Ci sono 14 scope, cioè 14 prigionieri

Le tre sorelle Martini all’inaugurazione della stele dedicata a Padre Cortese e al suo gruppo nel Giardino dei Giusti a Padova (2008) – Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art. cit. infra

Eravamo una famiglia numerosa: avevamo quattro fratelli prigionieri. A casa eravamo quattro sorelle. Dopo l’8 settembre era pericolo fare qualcosa, ma avere questi fratelli prigionieri ci ha dato la spinta quando abbiamo avuto l’occasione, perché c’erano prigionieri alleati nascosti nei fossi che avevano bisogno di assistenza. Abbiamo cominciato a portar loro vestiti e pane biscotto, ma poi col freddo non potevano più stare nei fossi. Con l’aiuto di Padre Cortese del Santo, che era in collegamento con la rete FRA.MA, sono stati organizzati dei viaggi in treno. La cosa è andata avanti fino al 14 marzo del ’44, quando sono state arrestate le mie sorelle Teresa e Liliana e le Borgato di Saonara. Io quel giorno ero andata a Milano ad accompagnare due ebrei e fortunatamente ho perso il treno. Mi sono messa in contatto con Romani e sono stata nascosta in Brianza per tre mesi e dopo, alla fine del ’44, hanno arrestato anche me e portata a Bolzano, col prof. Meneghetti. Teresa e Liliana con le altre sono state tre mesi nel carcere di S. Maria Maggiore a Venezia, poi a Bolzano, da qui deportate a Mauthausen e quindi in campo di lavoro a Linz in Austria. A Mauthausen Teresa ha conosciuto Andrea Redetti, che poi è diventato suo marito: camminando nel campo hanno sentito parlare dialetto veneto, si sono fatte avanti e Teresa ha detto ad Andrea, che aveva la camicia strappata: “Si potrebbe aggiustare quello strappo”. Ecco: la storia sarebbe lunga ma potrebbero meglio raccontarla loro. Liliana e Teresa sono tornate a Padova a giugno, sono andate prima al Santo e il frate che le ha viste con la divisa è rimasto scandalizzato. Loro hanno detto: “Siamo tornate dal campo di concentramento”.
Lidia Martini, Intervento al Convegno Giornata delle donne della Resistenza, Padova, 20 settembre 2005

Romeo LOCATELLI – nato a Milano il 28/3/1897 – arrestato a Milano il 20/11/1944 – morto a Gusen il 9/4/1945.
Pietra d’Inciampo in Viale Caldara 11.
Romeo Locatelli nasce a Milano il 28 marzo 1897. È alpino nella guerra ’15-’18: catturato dagli austriaci è prigioniero a Mauthausen. Impiegato a Milano nella azienda Zepada della famiglia Diena di Padova. Proprio il titolare, dott. Giorgio Diena, lo coinvolge subito dopo l’8 settembre nell’attività antifascista del gruppo Fra.Ma (di Ezio Franceschini e Concetto Marchesi). Romeo Locatelli, nome di battaglia Omero, si occupa del collegamento fra Milano e il confine svizzero portando plichi, spesso voluminosi contenenti dati relativi alla situazione in Alta Italia, e documenti di carattere militare di ogni genere, oltre a tutte le indicazioni concernenti il lancio dei materiali richiesti sui campi dove le formazioni partigiane li attendevano. Svolgeva il suo incarico di staffetta agevolato anche dal fatto di essere sfollato con la famiglia a Brunate sopra Como. I viaggi, spesso svolti quotidianamente, vedevano anche la collaborazione del giovanissimo nipote Beno Andreoli. Insieme a Diena ed altri è arrestato il 20 novembre 1944 in via Marcora a Milano a seguito di un tranello teso dalla polizia fascista in casa della partigiana Rachele Ferrè. Da S. Vittore il 15 gennaio 1945 è deportato a Bolzano, matricola 8458 Blocco D. Quindi il 1° febbraio 1945 è deportato a Mauthausen. Muore a Gusen il 9 aprile 1945.
Redazione, Romeo Locatelli, Comitato per “Le Pietre d’Inciampo” Casa della Memoria, Milano, cartella stampa, gennaio 2019

Ezio Franceschini – Fonte: Aned
Concetto Marchesi – Fonte: Aned

Era [FRA.MA] una struttura privata e segretissima, una formidabile arma occulta della Resistenza. Operava fra Padova e la Svizzera, attraverso lo snodo fondamentale di Milano.
Era una raffinata, organizzata, capillare rete informativa coi tentacoli stesi fra il nemico, collegata ai servizi d’informazione elvetici, inglesi (Soe) e americani (Oss) fra Lugano e Berna, capace di alimentare tutti quegli aiuti di cui avevano estremo bisogno le formazioni partigiane che si stavano organizzando dopo l’8 settembre.
Una rete clandestina che portava curiosamente il nome delle sillabe iniziali di due straordinari personaggi della vita culturale e politica del tempo. I due fondatori: Ezio Franceschini e Concetto Marchesi.
Questo oggetto semisconosciuto della recente storia patria si chiamava “Gruppo Frama”.
La dirigevano con saggezza e prudenza, un cattolico e un comunista, il primo discepolo dell’altro sui banchi storici di quella Università di Padova dove, il secondo, Concetto Marchesi, il 1° dicembre 1943 prima di lasciarne la guida (era il rettore magnifico) lanciò agli studenti il famoso messaggio con cui li invitava a prendere il fucile e lottare per la libertà contro la tirannide.
[…] quello che sarebbe di lì a poco nato sotto la spinta di Ezio Franceschini quasi in modo occasionale sull’esperienza avviata da un cappuccino, padre Carlo Varischi, assistente alla Cattolica che a Milano aveva organizzato con successo un ufficio clandestino di falsificazione di documenti per l’espatrio di antifascisti ed ebrei.
