Il campo è la rivelazione piena del fenomeno totalitario

2 – Memoria “fragile”
La memoria “fragile” è declinata dal punto di vista dell’architettura considerando le categorie dei campi di concentramento in Italia, dei luoghi simbolo della Resistenza, analizzando casi di città, di spazi extraurbani e dei siti fatti oggetto di rappresaglie alla popolazione civile, senza dimenticare le tracce e i percorsi della Resistenza, con la presentazione del Progetto europeo “La Memoria delle Alpi”.
La memoria “fragile” è parte di un discorso più ampio di patrimonio culturale del Novecento. Il concetto di patrimonio compreso quello moderno ha come suo elemento centrale il diritto di tutela in base allo scorrere del tempo <1. Il tema della autenticità è ancora più complesso e delicato nel caso di opere di architettura moderna <2. L’innesco di una riflessione più ampia rispetto a cosa conservare tra le architetture del XX secolo, è volta a far emergere l’importanza di una ricognizione più estesa del moderno, anche in un quadro di revisione di criteri di selezione che per ora sono imperniati quasi esclusivamente sul primato dell’artista e dell’opera <3.
2.1 Campi di concentramento
2.1.1 Specificità e temi per la conservazione dei principali casi italiani
La constatazione relativa alla scarsa qualità urbana ed edilizia della seconda metà del Novecento suggerisce un giudizio negativo intorno a modelli come le residenze nelle periferie, gli edifici della produzione e del terziario. L’estensione di questo giudizio negativo all’intera produzione del Novecento rischia di legittimare un processo indiscriminato di sostituzione dei manufatti che espone alla cancellazione valori di testimonianza storica non più riproducibili <4. Si tratta di praticare scelte consapevoli guidate da criteri di riconoscibilità delle testimonianze che in vario grado, da semplici documenti ai capolavori, e a differenti scale, dal singolo manufatto al territorio, esprimono valori culturali che la società di oggi intende tramandare alle generazioni future.
Per procedere in questo itinerario è necessario definire gli strumenti metodologici indispensabili per una lettura di opere e progetti nel loro contesto attuale e storico che consenta di indirizzare le scelte di riqualificazione. La storia dell’architettura fornisce gli strumenti per individuare le qualità degli esiti progettuali e guidare l’intervento di conservazione; tuttavia non si deve dimenticare che la storia dell’architettura è prodotto di ideologie, di mode culturali, di condizionamenti economici e sociali.
[NOTE]
1 Il riferimento è alla teoria dei valori di Alois Riegl; Kenneth Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1982; Sandro Scarocchia, L’autonomia della tutela in Riegl e Brandi, in Bernhard Kohlenbach, Sandro Scarocchia, Rossana Spelta, La tutela come revisione dei valori culturali: esperienze attuali di restauro architettonico in Italia e nella Repubblica Federale Tedesca, Atti del convegno, Colonia, 13-15 marzo 1987, Cluva Venezia 1991; Sandro Scarrocchia, Alois Riegl teoria e prassi della conservazione dei monumenti, Clueb, Bologna 1995.
2 Ibidem. Si pensi, ad esempio, al caso del memoriale italiano ad Auschwitz, precedentemente trattato, in cui è confermata la tendenza a dover conservare manufatti architettonici moderni pensati in termini di caducità e di brevità e programmaticamente sperimentali nell’uso dei materiali e delle tecnologie.
3 Ci si potrebbe, infatti, chiedere se il memoriale italiano non fosse stato opera dei BBPR, chissà se il dibattito intorno alla sua conservazione avrebbe avuto una tale eco nel mondo del restauro e della letteratura critica dedicata. Maria Luisa Barelli, Caratteri di fragilità dell’architettura moderna. Gli edifici industriali, in Maria Luisa Barelli, Tecla Livi (a cura di), La salvaguardia del patrimonio architettonico del XX secolo. Problemi, prospettive, strategie, Atti del Convegno Internazionale, 26-27 novembre 1998, Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, Edizioni Lybra Immagini, Milano 2000, pp. 107-109.
4 Guido Montanari, Cosa conservare dell’architettura contemporanea?, in Guido Callegari, Guido Montanari (a cura di), Progettare il costruito. Cultura e tecnica per il recupero del patrimonio architettonico del XX secolo, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 29-35.
Maria Vittoria Giacomini, Memorie fragili da conservare: testimonianze dell’Olocausto e della Resistenza in Italia, Tesi di dottorato, Politecnico di Torino, 2012

Campo di internamento di Ferramonti, in un’immagine d’epoca del 1942. Carlo Spartaco Capogreco, 2004. – Fonte: Maria Vittoria Giacomini, Op. cit.

L’uso pubblico, a volte strumentale, del concetto di lager come sinonimo universale di “campo di concentramento”, anche a causa di una produzione memorialistica, pubblicistica, letteraria e cinematografica, ha contribuito a creare un immaginario collettivo condiviso di tale rappresentazione, il lager, appunto. Il lager diventa un paradigma con cui confrontarsi ogni qualvolta lo storico cerca di comprendere un “universo concentrazionario” che non sia quello nazionalsocialista. <5
Esaminando le forme di internamento, ci si trova di fronte ad un problema interpretativo.
Non per tutti i contesti in cui furono istituiti dei “campi di concentramento” si può parlare di un sistema concentrazionario. Ciò è tale quando esso costituisce appunto un «universo», come spiegava David Rousset, ossia un «mondo a parte» con delle proprie leggi. <6 Ma questa considerazione non esclude che possano esistere differenti sistemi concentrazionari che non siano come quelli nazisti o comunisti, dove l’istituto dell’internamento è usato quale forma coercitiva del terrore, della violenza, dello sfruttamento del lavoro di tipo schiavistico, fino alla macchina dello sterminio “industriale” di esseri umani.
La storiografia ha sempre puntualizzato che, per quanto riguarda il regime nazionalsocialista, sia più corretto parlare di sistema concentrazionario nazista, intendendo con esso il sistema dei campi di concentramento presenti sul territorio tedesco, senza includere i “centri di sterminio” delle SS situati nella Polonia occupata che di fatto erano chiamati SK, Sonderkommandos: la loro funzione era quella appunto dell’eliminazione di massa di esseri umani. Come ebbe a dire Raul Hilberg: «mai, in tutta la storia dell’umanità, si era ucciso a catena. Il centro di sterminio, […] non aveva alcun prototipo, nessun predecessore amministrativo». <7
È importante distinguere concettualmente il lager, inteso appunto come sistema concentrazionario nazista, dal Vernichtungslager, il “campo di sterminio”, dal Gulag sovietico e dal “campo fascista” onde evitare l’errore metodologico di descrivere la “formacampo” solo in quanto struttura fisica, senza passare per l’analisi della stessa nel suo contesto storico-politico e culturale. <8
Per una maggiore chiarezza bisognerebbe prestare attenzione alle dovute differenze, funzioni, origini e similitudini. Inoltre, con una certa ascrizione simbolica e totalizzante del “campo di concentramento” assegnato ad Auschwitz, si è reso di fatto ambiguo e incompleto l’utilizzo generalizzato dell’espressione lager o “campo di concentramento”.
