Circa i GAP in Emilia-Romagna

Partigiani a Bologna – Fonte: Senza tregua cit. infra

I Gruppi di azione patriottica (GAP) sono formazioni militari la cui organizzazione venne pianificata dal Partito comunista italiano già nel maggio 1943, con lo scopo di dare avvio alla lotta armata contro il fascismo mediante l’utilizzo di militanti pronti a compiere attacchi contro “persone simbolo” e ritenuti capaci, attraverso il loro esempio, di scatenare una guerriglia di più vaste proporzioni contro il Regime. Il modello, già collaudato dai comunisti francesi con i Franc tireurs et partisans (Ftp), riuscì però a trovare concreta realizzazione soltanto dopo lo sfaldamento dell’esercito italiano e l’occupazione della Penisola da parte delle truppe tedesche: solo a partire da questo momento, infatti, il PCI, con enormi difficoltà ed alterne fortune, riuscì ad organizzare questi nuclei di combattenti che, nell’autunno del 1943, cominciarono ad effettuare i primi attentati nelle principali città italiane.
La recente storiografia sul tema ha evidenziato come queste formazioni abbiano avuto, in Emilia Romagna, uno sviluppo differente rispetto al resto della Penisola, caratterizzandosi per una anomala espansione numerica e per una grande capacità di azione, soprattutto a partire dall’estate del 1944.
Se in generale il gappismo fu un fenomeno che contava pochissimi combattenti e che rimase per lo più confinato all’interno dei centri urbani, in alcune province emiliane, al contrario, esso fuoriuscì dall’azione individuale e dalle mura cittadine, dilatando il proprio spazio di influenza in pianura. Il rapporto organico con le comunità locali rappresentò un fattore decisivo per lo sviluppo di queste Brigate GAP, che assunsero dimensioni insperate e cominciarono a strutturarsi in squadre, distaccamenti e quindi in vere e proprie armate, capaci di contendere il controllo del territorio ai nemici.
Si deve, tuttavia, sottolineare come il passaggio da un gappismo ristretto ad uno più allargato passò attraverso tempistiche diverse a seconda delle province e fu determinato in primo luogo dalle decisioni delle federazioni provinciali, dalle quali i GAP dipendevano direttamente. Quest’ultima caratteristica distingueva queste formazioni da tutte le altre brigate partigiane e mette in luce il peso assunto dalle decisioni dei quadri intermedi del PCI: la clandestinità impose spesso una frequente sostituzione dei dirigenti per ragioni cospirative, ma laddove questi ultimi erano espressione diretta del territorio, riuscirono a studiare una strategia più rispondente alle esigenze locali e in grado di coinvolgere le masse più rapidamente.
Delle province dipendenti dal Comando Nord Emilia, soltanto quella di Reggio Emilia seguì, pur con peculiarità proprie, il paradigma che Santo Peli ha definito «gappismo all’emiliana». Qui, fin dal settembre 1943, apparve chiaro come la decisione di fare della campagna ai bordi della città la roccaforte entro la quale coordinare e sviluppare l’attività militare fosse una scelta originale e originaria. Dopo una prima fase di attentati indirizzati principalmente contro ex squadristi della bassa reggiana, dal giugno 1944 le fila della 37ª Brigata GAP cominciarono ad ingrossarsi e le azioni armate ad avere obiettivi di più ampio respiro, come nei casi dell’attacco agli automezzi tedeschi sulla via Emilia, dell’assalto nottetempo a presidi fascisti e dell’appoggio armato ai contadini per impedire il conferimento del bestiame all’ammasso. La continua ricerca di una conflittualità dal basso, utile per garantire un legame stretto tra lotta politica e lotta militare e per rinsaldare il legame con le comunità contadine, rappresentò la condizione indispensabile senza la quale non sarebbe stato nemmeno immaginabile un simile ampliamento degli scontri in un ambiente totalmente privo di ripari naturali. La simbiosi che si instaurò tra i gappisti e i fiancheggiatori, che offrivano loro supporto e riparo, ne sfuocava molto spesso il confine e rese possibile una militarizzazione capillare della pianura reggiana.