Costretto alla fuga per non essere arrestato, Varisco affidò a Franceschini il servizio.
Fu il primo passo verso il “Gruppo Frama” che prese corpo mentre Marchesi a Padova viveva i suoi ultimi giorni da uomo libero, ricercato com’era dai nazifascisti (si era dimesso il 28 novembre), dopo l’appello pubblico rivolto agli studenti.
Franceschini non perse tempo: andò in Toscana, fra Lucca e Pisa, ad informare la moglie e la figlia di Marchesi perché si mettessero in salvo; organizzò la clandestinità di Marchesi a Padova sottraendolo al rischio dell’arresto dall’appartamentino di via Marsala 35 dove, per una disattenzione, aveva lasciato tracce utili ai suoi inseguitori (l’uomo non sapeva fra l’altro maneggiare un’arma, camuffarsi, stare tranquillo); studiò il trasferimento a Milano il 29 novembre (vedi la testimonianza di Paride Brunetti, comandante partigiano della brigata “Gramsci” nel Bellunese) dove soggiornò fino al 9 febbraio 1944 in un appartamento in viale Regina Elena 40 (ora Tunisia); favorì il passaggio in Svizzera (con il fratello Salvatore), su cui il Pci espresse il suo accordo pur affermando di non poter essere in grado di fornirgli un passaggio sicuro, che Franceschini da par suo trovò, consentendo al “maestro” (che non ne aveva molta voglia) di trovare ospitalità in Canton Ticino dal valico pedonale di Maslianico, presso Como, il 9 febbraio 1944, dopo un fallito tentativo due giorni prima. […]
Franco Giannantoni, Il Gruppo “FRAMA”. Il comunista Marchesi e il cattolico Franceschini: una rete nella Resistenza, Triangolo Rosso n. 1-2, gennaio-marzo 2008 – ANED

In Italia Giorgio Amendola arrivò varcando il confine a piedi. Dopo una prima sosta a Torino, si spostò a Milano, ove giunse tra il 18 e il 19 aprile 1943. Seguì il trasferimento a Bologna, in un’Emilia che ormai si stava organizzando per una guerra senza quartiere contro il nemico. Si stavano costituendo, infatti, i primi comitati unitari, alla cui formazione Amendola contribuì in modo determinante.
Rientrò, in questa sua attività di organizzatore e promotore della lotta partigiana, anche un primo viaggio a Padova, dove si incontrò, e quasi si scontrò, con Concetto Marchesi, il grande latinista che, piuttosto astrattamente, invero – come era nel suo carattere di intellettuale lontano dal senso della storia e della politica -, si muoveva su posizioni radicali, se non estremistiche.
Ad Amendola, con la sua volontà di volere subito una rivoluzione comunista, apparve «settario e intransigente»; la conferma si ebbe poco dopo, a Roma, nel giugno del 1943, quando, essendosi riuniti i responsabili del PLI (Casati), della DC (Gronchi), del MUP (Basso), del PSI (Veratti), del PDA (Lombardi) e del PCI (Concetto Marchesi), lanciò in prima persona un suo programma, che, presentato come programma del Partito, era così articolato:
a. Costituire un fronte nazionale, con un comitato direttivo a cui fosse affidata la direzione di tutto il movimento popolare;
b. lanciare un manifesto al paese per sollecitare l’azione insurrezionale;
c. organizzare un grande sciopero generale con manifestazioni di strada;
d. fare intervenire l’esercito a sostegno del popolo contro il governo fascista;
e. determinare, sulla base di questo movimento insurrezionale di popolo e di esercito, un intervento della monarchia, l’arresto di Mussolini e la formazione di un governo democratico che rompesse immediatamente il patto di alleanza con la Germania, concludesse un armistizio con gli Alleati e ristabilisse le libertà democratiche.
Questo governo doveva essere composto da rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, compresi i comunisti.
A guardar bene, Marchesi non vedeva molto diversamente da quanto sarebbe realmente accaduto, tranne che l’azione avvenne dall’interno del partito fascista, il 25 luglio successivo, e per una via non certo insurrezionale, poco controllabile politicamente e decisamente più pericolosa per le sorti del Paese. Del che, invece, si rendeva conto Amendola, che aveva ben assimilato la dottrina storicistica di ascendenza crociana, desanctisiana, vichiana e quindi per così dire «napoletana».
Come che sia il 26 luglio 1943, cioè appena il giorno dopo il Gran Consiglio e l’arresto di Mussolini, Giorgio Amendola partiva per Roma, dove, lo stesso giorno 26, avveniva una riunione di rappresentanti dei partiti antifascisti.
Quei disaccordi che a Milano, un mese prima, si erano registrati sulle proposte dei comunisti, data la nuova condizione apparvero miracolosamente superati. Tutti, infatti, convennero su una aggiornata proposta, che chiedeva:
a. l’assicurazione che fossero iniziate trattative immediate per ottenere un armistizio e che fossero prese misure adeguate per fronteggiare il pericolo tedesco;
b. lo scioglimento del partito fascista e delle istituzioni del regime (Camera delle Corporazioni, Tribunale Speciale e Milizia fascista);
c. la liberazione dei detenuti e dei confinati politici;
d. la libertà di stampa e di ricostituzione dei partiti antifascisti.
Si accantonava, invece, l’idea di superare il governo Badoglio con un governo democratico in cui fossero presenti tutti i partiti antifascisti, stante la consapevolezza, soprattutto da parte di Amendola, che la cosa avrebbe potuto portare turbamento e confusione, in un momento già di per sé stesso confuso e carico di pericoli per la presenza, sul territorio nazionale, di irriducibili fascisti e tedeschi armati. Invece diventava prioritaria, anche per ragioni di immagine, la liberazione dei detenuti politici.
