Alberto Cotti nel suo volume autobiografico Il partigiano D’Artagnan, S. Giovanni in Persicelo, 1994, 30-31.
Egli partì un mattino in missione, doveva andare a Cento, passando per Pieve. Arrivato sul ponte del fiume Reno si accorse che, dall’altra parte della strada, vi era un posto di blocco: retrocedere era ormai tardi; continuò, sperando di non essere fermato, poiché non tutti venivano arrestati ai vari posti di blocco, ma solo i sospetti.
Giunto al centro, gli intimarono l’alt. Fulmìneo estrasse la pistola e sparò, continuando a pedalare; ne nacque un conflitto a fuoco vero e proprio. Una pallottola lo colpì ad una gamba, non gravemente, per cui continuò a pedalare fino a giungere in Via Permuta, ove sapeva che risiedevano i suoi amici fidati: Serrazanetti Adelmo e i fratelli. Solo allora si fermò, ricevendo le prime cure, aveva una scarpa piena di sangue. Questa fu un’azione da gappista, anche se le circostanze non gliela fecero portare a termine.
Apprendiamo da Franco Cocchi che successivamente «Funsòn» si recò in Via Gornia, n. 22, in casa della levatrice Ida Morisi («l’Ida ed Spont»), trasformata in infermeria partigiana; Franco, il quale abitava nello stesso edificio (in cantina nascondeva le armi), corse in Via XX Settembre a chiamare il dott. Vincenzo Vecchi; dopo pochi minuti «Funsòn» fu medicato e potè tornare ai Forcelli a raccontare la sua avventura: missione fallita, ma finita bene.
«Funsòn» fu assistito dalla fortuna anche l’8 ottobre 1944 durante il rastrellamento nella zona tra S. Giacomo del Martignone e i Forcelli: coperto dai cespugli all’interno degli argini risalì il Lavino e non fu visto dai rastrellatori.
11 AGOSTO 1944: I REPUBBLICHINI CENTESI ALL’AMOLA
Sulla spedizione vandalica dei repubblichini centesi, accompagnati da un tedesco, effettuata l’11 agosto 1944 nella frazione di Amola e nel comune di Crevalcore ci informa Gildo Maccaferri, cl. 1925, fratello di Adelfo («Brunello»).
Riproduciamo la sua testimonianza pubblicata da Bergonzini, 5, 1980, 746-747.

L’11 agosto 1944, a mezzanotte, giunsero a casa nostra camionette di fascisti di Cento. Assieme a loro c’era un tedesco. Cercavano mio fratello Adelfo Maccaferri (Brunello), che era vice comandante della 63a brigata, e animatore della Resistenza della zona. Entrarono in una decina, invadendo tutti gli ambienti. Ci fecero alzare tutti e scendere in cucina. Il tedesco battè col calcio del fucile mia madre in testa e la ferita sanguinò. Buttarono tutto in aria, vuotarono le damigiane di vino per la cantina, così pure il grano. Presero un prosciutto e altre derrate. La casa era circondata. Volevano sapere dov’era Brunello, minacciando continuamente. Non avendo avuto risposta, ci caricarono, mio padre, mia madre ed io, su un camioncino scoperto e si avviarono verso Crevalcore.
All’altezza di via Bergnana si fermarono e una pattuglia si allontanò per andare a casa della nota famiglia antifascista dei Fini, in via Bergnana. Tornarono dopo circa mezz’ora. Avevano devastato mobili, incendiato la casa, preso della roba e minacciato di uccidere tutti (si è saputo che li misero contro il muro come per immediata esecuzione). Andarono poi avanti, oltre Crevalcore e Bolognina.
Entrarono in un’altra casa (credo da Gandolfi, casellante della « Veneta ») e poi ci fecero proseguire per Cento, dove si giunse alle cinque del mattino.
Qui ci misero nella caserma vicino alla Rocca, ci fecero un sommario interrogatorio e ci portarono in due camere di sicurezza, separandomi da mia madre.
Nel pomeriggio ci portarono alla Rocca, mescolati ad altri prigionieri, però noi tre sempre separati l’uno dall’altro. Ci trattennero fino al 16 agosto 1944, quando ci rilasciarono. Allora rientrammo a piedi fino a Decima, e poi da un parente trovammo delle biciclette. A casa era rimasta mia sorella Ida, di 32 anni, alla quale non avevano detto nulla della nostra sorte. Si interessò da ogni parte e riuscì a sapere dove eravamo e ci portò alimenti e indumenti.
Al ritorno cambiammo luogo per dormire: andammo in una casa oltre la ferrovia.
La sera del 10 agosto 1944, quella prima della venuta dèi fascisti, Brunello era venuto a casa (sarà venuto due volte in tutto), verso le ore 21, e vi era rimasto per circa mezz’ora. Non parlava mai dell’attività partigiana. Da allora non l’abbiamo più visto e non abbiamo saputo più nulla di lui.
L’ARRESTO DI AGOSTINO PIETROBUONI (AGOSTO 1944)
Dopo l’arresto di Quinto Pietrobuoni e di altri due santagatesi, il fratello del primo, Agostino, un antifascista di vecchia data, fu allontanato dalla zona e accompagnato in una base più sicura, e precisamente presso la famìglia Suozzi di Via Montirone nel comune di S. Giovanni in Persicelo; qui venne arrestato nella notte tra il 26 e il 27 agosto.
L’episodio è narrato da Ettore Suozzi, cl. 1918, nella testimonianza pubblicata da Bergonzini,
5, 1980, 758-759, che riproduciamo (all’inizio del secondo capoverso si deve leggere «agosto», non «maggio»).