Per questa ragione, è necessario fornire delle linee di demarcazione concettuali, utili alla comparazione di differenti sistemi concentrazionari e, attraverso esse, liberarsi della “analogia con il nazismo” che rischia di banalizzare altre fenomenologie di concentramento quando comparate soltanto in relazione alla radicalità, alla brutalità ed alla mortalità di Auschwitz. <9
Va ulteriormente aggiunto che, come ha sottolineato Marcello Flores, «proprio la discussione, anche teorica e metodologica, sul totalitarismo, che ha originato una vastissima letteratura e continua ancora, ha dimenticato un po’ il campo come elemento di riflessione centrale». <10 Già a partire dai primi anni ’80, Andrzej J. Kamiński, in uno dei primi studi comparativi sui campi di concentramento, si lamentava della mancanza di una completa bibliografia generale su tale tema. <11
Marcello Flores ha più volte ricordato che il campo di concentramento è stato centrale nella riflessione di Hannah Arendt, tanto da portarla a riconoscere, appunto, che «il campo è la rivelazione piena del fenomeno totalitario». <12
Una prima considerazione generale va fatta: un istituto come quello del “campo di concentramento” in sistemi totalitari, <13 acquisisce una funzione di strumento politico permanente con la «pretesa di dominare l’uomo». <14 Cosa ben diversa è quando esso viene utilizzato, dalle democrazie, come provvedimento straordinario e temporaneo in tempo di guerra. <15 «L’istituzione anche di un solo campo di concentramento in un paese», spiega Kamiński nel suo importante libro, “I campi di concentramento dal 1896 a oggi”, «la comparsa di pratiche tipiche di un Lager e contrarie al diritto, dimostrano già che in quel paese il sistema dello Stato di diritto è malato, e si avvia a diventare un sistema statale concentrazionario». <16
Le ricerche più recenti sul lager nazista hanno posto al centro dell’analisi il sistema concentrazionario nazista come risultato della politica dei quadri dirigenti delle SS, i veri protagonisti del sistema, piuttosto che focalizzarsi sugli internati. <17 A tal proposito, Enzo Collotti ha ricordato che: “[…] i campi di concentramento non furono il risultato di eccessi del sistema; non furono istituzioni di emergenza ma parti organiche, componenti normali del sistema. La loro stessa esistenza non doveva servire a esercitare una funzione punitiva, in esecuzione di atti giudiziari; vi finirono anche persone condannate dall’autorità giudiziaria, ma generalmente vi si finiva dentro per atti dell’autorità esecutiva, di polizia o delle SS. E una volta che si fosse capitati nel KZ si era sottratti a qualsiasi controllo o appello a opera dell’autorità giudiziaria. Il tentativo di una parte almeno della magistratura di salvaguardare i diritti degli internati […] furono prontamente respinti dalle SS e dai corpi di polizia unificati sotto il comando di Himmler. Strumento terroristico, per la prevenzione contro potenziali avversari del regime, o anche semplicemente di intimidazione, esso servì a reprimere comportamenti potenzialmente difformi o devianti più che a punire responsabili di concreti atti di ostilità contro le istituzioni del regime nazista”. <18
D’altra parte bisogna sottolineare che attraverso una “lagerizzazione” della società, così come la definisce Kamiński, ovvero un sistema politico-statale che usa nel proprio paese i campi di concentramento come strumento di persecuzione e terrore, i campi rappresentano un mezzo generale per privare di diritti tutti i cittadini, in virtù della possibilità che tutti i cittadini possano essere inviati in un lager in qualsiasi momento. Se prendiamo in considerazione il lager come strumento di privazione dei diritti fondamentali, come pratica che di fatto possa rendere ogni cittadino un “non-cittadino”, un prigioniero, allora esso diventa una categoria di analisi piuttosto efficace che va oltre la mera descrizione interna dei funzionamenti e dei meccanismi attraverso i quali si mettono in azione le privazioni dei diritti inviolabili. In questo modo permette di superare anche il limite imposto dalla “unicità di Auschwitz” in termini di comparazione tra i diversi sistemi concentrazionari. <19 Si presenta una prospettiva che considera «la “forma campo” come modello paradigmatico di uno spazio politico che si apre quando lo stato d’eccezione diventa la regola». <20
Alla luce di queste considerazioni generali, si può osservare come il concetto di lager, eletto a categoria di “forma campo”, possa diventare uno strumento interpretativo che permetterebbe un’analisi dei diversi sistemi concentrazionari. Bisogna tuttavia evitare di incorrere nel rischio di confrontare la “struttura campo” come soltanto descrizione dello spazio fisico chiuso e circoscritto. Essa risulta, in verità, differenziata e con funzioni distinte nei diversi contesti storico-geopolitici. <21 Se si assume il lager come paradigma di privazione di diritti, messa in atto amministrativamente con l’utilizzo di variegate strutture di isolamento o segregazione, violenza, terrore e sfruttamento del lavoro in condizioni di schiavitù, è possibile analizzare le differenti peculiarità che caratterizzano gli universi concentrazionari, intesi come sistemi di internamento retti e disciplinati da regolamenti specifici. Come sostengono Joël Kotek e Pierre Rigoulot, autori del volume Il secolo dei campi, «ciò che conta ai fini della definizione di “campo” è la condizione di civili “concentrati” – vale a dire raggruppati in un luogo chiuso – per decisione amministrativa, civile o militare che sia». <22
A partire da questa definizione, allora, si può studiare il caso italiano dei campi di concentramento fascisti come parte di quel sistema di persecuzione, segregazione e privazione delle libertà che è stato di fatto definito “internamento civile nell’Italia fascista”. <23 A maggior ragione si possono trarre alcune riflessioni in relazione alla singolarità dell’arco temporale delle “contingenze belliche” del regime monarchico-fascista (giugno 1940-settembre 1943). <24 Ciò permette di contestualizzare la scelta delle autorità del Ministero dell’Interno di denominare “campo di concentramento” i siti selezionati sul territorio italiano nei quali istituire le strutture predisposte all’internamento delle diverse categorie di civili, perseguitate e considerate pericolose, nemiche e indesiderabili dal regime mussoliniano. <25
2. Come collocare il caso italiano dei campi di concentramento fascisti
Per una collocazione dei campi di concentramento per civili in un discorso di analisi e interpretazione del sistema concentrazionario fascista, <26 attivo nel periodo bellico e delimitato fino all’8 settembre 1943, nonché per differenziarlo dal sistema dei campi provinciali della Repubblica di Salò, <27 è utile ripercorrere brevemente la storia dei campi di concentramento sin dalle origini coloniali. Saranno definite le tipologie, le funzioni e le caratteristiche, in modo tale da cogliere il fenomeno dell’internamento civile fascista e il significato che tale sistema assegnò ai propri “campi di concentramento”. In questa sede, ci limiteremo alla descrizione dei campi di concentramento come spazio di repressione politica dei diritti e come strutture fisiche di segregazione ed esclusione di soggetti dalla vita civile. <28
Benché il campo di concentramento sia diventato un elemento negativo e caratterizzante della modernità del Novecento, la sua origine non deve essere ricercata nei sistemi nazisti del lager o in quelli del gulag sovietico. <29 Questo vale anche per la loro diffusione nel corso del primo conflitto mondiale, allorquando furono realizzati i campi di concentramento. Essi servirono a recludere, tra i prigionieri di guerra, i civili nemici residenti sui territori dei paesi belligeranti. <30 La creazione dei campi di concentramento per civili nasce nei territori coloniali d’oltreoceano, primo fra tutti quello dell’isola di Cuba occupata dagli spagnoli, territorio impegnato in una lotta di liberazione nel 1896. A Cuba fu per la prima volta utilizzato il termine “concentramento” che nella sua forma spagnola originaria è reconcentración, dunque sarebbe più corretto parlare di “riconcentramento”. <31 Di fatto fu il comandante supremo dell’esercito spagnolo, Martínez Campos, a scriverlo in un messaggio riservato diretto al capo del governo della corona spagnola, all’indomani della sconfitta militare avvenuta il 13 luglio 1895 contro gli insorti cubani. Egli, avanzando l’ipotesi di impiegare metodi più radicali, propose di “riconcentrare” «le famiglie che abitano in campagna in piccoli villaggi». <32 Questa prospettiva determinò quella che si può asserire come la «prima operazione di massiccio concentramento di una categoria di civili in uno spazio limitato e sorvegliato, se non addirittura chiuso». <33