Giovanni Caserta, Una «famiglia speciale» in (a cura di) Giovanni Cerchia, La Famiglia Amendola. Una scelta di vita per l’Italia, Studi – Convegni – Ricerche della Fondazione Giorgio Amendola e dell’Associazione Lucana Carlo Levi, 27, Edizioni Il Rinnovamento, Torino, Cerabona Editore, 2011

L’8 febbraio 2018, in occasione dell’inaugurazione del 796° anno accademico dell’università di Padova, il presidente della Repubblica ha conferito la medaglia d’oro al merito civile alla memoria di padre Placido Cortese, torturato e ucciso dalle SS tedesche nel 1944 per aver protetto internati, ebrei e prigionieri di guerra.
Le principali collaboratrici della sua opera di carità furono due studentesse universitarie padovane: Teresa Martini (1919-2016), iscritta alla facoltà di chimica, e la sorella Lidia (1921-2011), iscritta a scienze naturali.
Come comprovato da vari documenti del War Office britannico rinvenuti recentemente presso i National Archives di Londra e la National Archives and Record Administration di Washington, esse ebbero, tra il 1943 e il 1945, un ruolo rilevante nel salvataggio di centinaia di ex prigionieri di guerra Alleati fuggiti dai campi di prigionia esistenti in Italia, durante quella che fu probabilmente la più grande evasione di massa della storia.
La loro opera iniziò subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’immediata durissima occupazione militare tedesca, operata con la collaborazione della neonata Repubblica Sociale, che avevano segnato l’inizio per l’Italia dei 19 mesi più sciagurati della sua storia. L’esercito, privo di ordini, si dissolse miseramente, e circa 700.000 militari italiani furono internati nei lager del Reich a languire e a morire. Centinaia di migliaia di altri militari sbandati e di renitenti alla leva fascista si sparsero per le campagne e le montagne, dove andavano formandosi i primi nuclei della Resistenza armata. In questo scenario circa 50.000 prigionieri di guerra Alleati (degli 80.000 circa presenti in Italia) si dettero alla macchia e, stupiti e commossi, ricevettero insperato aiuto dalla popolazione e dalla Resistenza organizzata.
Così decine di migliaia di giovani provenienti da vari Paesi del Commonwealth britannico furono aiutati a sfuggire all’accanita caccia delle varie milizie fasciste e dei reparti tedeschi: protetti, sfamati, alloggiati in ricoveri sicuri, curati, rivestiti con abiti borghesi, avviati verso le montagne, dove alcuni si unirono ai primi gruppi di partigiani, o accompagnati nei pericolosi viaggi verso la neutrale Svizzera per trovarvi rifugio sicuro, oppure ancora diretti a sud per attraversare il fronte di guerra e ricongiungersi al proprio esercito che risaliva lentamente l’Italia.
[…] Teresa Martini, poi affiancata dalla sorella Lidia, fu tra le prime ad attivarsi di propria iniziativa nel soccorso ai fuggitivi, che spesso si nascondevano nelle campagne in buche, fossi e fienili, braccati come selvaggina e bisognosi di ogni aiuto.
Presto esse entrarono, con ruoli di primo piano, nella rete clandestina di assistenza ai prigionieri di guerra latitanti che a Padova faceva capo a padre Placido Cortese, frate dell’ordine dei Minori nel convento di Sant’Antonio, e ad Armando Romani, già ufficiale pilota. Questi a loro volta erano in costante collegamento con il Comitato di Liberazione Nazionale di Padova (presieduto da Adolfo Zamboni, professore di storia e filosofia al Liceo Ippolito Nievo e dopo la liberazione provveditore agli studi di Padova), del quale sia Teresa che Lidia Martini erano state allieve), con il Cln regionale Veneto (guidato dal prof. Egidio Meneghetti, prorettore dell’Università) e con quello dell’Alta Italia a Milano, con l’organizzazione FraMa (professori Ezio Franceschini e Concetto Marchesi, ex Rettore) e con le autorità Alleate in Svizzera.
Durante la loro attività le sorelle Martini effettuarono numerosi viaggi clandestini, che nell’inverno 1943-44 guidarono verso la Svizzera oltre 200 ex prigionieri di guerra; in seguito il loro operato fu presi ad esempio dell’attività svolta in Italia a favore dei militari Alleati nel Rapporto finale che il Comitato di Liberazione Nazionale presentò alla A.S.C. le sorelle Martini sono state anche citate nel discorso tenuto a Milano il 25 aprile 2015 dal presidente della Repubblica, che esaltò quella «fraterna collaborazione tra persone di idee politiche diverse.»
Quei lunghi viaggi tra pericoli di ogni genere richiedevano attenta preparazione e particolari accorgimenti per cercare di far passare inosservati quei giovani stranieri, così diversi dagli Italiani per corporatura e lineamenti.
Alla vigilia di ogni viaggio, che era stato accuratamente pianificato e preceduto da una ricognizione dell’intero percorso, gli ex prigionieri venivano accompagnati alla spicciolata in città a casa Martini, che fungeva da centro di raccolta e distribuzione, dove ciascuno era fornito di scarpe, cappotto, cappello, sciarpa, cibo per il viaggio, documenti d’identità e permessi di viaggio falsificati con la collaborazione di funzionari del Comune.
Il viaggio iniziava all’alba dalla stazione centrale di Padova (o, in caso di inagibilità per i bombardamenti, dallo scalo di Campo di Marte), dove gli ex prigionieri, forniti di regolare biglietto, venivano fatti salire su un treno locale gremito di passeggeri. Qui, muniti di giornali nella cui lettura fingevano di immergersi per evitare conversazioni, viaggiavano nella carrozza di centro, mentre due guide si piazzavano nelle carrozze di testa e di coda per avvistare al più presto le pattuglie fasciste, che solitamente iniziavano i controlli dalle estremità del convoglio. I treni “accelerati” fermavano a tutte le stazioni, permettendo così ai fuggiaschi di scendere per eludere i controlli e di risalire subito in un’altra carrozza già controllata, o di attendere un treno successivo.