Sulle vicende di Agostino Pierobuoni, di suo fratello Quinto e del movimento resistenziale
santagatese, oltre ad alcune testimonianze raccolte in Bergonzini, 5, 1980, si possono vedere le pagine di Renato Campagnoli, Cronache del movimento operaio e contadino di S. Agata Bolognese 1860-1945, Bologna 1985, 81-110.
Durante la Resistenza entrai a far parte della 63a brigata «Bolero». Il compagno Giuseppe Landi mi disse che dovevo ospitare un compagno di riguardo, per uno spostamento di sicurezza: si trattava di Agostino Pietrobuoni. Arrivò di notte accompagnato dal Landi e si sistemò dentro una capanna vicino a casa mia. Per cautela, mi diceva che non andava in casa di nessuno. Si mangiava quel poco che c’era, perché assai poco c’era anche per noi in famiglia. Eravamo sempre assieme, di notte specialmente, causa della sua vista. Era buono, molto consapevole, semplice nel parlare, non ci stancava mai col suo dire.
Nel mese di maggio, una domenica, verso l’una di notte, egli volle approfittare della chiarezza della notte illuminata dalla luna per fare quattro passi fra la mia casa e quella del contadino Danio Bongiovanni. In mezzo ai due casolari c’era un pozzo e lì ci eravamo appena fermati, quando, all’improvviso, dalle siepi uscirono una trentina di brigatisti neri, comandati dal brigante Lini. Il cane saltò fuori ma fu fulminato da una raffica di mitra, poi subito piombarono su di noi. Io chiesi chi erano e Agostino disse che era di passaggio e aveva chiesto un bicchiere d’acqua.
Uno di questi chiese se era ricercato e lui disse che non lo sapeva. Lo colpirono e gli occhiali caddero. Subito venimmo divisi. Una decina erano su di me caricandomi di botte, dicendo che ero un partigiano. Io dicevo di no e allora botte. Dissi che ero un guardiafili e ancora botte; mi chiesero perché ero con lui e io dissi che era capitato per caso e ripetei la storia del bicchiere d’acqua. Dissero che non era vero: e ancora botte.
Poi cambiarono tattica e mi promisero salva la vita se dicevo chi erano i partigiani.
Dissi che non lo sapevo e ancora botte. Intanto uno faceva la spola col gruppo del comandante per sapere cosa avevo detto io. Poi sentii che dissero di fucilarmi. Mi portarono davanti alla casa di Mon, il muratore, sempre in via Montirone. Si misero in cinque in ginocchio e cinque in piedi. Sentii lo scatto della sicurezza e stavano per puntare. Invece, ricominciarono con le domande e io continuavo
a negare, dicendo che non sapevo niente. Poi arrivò uno che si mise a parlare col Lini e dopo scaricò di nuovo la sua furia su di me, in modo bestiale.
Finalmente se ne andarono dicendo che questa era stata una lezione.
Ero tutto sanguinante, pieno di ammaccature, ma non sentivo dolore. Pensavo ad Agostino: anch’egli non aveva parlato, aveva salvato non solo me ma tanti altri compagni. Fu poi fucilato, la sera del 30 agosto 1944, al Poligono di Bologna.
L’ESECUZIONE DEL «RAS» DI PERSICETO E LA RAPPRESAGLIA FASCISTA
Dopo che il colonnello della G.N.R. Elio Zambonelli, il «ras» di Persiceto, fu svergognato di fronte al questore di Bologna e ad un esponente della polizìa tedesca per la sua vile macchinazione a danno di Giuseppe Veronesi, qualcuno ritenne che fosse stato degradato e messo da parte: «… ho saputo anche che Zambonelli è stato degradato e gli è stato vietato di frequentare ancora la casa del fascio» disse mons. Amedeo Cantagalli al Veronesi (cfr. G. Veronesi, II triangolo della morte, S. Giovanni in Persiceto, 1970, 55-56).
Invece la sua nefasta attività fu troncata soltanto nell’agosto 1944: sulla sua cattura ed esecuzione riproduciamo un passo della testimonianza di Nazzareno Gentilucci («Nerone»), comandante della «Squadra Temporale» della VII Brigata GAP «Gianni» Garibaldi, testimonianza pubblicata da Bergonzini, 5, 1980, 969-981.
Il caso volle che proprio Giuseppe Veronesi incrociasse l’automobile sequestrata dai partigiani: cfr. G. Veronesi, o.c. 67-68 (nelle testimonianze sull’avvenimento c’è qualche divergenza circa il nome dell’autista: Alfredo Calzati secondo Veronesi, Mario Bottura e/o Florindo Malferrari secondo altri).
L’esecuzione di Elio Zambonelli avvenne poco prima dell’alba di martedì 29 agosto 1944 […]

Fascismo ed antifascismo, parte 3, Storia e Memoria di Bologna