Nelle province nord-occidentali si incontrarono, invece, notevoli difficoltà ad organizzare nuclei gappisti di una certa combattività, come testimoniano numerosi rapporti interni al Partito. A Parma l’attività militare cittadina fu pressoché inesistente fino al 24 febbraio 1944, quando in centro venne ucciso un milite della GNR. Queste difficoltà di azione trovano conferma da quanto riportato nella Relazione della 12ª Brigata Garibaldi, che attribuiva ai GAP unicamente un’azione di recupero di armi per la montagna nel febbraio 1944. Eugenio Copelli “Gianni”, catturato dalla polizia in un’osteria del quartiere Oltretorrente nella serata del 9 marzo 1944 e ucciso subito dopo, veniva indicato quale comandante dei GAP di Parma da un volantino che lo descriveva come un eroico gappista, ma alla prova delle carte d’archivio risulta che dal colpo di febbraio fino al 10 aprile – quando sulla strada Parma-Colorno venne ferito gravemente da un ciclista un milite della Gnr – non si verificò più nessun attentato. Un ultimo colpo di coda del gappismo parmense si ebbe tra i mesi di maggio e luglio 1944, quando vennero segnalate dai Notiziari della GNR alcune sparatorie compiute da ignoti in bicicletta contro militi della RSI.
Molto scarne le informazioni su Piacenza, considerata dalla Direzione Nord del Pci come la peggiore delle federazioni emiliane. L’assenza dei GAP veniva ribadita in più relazioni inviate ai Comandi e, in effetti, nemmeno le fonti fasciste segnalavano attentati in città durante l’occupazione tedesca, in linea, del resto, con quanto denunciava anche il Triumvirato insurrezionale Nord Emilia che, ancora nell’ottobre 1944, lamentava l’assenza dei GAP in territorio piacentino.
Maria Grazia Conti, Gruppi di azione patriottica (GAP) in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza nell’Emilia Occidentale, Progetto e coordinamento scientifico: Fabrizio Achilli, Marco Minardi, Massimo Storchi, Progetto di ricerca curato dagli Istituti storici della Resistenza di Parma, Piacenza e Reggio Emilia in Rete e realizzato grazie al contributo disposto dalla legge regionale n. 3/2016 “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento”

Una strada di Bologna – Foto: Gian-Maria Lojacono

I Gap e le Sap, che mantennero generalmente comandi separati, cominciarono a partire dall’estate del 1944, a collaborare sempre più strettamente, sino – in alcuni casi – a confondersi.
Soprattutto in Emilia si scatenò una sorta di competizione tra le due formazioni, tanto da generare una discussione tra due massimi dirigenti del Pci, Secchia (Vineis) e Amendola (Palmieri).
[…] Ma più la situazione si sviluppa e più i Gap gonfiandosi tenderanno a diventare un’organizzazione di massa, a loro volta molte Sap dovranno abbandonare il lavoro in seguito alle razzie, in seguito alle loro azioni e per tanti altri motivi, diventeranno cioè dei professionali.
Gap e Sap finiranno in molti casi di coincidere ed anche di fondersi.
Nella tarda estate del 1944 si riteneva che l’insurrezione popolare fosse imminente e che l’avanzata degli alleati non fosse più prorogabile, tanto da ipotizzare, da parte di Secchia, una “sappizzazione” dei Gap in modo che potessero svolgere azioni di appoggio all’insurrezione ed allentare le misure cospirative. Visti l’arresto dell’avanzata alleata e l’impossibilità per i patrioti di combattere una battaglia a viso aperto è forse più rispondente al vero l’ipotesi della “gappizzazione” delle Sap che dovettero, con mezzi e norme cospirative sempre più simili a quelli gappisti, alzare il livello dello scontro.
[…] A Reggio Emilia, ad esempio, gli sforzi compiuti per il rafforzamento delle Sap diedero presto i frutti sperati, tanto che dovette intervenire il comando Sap, a fine ottobre 1944, precisando che erano i Gap gli elementi di punta: Dal risultato di vari sopralluoghi compiuti nelle zone Sap in seguito a divergenze sorte nel corso di qualche azione eseguita da Sap e Gap si ritiene definire i rapporti tra i due organismi militari che operano in pianura.
Pertanto si stabilisce:
1) Nelle azioni ove i Gap chiedono l’intervento e l’aiuto delle Sap la direzione dell’azione stessa è affidata al comandante dei Gap presenti.
2) Nelle azioni ove i Sap chiedono l’aiuto e l’intervento dei Gap la direzione delle azioni è affidata al comandante del settore e squadra Sap.
Rimane inteso e logico che in tutti i casi essendo i Gap elementi di punta e più esperti è necessario che il comandante l’azione si consigli circa il modo migliore con il responsabile dei Gap partecipanti all’azione stessa.
Se, anche da questo punto di vista, il caso emiliano fu del tutto eccezionale, la sovrapposizione di compiti e la confusione di ruoli tra Gap e Sap fu comunque una tendenza generale fino alla liberazione.
Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca, in «Percorsi Storici», 3 (2015)

Il comando del CUMER sfila a Bologna il 25 aprile ’45; al centro della prima fila Ilio Barontini – Fonte: Senza tregua cit.

[…] È solo a partire dal gennaio del 1944 che si può rilevare la prima azione significativa: l’uccisione del federale del fascio bolognese Eugenio Facchini in via Zamboni. A seguito di tale azione, i fascisti ritennero di prelevare dalle carceri nove antifascisti condannati, portarli al Poligono di tiro e fucilarli, generando con ciò un generale sdegno tra la popolazione bolognese. I Gap decisero quindi di individuare i membri del plotone di esecuzione e di giustiziarli: così avvenne per due di loro, freddati a colpi di rivoltella.
Nei mesi successivi il movimento resistenziale si ampliò e coinvolse la massa generale della popolazione lavoratrice. Già dal febbraio del 1944 le azioni dei Gap a Bologna si moltiplicarono: sempre più personalità del fascismo vennero colpite con assalti rapidi e precisi; sempre più carichi di munizioni in transito per la città furono assaltati e fatti esplodere, sia di notte che in pieno giorno; non mancarono, infine, attacchi contro alcune caserme.
Tuttavia fu soltanto con lo sciopero generale nazionale chiamato per la prima settimana di marzo che la lotta ebbe un portentoso salto di qualità. Fu in occasione dello sciopero, il primo di così vaste proporzioni nell’Europa occupata dai nazisti, che si venne a creare un collegamento organico superiore tra le organizzazioni dei lavoratori e le organizzazioni di massa da un lato, e le formazioni di combattimento dall’altro, queste ultime composte in larga parte da operai e contadini che cominciarono ad essere distaccati per dedicarsi interamente alla guerriglia. È proprio a seguito degli scioperi, infatti, che ebbero modo di svilupparsi compiutamente la 36a Brigata Garibaldi, la 62a, la 63a, la 66a e la S.Justa, sotto la direzione del C.U.M.E.R. Venne risolto quindi il problema della costituzione di formazioni partigiane sull’Appennino.
Per gli scioperi i Gap sostennero i lavoratori portando a termine svariati sabotaggi di linee di trasporto e dei cavi elettrici. Di fronte ai cancelli delle fabbriche, inoltre, mescolandosi tra gli operai stessi, li incitarono a non lavorare per i tedeschi. I lavoratori li appoggiarono e incominciarono da lì in poi ad apprezzare con grande vigore il contributo dato dai gappisti nella generale lotta per il miglioramento delle condizioni di vita e per la distruzione dello sforzo bellico nazi-fascista. Alle opere di sabotaggio dei Gap, infatti, si aggiunsero anche quelle degli stessi operai che sempre più spesso logorarono la capacità produttiva delle fabbriche, assicurandosi allo stesso tempo che i macchinari non venissero trasferiti in Germania o in altre località. Gli operai sapevano di poter contare sulla copertura dei gappisti se ve ne fosse stato bisogno.
Lo sciopero fu essenziale anche per lo sviluppo dei Gap nelle campagne circostanti Bologna. Anche i contadini e i braccianti si unirono alla mobilitazione, portando avanti una serie di rivendicazioni e di proteste di piazza sotto le sedi dei municipi contro la mancanza dei generi di prima necessità, contro gli ammassi fascisti e le requisizioni delle truppe di occupazione, contro le liste di leva etc. Su queste basi, i contadini stessi si organizzarono, formando quelli che poi sarebbero diventati i quattro distaccamenti principali dei Gap in pianura presso Castelmaggiore, Anzola, Medicina, Castenaso. Più tardi si formarono altri distaccamenti minori a Castel S. Pietro Terme e ad Imola.
Insomma, la dimensione territoriale e numerica del Gap bolognesi subì un accrescimento notevole, così come il numero delle azioni: entro la prima metà del ’44 vi erano gappisti che facevano anche due o tre azioni al giorno. Distruzione dei cambi ferroviari; tagli delle linee elettriche; distruzione delle cabine di trasformazione ed alimentazione elettrica delle officine e delle fabbriche; distruzione di convogli militari; agguati contro caserme e singoli individui: tutte queste azioni minarono le capacità nazi-fasciste e indirizzarono sempre di più i lavoratori verso l’insurrezione nazionale. Consistenti forze fasciste e tedesche vennero impiegate per tenere a bada le retrovie cittadine e di pianura, distogliendole dal fronte di guerra più a Sud.