Una certa protezione durante il rischioso tragitto veniva fornita da un fidato gruppo di ferrovieri organizzati dal prof. Mario Todesco, incaricato di lingua italiana per studenti stranieri all’Università di Padova, che fu trucidato dai fascisti in pieno centro a Padova nella notte tra il 28 e il 29 giugno 1944. La Medaglia d’oro al Merito civile fu conferita nel 2008 alla sua memoria.
A causa di deviazioni, rallentamenti e soste dovute alle pessime condizioni della linea ferroviaria, ai frequenti bombardamenti e mitragliamenti aerei e ai sabotaggi, il treno arrivava a Milano a tarda sera. Per rispettare il coprifuoco guide e passeggeri trascorrevano la notte negli affollatissimi sotterranei della stazione centrale, dove era più facile sfuggire alle ricerche della polizia, e nel tardo pomeriggio salivano su un treno per Lecco, proseguendo fino a Dervio, sulla sponda orientale del Lago di Como. Dalle tenebre, dopo lo scambio convenuto di segnali luminosi con le pile, appariva una barca che li traghettava sulla sponda opposta del lago, a Cremia, dove erano accolti dalle guide di montagna, che con 8 ore di salita notturna li conducevano a Cavargna, dove sostavano alcune ore al riparo, per poi raggiungere il confine Svizzero con altre quattro ore di marcia nella neve alta.
Quelle lunghe marce in alta montagna, che l’inverno rendeva ancor più difficili e pericolose, erano una dura prova per uomini debilitati fisicamente e psicologicamente da due o più anni di prigionia. Non mancarono tragedie, come quella gravissima che avvenne il 9 novembre 1944 alle Gorges du Malpasset, tra il Passo di Galisia e la Val d’Isère, dove fra tormente e slavine persero la vita una quarantina tra ex prigionieri e partigiani che li accompagnavano verso la Savoia già liberata dagli Alleati.
A qualche gruppo di ex prigionieri venivano aggregati degli ebrei, spesso intere famiglie, come annotato in alcuni P.O.W. Report compilati all’arrivo in Svizzera.
Ai primi di marzo Teresa Martini si recò in Veneto orientale per organizzare la fuga di un centinaio di ex prigionieri latitanti in quell’area.
La sua attività ebbe fine il 14 marzo 1944, quando le SS tedesche la arrestarono insieme alla sorella diciassettenne Carla Liliana (1926-2017). La loro grande casa in via Galileo Galilei a Padova (ora sede del Cuamm – Medici con l’Africa) fu completamente saccheggiata ed esse subirono 5 mesi di cella di isolamento e bastonature nel carcere di Venezia, seguiti da 10 mesi di fame, freddo e pesante lavoro coatto nel KZ Mauthausen e nei suoi sottocampi di Linz e Grein, fino alla liberazione da parte degli Alleati.
Lidia Martini sfuggì alla cattura e continuò ad assistere i prigionieri insieme ad Armando Romani, svolgendo anche una preziosa attività di raccolta di informazioni militari. Fu arrestata il 17 gennaio 1945 e imprigionata a Venezia e poi a Verona, infine rinchiusa nel durissimo campo di concentramento di Bolzano, base di partenza per i lager. Qui ritrovò il prof. Meneghetti, col quale fece ritorno a Padova alla fine della guerra. Anche Romani fu arrestato, ma riuscì a fuggire rocambolescamente dal campo di concentramento di Fossoli prima di essere trasferito in lager.
Padre Cortese, che dopo aver protetto gli internati jugoslavi e i prigionieri di guerra Alleati, dall’estate del 1944 si era prodigato anche nel dare rifugio ai militari cecoslovacchi che disertavano dall’esercito tedesco in cui erano stati arruolati con la forza, venne prelevato con l’inganno all’esterno della basilica di Sant’Antonio l’8 ottobre 1944 e condotto nella sede delle SS a Trieste, dove subì orribili torture e fu ucciso circa un mese dopo. Una stele, inaugurata nel 2008, ricorda Padre Cortese e il suo gruppo nel Giardino dei Giusti a Padova. La causa di beatificazione del martire della carità è in corso.
L’alta onorificenza di Member of the Order of the British Empire (Mbe), Civil fu proposta per Teresa Martini per i servizi resi alla causa Alleata, mentre per Lidia Martini fu proposta la King’s Medal for Courage in the Cause of Freedom, ma entrambe le onorificenze furono poste in “cold storage”, e per ragioni di opportunità politica e non vennero mai conferite. La stessa deludente fine fecero tutte le onorificenze proposte per alcune centinaia dei più meritevoli “helpers in Italy”.
Gli 84.000 fascicoli (non pochi dei quali contrassegnati con la lettera “D” indicante gli helpers che avevano dato la vita) contenenti la documentazione raccolta tra il 1944 e il 1947 con cura scrupolosa dagli ufficiali della Asc, sfuggiti per poco al rogo stabilito nel cortile dell’Ambasciata britannica a Roma, furono trasportati negli Stati Uniti, dove giacciono in archivi poco frequentati. Così l’ammirazione per il valore di tanti civili italiani che emerge da circa un milione di documenti è stata trasmessa solo a pochi topi d’archivio.
A causa delle difficoltà del dopoguerra, delle grandi distanze e degli scarsi mezzi di comunicazione, solo pochi ex prigionieri riuscirono a tornare in Italia per rintracciare i propri salvatori e riabbracciarli. Da qualche anno sono però i figli e i nipoti a ripercorrere l’Italia, sulle tracce di quei Prisoners of War e dei loro salvatori, per cercare di onorare i loro antichi debiti di gratitudine.