Di importanza cruciale, per la simbologia che ne derivò, fu l’impiego del filo spinato fatto dagli inglesi nei territori occupati del Sudafrica nel 1900, per “recintare” i campi dove furono concentrati e imprigionati i civili boeri insieme alle loro famiglie. <34 Per la prima volta, il filo spinato fu usato non più per “proteggere” il bestiame ma per delimitare lo spazio di segregazione di esseri umani. Divenne il simbolo generalizzato dei campi di concentramento per la forza simbolica ed evocativa di tale uso: «una gestione totalitaria dello spazio». <35
[…] Come ha più volte ricordato Capogreco nel suo I campi del duce, l’assenza del filo spinato e di altri elementi «archetipici» del KZ nelle strutture fisiche dei campi italiani è stata, tra le altre, una delle cause che hanno portato all’oblio e alla dimenticanza i “campi fascisti”. <38 La loro memoria storica è rimasta per decenni all’oscuro, sia della storiografia “accademica” che della memoria pubblica. <39
Arrivati fin qui, si possono fare delle considerazioni sul “campo di concentramento” ponendo attenzione, per prima cosa, alla differenza sostanziale tra campo e prigione. A seguire, si prenderanno in esame le diverse tipologie di campi storicamente determinatesi in relazione alla loro funzione e alla loro struttura materiale. <40
[…] Come collocare, in virtù di quanto appreso, i campi del duce? <49 Da una parte si ha la possibilità di utilizzare il “concetto-lager” come categoria di “forma campo”, ovvero spazio di privazione di diritti con conseguente segregazione dei soggetti dalla società civile. <50 Pertanto, in questa ottica, si può certamente sostenere che anche il “campo fascista” appaia come un luogo di sospensione dei diritti fondamentali e si presti ad essere un sito in cui il recluso acquisisce lo status di internato “concentrato in un campo”. <51
All’interno di questo sistema concentrazionario, gestito e amministrato dal Ministero dell’Interno del regime monarchico-fascista, categorie differenti di soggetti civili vengono considerate pericolose o sospette per motivi razziali, politici o perché nemiche dello stato fascista. Nel caso particolare delle “contingenze belliche” del secondo conflitto mondiale, tali categorie possono essere perseguitate, arrestate e internate in “campi di concentramento” per via amministrativa senza possibilità di fare ricorso in nessun tribunale. <52 È il regime autoritario che stabilisce arbitrariamente, rifacendosi alle sue basi ideologiche, politiche e razziali, chi sia “pericoloso o sospetto”, “nemico” o “indesiderabile”. L’internamento nel campo comporta l’allontanamento dalla dimora abituale, la separazione dalla famiglia e la perdita del lavoro. A tutto questo va aggiunta la segregazione in una struttura chiusa e sorvegliata in condizioni di vita precaria, collettiva e di promiscuità. La libertà di movimento e di comunicazione con l’esterno viene ridotta al minimo indispensabile, a causa delle restrizioni imposte dai regolamenti prescritti dal Ministero dell’Interno. <53
Un’ulteriore possibilità di analisi è quella di considerare la struttura fisica del “campo”. Se si fa riferimento alle ricerche sui campi fascisti pioneristicamente condotte da Capogreco, si può dedurre che ciò che il regime monarchico-fascista denominò “campo di concentramento”, fu anzitutto un’area circoscritta e delimitata. <54 All’interno di questo “spazio”, entro un “limite di confino” in strutture preesistenti (edifici pubblici o privati, fabbriche abbandonate, magazzini, conventi, monasteri, ecc.) o costruite ex novo (un terreno con baracche, tende, ecc.), venivano segregate categorie diverse di internati civili. Si tratta quasi sempre di campi mono-genere, ossia maschili o femminili e raramente misti, sottoposte alla vigilanza dei carabinieri o degli agenti di pubblica sicurezza e, in pochi casi, della milizia fascista. <55 Per questo tipo di “strutture-campo” veniva designato un “direttore del campo” che aveva il compito di “impiantare” il registro e i fascicoli personali degli internati. <56
Le prescrizioni inviate tramite circolare ai prefetti del Regno l’8 giugno 1940 servivano per impartire le disposizioni circa i campi di concentramento «perché non vi siano incertezze e disparità di trattamento». <57
Questo documento, composto da tredici punti essenziali, rappresentò le linee guida per l’allestimento del campo. Si faceva riferimento sia ai compiti del «funzionario di P. S. e dove non vi è funzionario il Podestà» che doveva provvedere a «stabilire il perimetro entro il quale gli internati possono circolare» e imporre loro «le prescrizioni di non allontanarsi da detto perimetro», sia a tutta una serie di divieti e obblighi degli internati, tra i quali citiamo quello di «imporre agli internati un orario di divieto, salvo giustificati motivi o speciali autorizzazioni di uscire prima dell’alba e di rincasare dopo l’Ave Maria»; di fare «tre appelli giornalieri agli internati, al mattino, a mezzogiorno ed alla sera» e così ancora sul rispetto della buona condotta, sul sussidio giornaliero, sui trasferimenti e sul trattamento delle cure mediche. <58 A queste prescrizioni ne seguirono altre inviate il 25 giugno 1940 nelle quali si rafforzarono i divieti per gli internati che non potevano «tenere presso di loro passaporti o documenti equipollenti». Allo stesso modo, non gli era consentito possedere denaro che superasse le cento lire, gioielli e titoli. Inoltre, gli internati non dovevano occuparsi di politica e potevano al massimo leggere giornali in lingua italiana. La radio era assolutamente bandita. La convivenza dei famigliari con gli internati nei campi non era consentita. <59 La maggior parte dei comuni scelti per istituire i campi fascisti furono piccole località del centro-sud Italia, isolate dalle grandi vie di comunicazione. La regione Abruzzo ebbe il maggior numero di “campi di concentramento”. <60
La difficoltà di interpretazione e significazione del contesto italiano dei campi fascisti deriva dal fatto che il Ministero dell’Interno adoperò ufficialmente l’espressione “campo di concentramento” per differenziarla dall’altra forma di internamento civile, quella che fu chiamata “località di internamento libero”. <61 Con questa espressione si rimanda ai “comuni di internamento”, per la maggior parte ubicati nelle regioni del centro-sud Italia, nei quali gli internati dimorarono in condizioni simili al “domicilio coatto”, appunto “liberi dai campi chiusi” ma obbligati ad una residenza domiciliare forzata. Attraverso lo studio di questa tipologia di repressione, emerge che si tratta di una forma più leggera di “internamento”, riservata agli “elementi” considerati meno “pericolosi”. <62 Come spiega Klaus Voigt «ciascun luogo doveva ospitare al massimo i componenti di uno stesso nucleo famigliare» e spesso l’amministrazione comunale era responsabile del reperimento degli alloggi da mettere a disposizione degli internati, anche se non raramente furono ospitati presso strutture alberghiere o alla meglio in edifici pubblici. Potevano muoversi all’interno di un determinato perimetro del territorio comunale con l’obbligo di recarsi alla stazione dei carabinieri in orari prestabiliti per firmare la loro presenza. <63
In alcuni casi si osserva l’esistenza contemporanea, nella medesima località, di entrambe le realtà di “confino”: quella del campo di concentramento e quella dell’internamento libero. <64 Sarebbe consigliabile, in virtù della contestualizzazione storica, mantenere tale distinzione di denominazione.