Adolfo Zamboni Jr, Le sorelle Martini, partigiane e studentesse, Il Bo Live Università di Padova, luglio 2018

Teresa e Lidia Martini – Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art. cit.

Fra i moltissimi episodi di coraggiosa generosità si ricordano in particolare quelli messi in atto dalle sorelle Martini.
Liliana, Teresa, Lidia e Renata, insieme a Maria e Delfina Borgato, si spesero nel salvataggio di soldati italiani allo sbando e prigionieri in pericolo, dando vita a una rete di solidarietà (“la catena della salvezza”) che organizzava viaggi in treno per portare i prigionieri oltre il confine e che aveva il suo riferimento in Armando Romani, ex ufficiale pilota, e in padre Placido Cortese. Tale attività avveniva anche in collaborazione con la rete clandestina FRAMA. Questa organizzazione, voluta da Concetto Marchesi, riparato in Svizzera, e dal suo allievo Ezio Franceschini, docente all’Università Cattolica di Milano, e che nella sua denominazione accomuna le iniziali di Franceschini e Marchesi, manteneva i contatti con le rappresentanze diplomatiche dei governi alleati, con gli agenti anglo-americani e con il governo legittimo del Sud, reperendo finanziamenti e documenti falsi necessari per i trasferimenti dei fuggitivi attraverso l’Italia del Nord occupata e con destinazione Svizzera.
Teresa e Liliana Martini furono arrestate il 14 marzo del 1944, condotte in carcere a Venezia, e quindi nei lager di Mathausen, Linz e Grein.
Conobbero il carcere, gli interrogatori sotto tortura, il lavoro coatto, la fame. Successivamente fu arrestata e internata anche Lidia.
Tutte e tre tornarono vive dai lager nazisti.
Persero invece coraggiosamente la vita alcune delle persone che con loro operavano nella “catena della salvezza”. Fra queste va ricordata Maria Borgato detta dei Soti, imprigionata a Bolzano e quindi deportata a Ravensbrück (Berlino), dove nell’aprile 1945 fu avviata al forno crematorio. Il cippo commemorativo di Maria Borgato si trova nei pressi del museo dell’Internato Ignoto a Padova e riporta le testuali parole:«Maria Borgato, nata a Saonara il 7 settembre 1898, morta a Ravensbrük nell’aprile 1945, martire della carità».
Punto di riferimento fondamentale dell’attività delle sorelle Martini fu Padre Placido Cortese.
Padre Placido, nato a Cherso (cittadina dell’Istria, allora appartenente all’impero austro-ungarico, oggi alla Croazia) il 7 marzo 1907, entra all’età di diciassette anni nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, nel seminario antoniano di Camposampiero (Padova). Nel febbraio del 1937 viene nominato Direttore del “Messaggero di S. Antonio” dove per sei anni ebbe modo di affinare competenze grafiche che gli sarebbero poi servite per falsificare documenti d’identità dei
fuggiaschi così da permetterne l’espatrio. Dopo il crollo del fascismo si prodigò con dedizione al “salvataggio” delle persone ricercate dai nazifascisti, anche grazie ai contatti delle rete FRA MA. L’8 ottobre 1944 venne consegnato alle SS, che attendevano oltre il sagrato della Basilica – all’interno della quale il frate godeva della extraterritorialità pontificia -, da un ragazzo croato suo amico, che gli aveva teso una trappola facendolo chiamare dal portinaio del convento per prestare un soccorso d’urgenza ad alcuni rifugiati. In seguito di lui si persero le tracce. Solo dopo un silenzio lungo decenni riemergerà la sua storia. E’ certo ormai che padre Placido venne ucciso nella sede della Gestapo di piazza Oberdan, a Trieste. Dicono alcuni testimoni oculari che, durante gli interrogatori, nonostante le torture inaudite, si addossò ogni responsabilità e non rivelò alcun nome dei suoi collaboratori della rete della carità.
Beatrice Motta, La Resistenza a Padova: luoghi e personaggi della nostra identità, Tesi di specializzazione, SPS Veneto Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario, Anno accademico 2007/2008

[…] Il rettore Marchesi ha allora 65 anni. A 63, nel maggio del 1941, ha chiesto il porto d’armi, come dichiarerà lui stesso alla polizia di Bellinzona al momento del suo ingresso in Svizzera (febbraio 1944 se non erro).
Ai primi di dicembre entra in clandestinità, si trasforma in cospiratore e si getta con coraggio leonino nella lotta contro il fascismo e l’occupazione tedesca, con la chiara percezione che si tratta della lotta in difesa delle libertà e dei diritti dell’uomo e del cittadino contro lo scenario di vera e propria schiavitù fisica e morale che avrebbe atteso l’Europa nel caso di una vittoria del nazionalsocialismo; perché questo, tecnicamente, era il pur confuso “nuovo ordine europeo” perseguito da Hitler; dunque, una lotta mortale, che poteva concludersi solo con la distruzione dell’avversario.
Raggiunta la Svizzera, diverrà uno dei perni essenziali delle relazioni tra le autorità militari alleate e la Resistenza veneta, grazie anche all’aiuto del suo allievo e collega Ezio Franceschini, cui dobbiamo una importante biografia, dal titolo significativo: Concetto Marchesi. Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto. L’inquieto rettore, perché in tale carica era rimasto durante i primi giorni della Repubblica di Salò anche per volere di Alberto Biggini, ministro dell’Educazione nazionale (un fascista atipico, per molti versi, certamente non un violento scherano, una figura che meriterebbe più attenzione), l’inquieto rettore dicevo, suscitando non poche perplessità e critiche anche tra le fila del Partito comunista in cui militava e del fronte antifascista in generale, il 26 novembre così scriveva a Manara Valgimigli, famoso grecista (aveva firmato nel 1925 il manifesto degli intellettuali antifascisti ispirato da Croce): “Mio Manara, forse passerà un pezzo prima che ci rivediamo. Voglio dirti che ti voglio molto bene e ti prego di compatirmi fraternamente se ho accresciuto e accresco i turbamenti della tua vita. Non era più possibile ch’io sostenessi ancora il rettorato senza incertezze e senza pericoli: e non erano i pericoli miei quelli che mi agitavano, ma quelli che mio malgrado procuravo agli altri. Adesso aspetto il giorno in cui dovrò chiarire la mia condotta, apertamente”.
È come se, per uomini di eccezionale tempra morale e intellettuale, come Egidio Meneghetti e Silvio Trentin, con cui costituirà il Cln veneto immediatamente a ridosso dell’8 settembre, la straordinaria, avvilente, umiliante pressione coercitiva della dittatura fascista, invece di piegarli li avesse caricati come molle.
Marchesi insomma sceglie la clandestinità e la Resistenza.
[…] Bruno Trentin è forse uno dei primi che usa sistematicamente il termine Resistenza: ha ben chiaro l’esempio dei maquis francesi. Nel diario, sotto la data dell’8 ottobre, vi è anche il resoconto di un incontro con i partigiani, i ribelli, anzi, nella sua definizione molto significativa “i patrioti”. Accompagna il padre. I “patrioti” li attendono in una locanda di un paesino di montagna; sono giovani ufficiali degli alpini: “Negli occhi di quei montanari si percepiva una grande aspettativa, un po’ di riconoscenza, per quella gente di laggiù, per quei rappresentati dei partiti di resistenza, … Forse anche un po’ di diffidenza per quegli uomini ben vestiti, un po’ pieni di illusioni”. E annota, con sorpresa, quasi con trepidazione: “Ci sono uomini che hanno pensato come me, che hanno giudicato come me e che vogliono lottare come me contro lo stesso nemico. Non siamo soli! Sotto la maschera consunta e rappezzata … Del fascismo, spunta… Un popolo vero … Non la folla fasulla che urlava “a noi” senza sapere perché, no, un popolo vero, grave, risoluto … il popolo libero, che spezza le sue catene e che grida altolà! … Che era sul Piave contro l’Austriaco, che era a Vittorio Veneto dopo Caporetto, che era a Guadalajara contro le Camicie Nere”.
Bruno Trentin ha ritrovato la sua patria.
In questi appunti ritorna l’eco di pagine – ora molto famose – di un altro diario, quello di Piero Calamandrei, che il primo agosto (in quella breve parentesi tra la caduta di Mussolini e l’armistizio dell’8 settembre) annotava: “Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere senza retorica in questa frase: si è ritrovata la patria: la patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un’allusione … Ah, che respiro! Ci si può parlare, si può dire il nostro pensiero chiaro … Si può esprimere senza timore della delazione il nostro sdegno, il nostro biasimo… Ci siamo ritrovati, siamo uomini anche noi”. Nei vent’anni trascorsi “si è avuta la sensazione di essere occupati dagli stranieri: se erano italiani loro, noi non eravamo italiani. Paese occupato da una tribù di selvaggi … Sicché in questa prima settimana è corso per l’Italia un brivido simile a quello del Risorgimento, quando se n’andavano i re stranieri e il popolo scendeva nelle piazze”.
Come è stato detto, in quel momento di paradossale libertà creata dal collasso del fascismo, dello stato fascista, di ogni legalità, dallo scioglimento di ogni giuramento, gli italiani si trovarono a fare i conti con la propria coscienza. Perfino nella prigionia, i 600.000 soldati catturati dai tedeschi rinunceranno in grandissima parte ai “privilegi” garantiti dall’adesione alla Repubblica sociale italiana e affrontarono per coerenza la sorte tragica dell’internato militare, figura del tutto anomala che ai tedeschi consentiva di ignorare i doveri imposti agli eserciti dalla convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra.
Più che una scelta, fu “qualcosa che non si poteva non fare”.
[…] A Padova era stata insediata una delle dieci centrali dell’Ovra, la polizia segreta fascista, che contava su una fitta ed efficiente rete di informatori in tutti gli ambienti sociali, i cui nomi ancora non conosciamo.
Allora, quanta determinazione, quanta fatica, quanta angoscia, in quel “basta” senza orizzonti. Quanti e dove saranno coloro i quali dicono basta e fuggono in montagna o si nascondono? Come trovarli? Come organizzarsi, come trovare le armi? E le avrebbero sapute usare, quelle armi?
E quel basta ha lo stesso significato per tutti? Ovvero, quali saranno i contorni e i contenuti politici del gran rifiuto, se vi sono, in una moltitudine di persone – studenti, operai, contadini, soldati – spesso di scarsissima cultura, che poco o nulla avevano visto oltre il fascismo e la cartapesta del regime?
E quelli che non dissero niente? Ci soccorre una felice pagina di Luigi Meneghello, tratta da “I piccoli maestri”: “Si viaggiava molto, anche coi treni, ma soprattutto in bicicletta, si andava nelle città … un paio di volte andai in bicicletta a Milano … Questi viaggi erano sostanzialmente possibili perché, se non avevamo un nostro fronte interno, avevamo però qualcosa di meglio: l’alleanza clandestina ma naturale di un gran numero di famiglie e di persone. I professionisti [i militanti della Resistenza] erano indubbiamente pochi; ma il margine dell’adesione e della compromissione degli altri era enorme. Per lo più era gente che non si sarebbe mai sognata di fare la Resistenza per conto suo; ma per i ragazzi che la facevano, erano disposti a molte cose. Ci ospitavano, ci nutrivano, ci fornivano le biciclette, ci recapitavano i messaggi, tenevano in casa depositi e archivi, e magari anche la trasmittente clandestina; e provvedevano perfino a chiamare, secondo il bisogno, un radiotecnico di fiducia per la trasmittente, o il medico di famiglia per l’operatore”.