Talvolta i campi fascisti furono di fatto interpretati come “campi di internamento”, in relazione alla loro funzione. Nondimeno, l’assenza di tale dicitura nei documenti ufficiali, così come si rileva dalla documentazione archivistica, potrebbe portare a confondere la tipologia dei luoghi scelti dove furono istituiti “campi di concentramento” oppure “località internamento libero”. <65 A questo proposito, esiste un recente progetto di documentazione on line che si propone di fornire una mappatura complessiva dei “campi fascisti”. I risultati hanno evidenziato come in alcuni dei comuni inizialmente considerati “località d’internamento”, in linea con quanto si desume dall’analisi di nuove fonti archivistiche e memorialistiche, si possa constatare la presenza di “campi di concentramento”. <66
Il sistema concentrazionario monarchico-fascista del periodo bellico 1940-1943 può essere inquadrato nel fenomeno dell’internamento di civili che, come abbiamo visto, fu messo in pratica attraverso l’istituzione di due forme di privazione dei diritti: la segregazione nei “campi di concentramento”, oppure la residenza obbligata nelle “località di internamento libero”. <67
[…] L’arbitrarietà del provvedimento di internamento civile, che veniva messo in atto come semplice disposizione amministrativa, ha fatto sì che mancasse una legislazione codificata con la conseguente precarietà delle fonti relative ai campi di concentramento fascisti. Inoltre, trattandosi del periodo bellico, tutto ciò apparve come una prassi normale dei paesi belligeranti. Ma la recente storiografia ha dimostrato che «la tipologia degli internati contraddice questa tesi». <70 A tal proposito Giuseppe Perri aggiunge che il dibattito storiografico odierno ha «chiarito che l’internamento di guerra nel secondo conflitto mondiale, in Francia, Gran Bretagna, Usa e Italia, più che essere fondato su esigenze di sicurezza era la prosecuzione di politiche e tendenze sociali di discriminazione e segregazione di minoranze ben individuate». <71
Un’ultima considerazione sull’analisi della “forma-campo” di un possibile universo concentrazionario fascista-monarchico – ne esisterebbe anche uno fascista della Rsi, ampiamente studiato da Matteo Stefanori – può essere quella di mettere al centro della discussione il “campo di concentramento fascista” come spazio delle pratiche della politica razziale e di repressione del regime: un laboratorio del razzismo fascista a livello locale in relazione alla rete dei campi allestiti sulla penisola e gestiti centralmente dal Ministero dell’Interno. Una comparazione con il lager nazista dal punto di vista della radicalità, della violenza, del terrore, e della mortalità, rischierebbe infatti una scontata banalizzazione del caso italiano dei campi fascisti. <72
[NOTE] 5 Cfr. A. J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., pp. 13-32; Ivi, p. 14; J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, cit., p. 8; L. Peloso, L’esperienza dell’estremo. Vita e pensiero nei campi di concentramento, ombre corte, Verona 2017; E. Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, ombre corte, Verona 2006; V. Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano 2012; S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna (a cura di), Paradigma lager: vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, CLUEB, Bologna 2010; D. Rousset, L’universo concentrazionario, Baldini&Castoldi, Milano 1997.
6 Cfr. C. S. Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2006, p. 50, note 157 e 158.
7 R. Hilberg, La distruzione degli ebrei in Europa, cit., p. 975. Cfr. W. Sofsky, L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Laterza, Roma-Bari, 2. Ed., 2008; E. Collotti, Il sistema concentrazionario nella Germania nazista, in Lager, totalitarismo, modernità. Identità e storia dell’universo concentrazionario, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 71; E. Traverso, La violenza nazista, Il Mulino, Bologna 2002; K. Orth, Das System der nationalsozialistischen Konzentrazionslager, cit.; J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, cit., p. 11; A. J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., p. 35; E. Kogon, Der SS-Staat. Das System der deutschen Konzentrationslager, Kyndler Verlag, München, 1974.
8 Gulag è l’acronimo di “Glavnoe upravlenie ispravitelno-trudovych lagerej”, Direzione generale dei campi di lavoro correttivi. Cfr. A. Solženicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, ultima Ed., Milano 2017; A. J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., p. 15; C. S. Capogreco, I campi del duce, cit.; C. Di Sante, Origine e sviluppo del sistema concentrazionario fascista, in O. Lucchi (a cura di), Dall’internamento allalibertà. Il campo di concentramento di Colfiorito, Atti del convegno di studi Foligno, palazzo Trinci, 4 novembre 2003, Editoriale Umbra, Foligno, 2004, pp. 12-23; Id. (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), Franco Angeli, Milano 2001; F. Rahola, La forma campo. Appunti per una genealogia dei luoghi di internamento contemporanei, “Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile”, n. 5-6, 2006, pp. 18-31.
9 Cfr. D. Bidussa, Il mito del bravo italiano. Persistenze, caratteri e vizi di un paese antico/moderno, dalle leggi razziali all’italiano del Duemila, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 75; C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., p. 12; G. Gozzini, Lager e gulag: quale comparazione? in Lager, totalitarismo, modernità. Identità e storia dell’universo concentrazionario, cit., pp. 182-217; A. J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit.; J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, cit.; M. Sarfatti, Il volume 1938. Le leggi contro gli ebrei e alcune considerazioni sulla normativa persecutoria, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa. Atti del convegno nel cinquantennio delle leggi razziali (Roma, 17-18 ottobre 1988), Camera dei deputati, Roma 1989, p. 53.
10 M. Flores, Il dibattito storiografico sui campi, cit., p. 6.
11 Cfr. A. J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., p. 20; Ivi, pp. 13-14.
12 M. Flores, Il dibattito storiografico sui campi, cit., p. 7.
13 Cfr. L. Paggi, N. Tranfaglia, Le politiche dell’esclusione e della reclusione nel ’900. Dall’esperienza del campo ai nuovi razzismi degli anni ’80 e ’90, in A. Eblasi (a cura di), La tipologia storica del Campo. Un’analisi comparata, cit., p. 64.
14 H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., pp. 599-600.
15 Cfr. M. Flores, Il dibattito storiografico sui campi, cit., p. 11.
16 A. J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., p. 274.
17 Cfr. E. Collotti, Il sistema concentrazionario nella Germania nazista, cit., p. 78 e nota 31; K. Orth, Das System der nationalsozialistischen Konzentrazionslager, cit.
18 E. Collotti, Il sistema concentrazionario nella Germania nazista, cit., p. 83 e nota 38.
19 Cfr. A. J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., p. 267; Ivi, p. 265; D. Bloxham, Lo sterminio degli ebrei. Un genocidio, Einaudi, Torino 2010, pp. 307-313; E. Traverso, Il totalitarismo. Uso e abusi di un concetto, in Lager, totalitarismo, modernità. Identità e storia dell’universo concentrazionario, cit., pp. 171-181; G. Gozzini, Lager e gulag: quale comparazione?, cit., pp. 182-217; E. Traverso, La violenza nazista, cit.; Id., La singolarità storica di Auschwitz: problemi e derive di un dibattito, in M. Flores (a cura di), Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 303-324; M. R. Marrus, L’olocausto nella storia, Il Mulino, Bologna 1994; H.-U. Wehler, Le mani sulla storia. Germania, riscrivere il passato?, Ponte delle Grazie, Firenze 1989.
20 A. Ciervo, Oltre Auschwitz: il campo tra biopolitica e diritto. Uno sguardo al presente, in N. Mattucci, C. Santoni (a cura di), Esclusione, identità e differenza. Riflessioni su diritti e alterità, CLUEB, Bologna 2010, p. 107; cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, pp. 185-186; G. Agamben, Che cos’è un campo, in Id., Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 36-37. Riflettendo proprio su queste letture, Federico Rahola ha affrontato la genealogia dei luoghi di internamento contemporanei. Egli, prendendo a prestito la categoria concettuale della “forma-campo”, analizza quei “luoghi” che solitamente vengono definiti come emergency temporary locations oppure enfaticamente safe havens o più banalmente detti refugees temporary centres, e prova a leggere questi “campi” come spazi in cui viene confinata “l’umanità in eccedenza” in continuo movimento. Con queste riflessioni giunge a considerare “l’irriducibilità dei soggetti ai luoghi” e vede nella forma-campo un dispositivo che, nella forma più radicale, produce una condizione più genericamente nota come “campo di internamento”, categoria ampiamente indagata da Agamben come paradigma assoluto della sovranità moderna. Cfr. F. Rahola, La forma campo. Appunti per una genealogia dei luoghi di internamento contemporanei, “Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile”, n. 5-6, 2006, pp. 19-25. Id., Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, ombre corte, Verona 2003.
21 Si consideri per esempio il recente libro di A. Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento per civili jugoslavi 1941-1943, Nutrimenti, Roma 2008, dove si usa esplicitamente la parola “lager” per il riferimento all’immaginario “archetipico” che essa richiama. Così come F. Galluccio, I lager in Italia. La memoria sepolta nei duecento luoghi di deportazione fascisti, Nonluoghi libere edizioni, Belluno 2002; cfr. anche i libri più datati di A. Dal Pont, I lager di Mussolini. L’altra faccia del confino nei documenti della polizia fascista, La Pietra, Milano 1975; F. Folino, Ferramonti un lager di Mussolini. Gli internati durante la guerra, Edizioni Brenner, Cosenza 1985.
22 J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, cit., p. 15.
23 Cfr. C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia, cit.; C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., pp. 13-14.
24 Cfr. S. Carolini (a cura di), “Pericolosi nelle contingenze belliche”. Gli internati dal 1940 al 1943, ANPPIA, Roma 1987; K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Vol. 2, La Nuova Italia, Firenze 1996.
25 I campi allestiti nei territori militarmente occupati della Jugoslavia furono gestiti dal Regio Esercito che ricorse all’internamento non solo dei prigionieri di guerra ma anche dei civili. Capogreco lo definisce “internamento civile parallelo”. Cfr. C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., pp. 67-79; Si veda anche F. Goddi, Fronte Montenegro: occupazione italiana e giustizia militare (1941-1943), Leg, Gorizia 2016, pp. 172-186; sull’antislavismo fascista cfr. S. Bartolini, Fascismo antislavo. Il tentativo di “bonifica etnica” al confine nord orientale, I.S.R.Pt. Editore, Pistoia 2006. Per la politica di repressione antifascista e razziale del regime monarchico-fascista: Cfr. L. Violante, La repressione del dissenso politico nell’Italia liberale: stati d’assedio e giustizia militare, in «Rivista di storia contemporanea», 4, 1976, pp. 481-524; S. Carolini, Gli antifascisti italiani dal confino all’internamento 1940-1943, in C. Di Sante, I campi di concentramento in Italia, cit., pp. 113-133; G. Corso, L’ordine pubblico, Il Mulino, Bologna 1979; G. Antoniani Persichilli, Le misure di pubblica sicurezza. Dal domicilio coatto al confino di polizia, in «Temi ciociaria», V/4, 1978, pp. 107-121; Id., Ministero dell’interno: le origini del Casellario politico centrale, in Le riforme crispine, l’amministrazione statale, Giuffrè, Milano 1990; A. Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, Torino 1995; C. Poesio, Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime, Laterza, Roma-Bari 2011; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2007; M. Toscano, L’internamento degli ebrei italiani 1940-1943: tra contingenze belliche e politica razziale, in C. Di Sante, I campi di concentramento in Italia, cit., pp. 95-112; D. M. Smith, L’idea fascista della razza, in Italia Judaica. Gli ebrei nell’Italia unita 1870-1945, Atti del IV convegno internazionale Siena 12-16 giugno 1989, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi 26, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1993, pp. 350-357; L. Bravi, M. Bassoli, Il Porrajmos in Italia. La persecuzione di rom e sinti durante il fascismo, I libri di Emil, Bologna 2013.