Quanti modi di dire basta… […]
Carlo Fumian, Un inquieto rettore e la sfida della Resistenza, Il Bo Live Università di Padova, 6 dicembre 2013

Padre Placido Cortese – Foto: Messaggero di Sant’Antonio – Fonte: SIR Agenzia, art. cit. infra

Padre Placido Cortese è venerabile, avendo Papa Francesco riconosciuto le sue virtù eroiche. La testimonianza di padre Cortese, frate del Santo, direttore del “Messaggero di sant’Antonio”, “rifulse soprattutto durante la Seconda guerra mondiale, quando si prese cura, in particolare, degli internati sloveni e croati nei campi di concentramento italiani, di ebrei, di militari alleati ricercati e di altri, di persone perseguitate dal nazifascismo – si legge in una nota diffusa dal Messaggero di Sant’Antonio -. Grazie alla rete Fra.Ma, di cui era tra i principali protagonisti nella zona di Padova, padre Cortese riuscì a mettere in salvo centinaia di persone. E questo fino alle estreme conseguenze: la cattura, le brutali torture e la morte a Trieste, nel novembre 1944, nella sede della Gestapo, la polizia segreta nazista, che non riuscì a piegare il suo eroico silenzio”. Per procedere alla beatificazione, basterà ora l’accertamento di un miracolo, ottenuto per l’intercessione del venerabile padre Placido Cortese.
“Occorre aggiungere – prosegue la nota – che rimane la speranza di poter giungere anche al riconoscimento del ‘martirio’ di padre Placido, riprendendo l’originale impostazione della causa successivamente mutata dalla Congregazione delle cause dei santi, in attesa di acquisire elementi certi sul martirio ‘in odium fidei’, come richiesto dalle normative ecclesiastiche. Se verrà riconosciuto il martirio, padre Cortese sarà beatificato e non sarà necessario l’accertamento del miracolo”.
Il Messaggero di Sant’Antonio ricorda che “la promulgazione delle virtù eroiche è di grande rilievo e si aggiunge ai prestigiosi riconoscimenti attribuiti a padre Cortese in altri ambiti, come la Medaglia d’oro al merito civile concessa e consegnata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel febbraio 2018 e, ultimamente (gennaio 2021), la posa della ‘pietra d’inciampo’ davanti alla Basilica del Santo, nel punto dove avvenne la cattura. Di padre Placido troviamo la memoria nei Giardini dei Giusti di Padova e Milano, e non solo, ed è auspicabile il suo inserimento anche nello Yad Vashem di Gerusalemme”.
L’odierno pronunciamento della Chiesa “ci riconsegna un uomo, un francescano e un sacerdote esemplare nelle virtù praticate perché totalmente uomo di Dio e, di conseguenza, totalmente dedito alla causa dell’uomo oppresso e vilipeso, difendendone i diritti e la dignità”.
“L’eroico padre Placido Cortese – conclude al nota – riflette la sua luce su tutti i suoi coraggiosi collaboratori e collaboratrici e su quanti contribuirono a tenere accesa la fiaccola della carità cristiana e della solidarietà, della difesa dei fondamentali valori del vivere civile, nel buio che avvolse l’umanità durante il secondo conflitto mondiale. Le città di Padova e Trieste, ma anche di Cherso e Lubiana, con le rispettive comunità cristiane, i frati minori conventuali d’Italia, Slovenia e Croazia si rallegrano per la vita, l’opera e la straordinaria testimonianza del venerabile padre Placido Cortese, con la speranza che egli sia riconosciuto ‘martire della fede e della carità’”.
G.A., Venerabili: Messaggero di Sant’Antonio, “padre Cortese era un francescano e sacerdote esemplare perché dedito a Dio e alla causa dell’uomo oppresso”, SIR Agenzia d’informazione, 30 agosto 2021

Avevate trovato una rete organizzativa in cui inserirvi?
C’era, ma noi non lo sapevamo. E’ stato tutto un caso, tutti i fili tirati dalla Provvidenza. Io davo lezioni, facevo il secondo anno di Scienze Naturali. Un ex ufficiale pilota di Milano, Vittorio Duse, non so consigliato da chi, era venuto a chiedermi lezioni di botanica. Un giorno mi ha presentato un altro ex ufficiale pilota, che si chiamava Armando Romani. Vedendo che noi eravamo così ben disposte ad aiutare, Romani ci aveva chiesto: “Volete che organizziamo dei viaggi per portare al confine questi prigionieri?”. Lui era già appartenente ad una rete, noi non lo sapevamo, anzi abbiamo pensato: “Ma guarda che bella occasione, sì certo che siamo disposte a farlo”. Romani era in contatto con Padre Cortese, il frate che ora stanno beatificando, ma già anche Padre Cortese aveva lavorato in precedenza salvando tanti slavi portandoli al di là dell’Adriatico. Noi andavamo nel suo confessionale che serviva da luogo di appuntamento e dicevamo: “Ci sono 14 scope”, cioè 14 prigionieri, allora lui ci dava i fondi e andava per gli uffici a fare i documenti.
(…)
Quello che abbiamo fatto noi è niente; abbiamo portato 300 prigionieri, finché ce lo hanno permesso, dopo purtroppo la rete s’è interrotta. Avremmo potuto fare di più, ma Padre Cortese ne ha salvati tanti, tanti, e soprattutto non ha portato a casa la pelle. Lui ci dava i fondi, e le fotografie, perché dovevamo preparare i documenti per questi disgraziati. Non avevano niente, né vestiario né documenti. Dovevamo corrompere gli impiegati dei vari uffici per far la carta d’identità. Le fotografie le prendevamo al Santo dagli ex-voto, cercando di trovare le somiglianze. Sta di fatto che noi partivamo con dodici, quattordici, anche diciotto uomini, in treno, e avevamo perlomeno l’avvertenza di stare attente alle fermate, dove saliva il controllore, perché se saliva in coda, noi passavamo svelte in testa, e viceversa. Per esempio, una volta un prigioniero aveva il giornale a rovescio. Bastava una distrazione perché subito s’insospettissero, ed erano pronti con la pistola.