26 Cfr. C. Di Sante, Origine e sviluppo del sistema concentrazionario fascista, cit., pp. 12-23; C. S. Capogreco, Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista. Una ricognizione tra storia e memoria, in Lager, totalitarismo, modernità. Identità e storia dell’universo concentrazionario, cit., pp. 218-237; Id., Per una storia dell’internamento civile nell’Italia fascista, in A. L. Carlotti (a cura di), Italia 1933-1945. Storia e memoria, Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 527-579.
27 Per il funzionamento dei campi provinciali della Rsi cfr. M. Stefanori, Ordinaria amministrazione. Gli ebrei e la Repubblica sociale italiana, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 51-85.
28 Cfr. J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, cit., p. 3.
29 Cfr. Ivi, p. 527; A. J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., p. 13; A. Becker, La genesi dei campi di concentramento, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. L. Sullam, E. Traverso, (a cura di), Storia della Shoah, Vol. I, Utet, Torino 2005, pp. 155-179; H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 2001; B. Bruneteau, Il secolo dei genocidi, Il Mulino, Bologna 2005.
30 Cfr. J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, cit., p. 13; E. Traverso, La violenza nazista, cit., pp. 104-107; G. Perri, Stato d’eccezione. L’internamento dei civili nel Secondo conflitto mondiale in Gran Bretagna, Francia, Usa e Italia. Uno studio comparato, ilmiolibro.it, 2013.
31 J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, p. 31.
32 Ivi, p. 32
33 Ivi, p. 31.
34 Cfr. Ivi, pp. 15, 51.
35 Nel 1874 J.-F. Glidden, colono dell’Illinois, ottiene il brevetto per il filo spinato. Cfr. O. Razac, Storia politica del filo spinato, ombre corte, Verona 2001, p. 12; Ivi, p. 43.
38 Cfr. C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., pp. 81-82; Id., Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista (1940-1943), La Giuntina, Firenze 1987, pp. 37-38; Id., Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista, cit., p. 234; E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 106-107; «sito-archetipo del Lager» come dice C. S. Capogreco, Il libro esemplare di un’autrice fantasma, in M. Eisenstein, L’internata numero 6, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2014, pp. LIV. Nella prima edizione del libro di M. Eisenstein, L’internata numero 6, Donatello De Luigi Editore, Roma 1994, nel sottotitolo, inverosimilmente, era scritto Donne fra i reticolati di un campo di concentramento, ma «poco corrispondente alla realtà, perché nel caso specifico, non vi erano reticolati di filo spinato», come ha sottolineato Capogreco nel suo saggio introduttivo alla terza edizione del libro; C. S. Capogreco, Il libro esemplare di un’autrice fantasma, cit., p. XV, nota. 2.
39 Cfr. C. S. Capogreco, Tra storiografia e coscienza civile. La memoria dei campi fascisti e i vent’anni che la sottrassero all’oblio, in “Mondo contemporaneo”, 2/2014, pp. 137-166.
40 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993.
49 La definizione è di Capogreco, titolo dell’omonimo saggio, Id., I campi del duce, cit.
50 Cfr. A. J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., p. 269.
51 Infatti, nella documentazione ufficiale, i campi fascisti vengono denominati esclusivamente con la dicitura “campo di concentramento” e mai “campi di internamento”. In alcuni casi troviamo “campo di concentramento per internati”, Cfr. G. Lorentini (a cura di), Documenti e storia del campo di concentramento di Casoli 1940-1944, http://www.campocasoli.org/documenti.
52 Cfr S. Carolini (a cura di), “Pericolosi nelle contingenze belliche”, cit.; C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., p. 51.
53 Cfr. L. Picciotto Fargion prefazione a C. S. Capogreco, Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo di internamento fascista (1940-1945), Giuntina, Firenze 1987, p. 13; P. Carucci, Confino, soggiorno obbligato, internamento: sviluppo della normativa, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia, cit., pp. 15-39; S. Carolini (a cura di), “Pericolosi nelle contingenze belliche”, cit.; C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., p. 61.
54 Si fa riferimento al periodo bellico tra il giugno del 1940 all’8 settembre 1943. Cfr. C. S. Capogreco, Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista, cit., p. 222.
55 Cfr. K. Voigt, Il rifugio precario, Vol. 2, cit., p. 60; M. Soldini, Fiori di campo. Storie di internamento femminile nell’Italia fascista (1940-1943), Tesi di Dottorato Ciclo XXVIII, Università degli studi di Macerata, A.A. 2017. In questo lavoro viene specificato che sono 7 i campi fascisti femminili; Alla lista viene aggiunto il campo di Solofra (provincia di Avellino). Campi misti sono parzialmente stati quelli di Civitella del Tronto, Civitella della Chiana, Boiano, Agnone e Tossicìa; C. S. Capogreco, Il libro esemplare di un’autrice fantasma, cit., pp. XXI; Id., I campi del duce, cit., pp. 123-135; Id., Ferramonti, cit.
56 Cfr. A. Osti Guerrazzi, Poliziotti. I direttori dei campi di concentramento italiani 1940-1943, Cooper, Roma 2004.
57 Prescrizioni inviate dal Ministero dell’Interno ai Prefetti: Prot. N° 442/12267 “Prescrizioni per i campi di concentramento e per le località d’internamento”, Roma, 8 giugno 1940, in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali Riservati, cat. Massime M4/16, b. 99.
58 Ibidem.
59 Prot. N° 442/14178 “Prescrizioni per i campi di concentramento e per le località d’internamento”, Roma, 25 giugno 1940, in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di P.S., AA.GG.RR., cat. Massime M/4, b. 102. È bene precisare che si tratta di regole generali che i direttori adattavano alle esigenze locali con la conseguenza di differenti condizioni di vita per gli internati; cfr. C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., pp. 123-135.
60 L’Abruzzo, che nel 1940 comprendeva anche il Molise, ha registrato la presenza di 19 campi su 48 mappati da Capogreco. Cfr. C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., pp. 205-225; C. Di Sante, I campi di concentramento in Abruzzo (1940-1944), in Id. (a cura di), I campi di concentramento in Italia, cit., pp. 177-206; G. Amodei, «L’Altro internato. Caratteri dell’internamento civile nell’Abruzzo fascista», Diacronie. Studi di Storia Contemporanea: il dossier: Davanti e dietro le sbarre: forme e rappresentazioni della carcerazione, N. (1) 2, 2010; N. Palombaro, Centinaia di oppositori ebrei, slavi e zingari finirono poi nei lager. Il fascismo organizzò in Italia ben 43 campi di internamento, in Patria Indipendente, n. 1, 2012, pp. 10-14.
61 Cfr. C. S. Capogreco, Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista, cit., p. 222.
62 Cfr. C. Di Sante, Origine e sviluppo del sistema concentrazionario fascista, cit., pp. 14-16; C. Poesio, Il confino fascista, cit.; P. Carucci, L’ordinamento del testo unico di polizia dopo l’approvazione del testo unico delle leggi di PS nel 1926, in «Rassegna degli Archivi di Stato», XXXVI, 1976; D. Fozzi, Tra prevenzione e repressione. Il domicilio coatto nell’Italia liberale, Carocci, Roma 2010 e si veda Id., Una «specialità italiana»: le colonie coatte nel Regno d’Italia, in M. Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell’Europa dell’Ottocento, introduzione di G. N. Modona, Carocci, Roma 2004, pp. 215-304; C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., p. 130; K. Voigt, Il rifugio precario, Vol. 2, cit., pp. 82-87; Id., L’internamento degli immigrati e dei profughi ebrei in Italia (1940-1943), in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa. Atti del convegno nel cinquantennio delle leggi razziali (Roma, 17-18 ottobre 1988), Camera dei deputati, Roma, 1989, p. 57; G. Orecchioni, I sassi e le ombre, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2006, pp. 113-120.
63 Cfr. K. Voigt, Il rifugio precario, Vol. 2, cit., pp. 83-85.
64 È il caso di Lanciano, provincia di Chieti in Abruzzo che, oltre ad un campo di concentramento, aveva sia “internati liberi” che “confinati politici antifascisti” tra cui alcuni nomi importanti dell’antifascismo, come Tristano Codignola, Enzo Enriquez Agnoletti e Aldo Oberdorfer, ma anche il “fascista dissidente” Aldo Finzi. Cfr. G. Orecchioni, I sassi e le ombre, cit., pp. 113-210; C. S. Capogreco, Il libro esemplare di un’autrice fantasma, cit., p. XXIX, nota 53.
65 Cfr. G. Antoniani Persichilli, Disposizioni normative e fonti archivistiche per lo studio dell’internamento in Italia (giugno 1940-luglio 1943), in «Rassegna degli Archivi di Stato», Roma 1978, pp. 77-96; G. Tosatti, Gli internati civili in Italia nella documentazione dell’Archivio centrale dello Stato, in Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, (atti del convegno, Torino, 2-4 novembre 1987), Franco Angeli, Milano 1989, pp. 35-50; P. Carucci, Confino, soggiorno obbligato, internamento: sviluppo della normativa, cit., S. Carolini (a cura di), “Pericolosi nelle contingenze belliche”, cit.
66 Cfr. C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., pp. 125-126. Il progetto on line sui campi fascisti, nel suo database relativo ai “campi di concentramento” presenti sul territorio italiano, conta 64 luoghi rispetto ai 48 mappati da Capogreco, cfr. http://www.campifascisti.it.
67 Cfr. C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., pp. 56-79. Sull’internamento libero cfr. A. Pizzuti, Vite di carta Storie di ebrei stranieri internati dal fascismo, Donzelli, Roma 2010; G. Perri, Il caso Lichtner. Gli ebrei stranieri, il fascismo e la guerra, Jaca Book, Milano 2010; P. Tagini, Le poche cose. Gli ebrei internati in Provincia di Vicenza, Cierre Edizioni, Verona 2006.
70 Cfr. S. Carolini, Gli antifascisti italiani dal confino all’internamento, cit., pp. 114-115.
71 G. Perri, Il caso Lichtner, cit., pp. 197-198; Id., Stato d’eccezione, cit., pp. 231-237.
72 Sui campi provinciali della Rsi cfr. M. Stefanori, Ordinaria amministrazione. Gli ebrei e la Repubblica sociale italiana, Laterza, Roma-Bari 2017. Si veda anche L. Peloso, L’esperienza dell’estremo, cit.
Giuseppe Lorentini, I campi di concentramento fascisti: tra storiografia e definizioniGiornale di Storia


Non esiste ad oggi una denominazione generalmente accettata dello sterminio nazista.
Il termine “Olocausto” definisce in origine un tipo di sacrificio, presente nella tradizione greca ed ebraica, nel quale ciò che si sacrifica viene completamente arso. La radice ‘olah ricorre in occasione dei sacrifici rituali tesi a sancire un rinnovo dell’alleanza tra il Dio di Israele e il proprio popolo.
Il termine era diventato di uso frequente nel linguaggio giornalistico britannico durante la seconda guerra mondiale, per descrivere in linea generale le gravi perdite umane militari e civili, e dal 1943 gli ambienti ebraici di lingua inglese lo utilizzarono per riferirsi allo sterminio degli Ebrei in corso nell’Europa continentale. Di conseguenza, dalla seconda metà del Novecento il termine è stato utilizzato per riferirsi al genocidio del popolo ebraico per mano nazista, soprattutto in ambienti anglosassoni nei quali rappresenta tuttora il termine più usato. Tuttavia l’uso di tale termine può risultare inappropriato e ingiurioso, associando l’uccisione di milioni di Ebrei a una “offerta a Dio”.
Da qualche decennio – in special modo nei paesi di tradizione non anglosassone – è invalso l’uso di utilizzare il termine ebraico “Sho’ah”, ritenuto più pertinente. Sho’ah (HaShoah o Shoah, in lingua ebraica האוש ), significa “desolazione, catastrofe, disastro”. Esso è certamente più neutro e meno connotato in senso religioso, anche se il lemma ricorre di frequente nel libro di Giobbe, in Isaia e in alcuni salmi. Esso venne usato per la prima volta nel 1940 dalla comunità ebraica in Palestina in riferimento alla distruzione degli ebrei polacchi; da allora, per estensione, definisce nella sua interezza il genocidio della popolazione ebraica d’Europa.
Il termine “Deportazione” rappresenta una valida alternativa. Esso è certamente più generico e non necessariamente applicabile al solo contesto della seconda guerra mondiale. Tuttavia appare indicato in quanto ricomprende tutto il ventaglio delle vittime dello sterminio nazista.
[…] Il passo ulteriore verso un’istituzionalizzazione della memoria della Sho’ah a livello internazionale sarebbe da collocarsi alla fine degli anni novanta, con il crollo del muro di Berlino e il superamento delle ideologie contrapposte della Guerra Fredda, che ha reso possibile delineare un giudizio comune di condanna dello sterminio che in precedenza non si era potuto avere. <5 Questo mutato atteggiamento ha condotto in poco più di dieci anni alla realizzazione o al profondo rinnovamento, in Europa, Israele e negli Stati Uniti, dei principali musei nazionali della Sho’ah, e all’istituzione internazionale di un unico Giorno della Memoria. <6
La svolta va tuttavia ricondotta a un quadro più ampio, quello d’un rinnovato interesse verso la memoria da parte della storiografia e delle istituzioni, la cui portata è stata riconosciuta a partire dalla metà degli anni ottanta.