(…)
Quando sono cominciati questi vostri viaggi?
Abbiamo fatto questi viaggi in treno dalla fine del ’43 fino al 14 marzo del ’44, giorno in cui le mie sorelle furono avvertite che era prevista una partenza con dei prigionieri, e invece di trovare i prigionieri hanno trovato le SS. Le hanno subito portate a Venezia al carcere di S. Maria Maggiore. Io quel giorno ero a Milano, avevo accompagnato degli ebrei, ho perso il treno e, vedete cos’è la Provvidenza, ho telefonato a casa per avvertire che arrivavo due ore più tardi. Ho trovato la domestica che mi dice: “Signorina, non venga a casa!” e mi racconta quel che era successo. I miei genitori si erano rifugiati nel convento di S. Francesco, con un’altra nostra sorella, Renata, e con il fratello più giovane. Io mi sono rifugiata in un paesino della Brianza, (…). Sono stata lì due-tre mesi, e dopo, pensando che le acque si fossero calmate, sono tornata a casa. I miei erano sfollati – perché non si poteva rientrare nella nostra casa – nella casa di un avvocato, a sua volta sfollato in campagna, e per un poco sono stati là. Io sono andata là, dopo un po’ i fascisti sono venuti a cercarmi, eravamo già vicini al Natale. (…) Mi hanno portata a Venezia, dopo a Verona e a Bolzano, dove sono stata quattro mesi in tutto. Le mie sorelle intanto, dopo quattro mesi di carcere a Venezia, erano state deportate in Germania a Mauthausen. Il 25 aprile sono venuta via dal campo di Bolzano, con il Prof. Meneghetti ed Edgardo Sogno. Prima siamo andati in Svizzera. Ricordo ancora quel viaggio, così diverso da quelli che avevamo fatto con i prigionieri. Da liberi era tutta un’altra cosa. Ho un ricordo bellissimo: la signora presso la quale eravamo in Svizzera, mi ha prestato una bicicletta, e ricordo di aver fatto una volata in discesa come se fossi in motocicletta, a tutta velocità: la gioia della libertà, di sentirsi l’aria libera addosso! A Milano abbiamo conosciuto Indro Montanelli, me lo ricordo bene, allora aveva 35 anni. Le mie sorelle invece poverette hanno avuto tutt’altro destino. Già in carcere a Venezia erano in celle isolate. Io no, ero in una stanza comune, una decina tra ladre, assassine, e due-tre prigioniere politiche, una padovana come me, ma comunista di famiglia. Noi l’abbiamo fatto più che altro proprio per spirito umanitario, perché ci facevano pena le persone, ma anche perché non avevo paura di niente, neanche dei bombardamenti.
Lidia Martini (1921-2011), Estratti dell’intervista effettuata il 6 marzo 2002, pubblicata per intero in Tra la città di Dio e la città dell’uomo. Donne cattoliche nella Resistenza veneta, a cura di L. Bellina e M.T.Sega, Iveser-Istresco, 2004

C’è una testimonianza di Lucio Rubini che era studente al Foscarini lui…
È vero, Lucio Rubini, che era un chiacchierone ma un ragazzo molto simpatico e molto divertente, arriva nel bellunese e io lo incontro in mezzo ad altre persone sconosciute. Lui si alza: “Daulo”… abbracci… Ghe go dito: “Se ti me ciami ancora Daulo, se ti mostri di conoscermi, io ti mangio i coglioni!”. Ecco, questa è la frase che gli ho ripetuto 100 volte: “Ti mangio i coglioni, ti mangio”.
Era con Lanfranco Caniato. A un certo punto decidono di andare in montagna, e partono con le valigie verso Trichiana – evidentemente era un punto di riferimento per i veneziani – e leggo:… “sul ponte di San Felice dove attraversammo il Piave, pochi giorni prima 8 partigiani erano caduti in un’imboscata della Brigata nera di Belluno. Noi tranquilli con le nostre valigie come commessi viaggiatori; quella di Nello – che è Lanfranco Caniato – era più grossa perché incastrato in diagonale aveva il moschetto che aveva fregato in caserma prima di partire”.
“Finalmente giungemmo a Casteldardo, Luciano non c’era, ci accolse Giuliana”. Forse c’era anche lei. “Giuliana Foscolo fu l’anima della Resistenza nella zona del medio Piave. Ci fece rifocillare un po’ e riposare un po’; a sera con un carro trainato da buoi ci mandò al comando della Tollot, brigata della Nannetti” che era in Cansiglio”.
Io a Casteldardo non me lo ricordo, non c’ero…
E i documenti falsi? La Rina Nono dice che andavano da Arturo Martini a farsi fare i timbri falsi per i documenti.
A me arrivavano i documenti già fatti. Servivano particolarmente per gli ebrei. Per far fuggire gli ebrei.
E come era organizzata questa rete?
Questa rete… era l’organizzazione ebraica. I Sereni io li ho conosciuti a Casteldardo, il periodo dell’estate del ’44, di passaggio, poi vanno in Svizzera, dove succede la tragedia, muore uno dei fratelli. Si attaccano molto a me e sono tuttora attaccatissimi.
Siete rimasti in contatto quindi dopo la guerra?
Molto. Perché si erano legati… […]
Maria Teresa Sega, Intervista a Daulo Foscolo, Memoria resistente, Iveser, 2004