Lo storico francese Jacques Revel rappresenta il carattere quasi ossessivo che ha assunto la memoria nelle società contemporanee: “è come se le nostre società fossero diventate delle imprese produttrici di memorie, che impiegano buona parte della loro narcisistica attività a riflettere sui mezzi per fissare la loro immagine, mentre sono ancora viventi”. <7 Egli opera una distinzione in tre forme di questo pervasivo processo di fissazione della memoria. La prima forma è quella della “commemorazione”: “noi commemoriamo tutto, e ciò è vero per quasi tutte le società, almeno per le società occidentali: passiamo il nostro tempo a ricercare delle occasioni per ricordare ciò che è stato il nostro passato”. <8 Il secondo aspetto è dato da un forte impulso alla cosiddetta “patrimonializzazione”, ovvero una tendenza a una conservazione acritica che da una parte si limita alla mera catalogazione e alla custodia dei resti del passato, dall’altra congloba questi ultimi con le tracce del presente, in una dimensione omnicomprensiva che non prevede più un giudizio di valore. Lo storico francese prosegue infatti affermando: “ciò che è accaduto negli ultimi dieci o quindici anni è che il patrimonio è stato fatto oggetto di una definizione collettiva, […] si potrebbe riassumere dicendo che si tratta di un progetto museografico: noi raccogliamo, archiviamo, classifichiamo tutte le tracce, comprese le tracce che per lungo tempo sono state considerate delle tracce inerti o senza importanza per la storia. Archiviamo nell’idea che alla fine ne rimarrà pur sempre qualcosa”. <9 Il terzo punto sottolineato è la spinta all’archiviazione totale delle memorie personali, oltre che delle tracce materiali. [Si conservano] le memorie dal basso, le memorie degli anonimi, di coloro che normalmente non lasciano tracce nella storia […]. Ciò ci induce nella società di oggi ad allargare il campo della memoria e a conservare la testimonianza degli attori non in quanto partecipanti a una impresa generale, ma proprio, al contrario, per ciò che essi sono di particolare”. <10
Le considerazioni di Revel, in merito a commemorazione, patrimonializzazione e sovrapproduzione del ricordo, descrivono un mutamento di approccio ai temi della memoria maturato, come si è detto, nel corso delle ultime due decadi del XX secolo, non a caso con stretto anticipo rispetto a una fase di cambiamento epocale del quadro geopolitico internazionale. Si tratta di un processo articolato, che ha investito in primo luogo i rapporti con la storiografia e ha condotto la memoria a essere oggetto di studio dei più disparati campi d’indagine. <11 In questa sede non vengono ulteriormente approfondite tali questioni, tuttavia interessa sottolineare due aspetti significativi.
1. Il primo aspetto riguarda il fatto che la memoria collettiva ha perso il carattere di univocità che l’aveva contraddistinta nei secoli passati. Essa appare piuttosto come il risultato di un processo di aggregazione di memorie concorrenti, nel quale ogni atto di commemorazione ovvero ogni episodio di costruzione di segni tangibili costituisce una forma di condizionamento.
Maurice Halbwachs analizza negli anni venti del Novecento gli aspetti sociologici dei processi di elaborazione di memoria, in continuità con le teorie elaborate all’inizio del secolo dal suo maestro Émile Durkheim, sui fatti sociali e sull’esistenza di una coscienza collettiva. Halbwachs sostiene che la memoria è un fenomeno di natura sociale, asserendo che la memoria di un gruppo non coincide con la somma delle memorie individuali di coloro che lo compongono. <12 La riflessione prosegue oltre, fino al rovesciamento sostanziale dell’interpretazione dei processi costitutivi della memoria individuale, la quale da soggetto diviene oggetto: subisce il condizionamento del gruppo sociale di appartenenza, che assume il ruolo principale nella formazione dei ricordi rispetto all’esperienza personale. Questo ribaltamento va letto in opposizione alle linee di pensiero elaborate da alcuni suoi contemporanei, in particolare da Henry-Louis Bergson. <13 La memoria non è, come sostiene Bergson, una peculiarità psichica del singolo. Non è un ricordo puro che emerge naturalmente dal mare dell’inconscio, né un archivio polveroso in cui si può ritrovare con la dovuta pazienza tutto quanto vi è stato catalogato. Al contrario, secondo Halbwachs, l’esperienza di memoria del singolo sarebbe conformata da quella del gruppo. Tale azione andrebbe oltre il semplice condizionamento: esistono “quadri sociali” che consentono la conservazione, lo sviluppo e l’esplicitazione della memoria dei singoli e che costituiscono l’orizzonte di senso al quale la memoria individuale fa riferimento. <14 Ora poiché l’individuo appartiene a più raggruppamenti, che lo rendono parte di altrettanti quadri sociali, la memoria personale si trova all’intersezione dei portati di memoria condivisi dai diversi gruppi di cui fa parte. La memoria individuale è pertanto non solo condizionata da quelle collettive, ma ne sarebbe un prodotto: nel nostro pensiero si incrociano in ogni momento o in ciascun periodo del suo scorrere molte correnti che vanno da una coscienza all’altra, delle quali esso è il luogo di incontro. Senza dubbio, l’apparente continuità di ciò che si chiama la nostra vita interiore deriva dal fatto che essa segue per qualche tempo il corso di una di queste correnti, il corso di un pensiero che si sviluppa in noi e contemporaneamente negli altri. <15 La memoria dunque dipende fortemente dal contesto sociale ma, bisogna aggiungere, non è una costruzione stabile; si tratta piuttosto del risultato di un lavoro incessante operato dalla collettività.
[NOTE]
5. J. Kroh, Holocaust transnational. Zur Institutionalisierung des Holokaust-Gedenkens, in “Blätter für deutsche und internazionale Politik”, 2005, n. 6, pp. 741-750.
6. Nel 1993 si inaugura a Washington lo United States Holocaust Memorial Museum; nel 2000 la Holocaust Exhibition dell’Imperial War Museum a Londra; nel 2005 il Denkmal für ermordeten Juden Europas a Berlino, la mostra storica permanente del Mémorial de la Shoah a Parigi e la sede completamente rinnovata dello Yad Vashem a Gerusalemme. La data del 27 gennaio, Giorno della Memoria, è stata indicata come celebrazione internazionale in memoria delle vittime dell’Olocausto dalla Risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del primo novembre 2005; in Italia il Giorno della Memoria era già stato istituito con la Legge 20 luglio 2000, n. 211.
7. J. Revel, La memoria e la storia, in Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 30 maggio 1998 [tratto dall’intervista ‘La memoria e la storia’, San Marino, 11 giugno 1995], p. 1. www.emsf.rai.it
8. Ibid.
9. Ivi, p. 2.
10. Ibid.
11. Cfr. J. Le Goff, Memoria, in Enciclopedia Einaudi, Torino 1979, vol. VIII, pp. 1068-1101; N. Pethes, J. Ruchatz, Dizionario della Memoria e del Ricordo, Mondadori, Milano 2002.
12. Cfr. M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, Albin Michel, Paris 1994 (1925), trad. it. I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli 1997.
13. Cfr. H. Bergson, Matière et mémoire: essai sur la relation du corps a l’esprit, Presses Universitaires de France, Paris 2004 (1896), trad. it. Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, Laterza, Roma 2011.
14. M. Halbwachs, I quadri sociali…, cit., pp. 137-146.
15. M. Halbwachs, La mémoire collective, Presses Universitaires de France, Albin Michel, Paris 1997 (1950), trad. it. La memoria collettiva, Unicopli, Milano 1987, p. 61.
Andrea Luccaroni, Inimmaginabile e progetto. Architettura e memoria nei luoghi della Deportazione, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2015