Nel marzo si costituì ufficialmente la 7a Brigata dei Gruppi di Azione Patriottica, il cui comando venne assunto due mesi più tardi da Alcide Leonardi (nome di battaglia “Luigi”), ex garibaldino di Spagna e membro del Pci di lunga data.
[…] Vi sono stati casi in cui le “basi” venivano scoperte, non per colpa di gappisti catturati sottoposti a tortura, bensì per colpa di delatori e spie: in tal caso i Gap erano costretti fino all’ultimo per difendere le proprie postazioni e cercare di mettersi in salvo. Ciò poteva avvenire anche in caso di rastrellamenti improvvisi, il che accadeva abbastanza di frequente. Insomma, il gappista di città non aveva mai un minuto di tregua: questa è anche una delle caratteristiche che lo distinguevano da tutti gli altri combattenti partigiani, specie quelli della montagna, i quali tra una battaglia e l’altra avevano anche molti giorni, se non settimane, in cui non si scontravano con alcuna formazione nemica. Il gappista aveva il pericolo tutto attorno, vivendo con i fascisti e i nazisti a pochi metri di distanza: doveva accettare questa situazione perché non vi era modo di evitarla. Solo una disciplina di ferro e una salda coscienza politica poteva tenere in piedi una lotta condotta in tale precarietà esistenziale.
I Gap agivano in formazioni ristrette – in squadre di non più di 6/7 membri ciascuna – e con un alto grado di mobilità e autonomia. Inizialmente il loro strumento prediletto per gli spostamenti era la bicicletta, tanto che le autorità fasciste fecero tutta una serie di provvedimenti per limitarne la circolazione in alcune aree della città e soltanto con una speciale autorizzazione si potevano utilizzare. Con le bici i gappisti potevano arrivare in un posto e fuggire con estrema agilità, tra le strade strette e i portici del centro cittadino bolognese. I posti di blocco, anche momentanei, erano dappertutto: non si contano i casi in cui i gappisti per attraversarli, in mancanza dei documenti adatti, dovettero farsi strada sparando con la rivoltella o con lo sten nascosto sotto i vestiti. Se venivano catturati venivano tradotti nelle caserme nazi-fasciste o nelle carceri di San Giovanni in Monte (dove oggi c’è il Dipartimento di Storia culture civilità dell’Università) e qui venivano torturati e seviziati fin quasi alla morte. Se i fascisti non riuscivano ad avere informazioni di sorta (il che era la norma: non abbiamo notizie di gappisti bolognesi che parlarono sotto tortura mettendo a rischio la vita dei propri compagni) vi era la possibilità di venire passati per le armi alla periferia della città, senza troppi riguardi. Per questo i gappisti, quando si dovevano fermare ai posti di blocco, erano sempre in uno stato di assoluta allerta. Spesso queste vicende portarono anche a fughe e a relativi inseguimenti che farebbero invidiare qualsiasi film d’azione moderno per quanto assurde e incredibili.
Una delle condizioni principali affinché potesse avere successo una qualsiasi azione, oppure per districarsi da una situazione imprevista e pericolosa, era il corretto funzionamento delle armi da fuoco. I gappisti curavano le loro armi – perlopiù rubate al nemico, in pieno stile guerrigliero – in maniera maniacale, in modo tale che al momento giusto non si inceppassero, il che avrebbe messo a repentaglio la vita non soltanto del possessore dell’arma ma anche quella dei suoi compagni […]
Azioni principali dei Gap a Bologna
È impossibile rendicontare tutte le azioni fatte dai gappisti bolognesi nell’arco della guerra di Liberazione. Tuttavia alcune sono degne di menzione per la loro importanza e l’audacia con cui vennero portate a compimento. Ne ricordiamo due.
La prima è la liberazione dei detenuti presso le carceri di San Giovanni in Monte nell’agosto del ’44. Come si è detto, qui venivano rinchiusi molti detenuti, sottoposti a sevizie e poi molto spesso fucilati. Per impedire che quello scempio proseguisse si organizzò un piano di attacco che coinvolse solo 12 uomini. Se qualcuno ha modo di vedere il palazzo di San Giovanni in Monte, ancora oggi noterà che è localizzato su una piccola collinetta antistante Piazza Santo Stefano, dall’altra parte di via Farini. Vi si accede frontalmente per una strada ripida e stretta, così come ripide e strette sono le altre strade di accesso al plesso. I gappisti non potevano sperare di condurre un attacco diretto e quindi si rivolsero al travestimento e all’inganno, come era solito fare in altre circostanze. Una parte dei 12 si vestì da fascista e da soldato tedesco (due dovevano saperlo anche parlare il tedesco: per questo si chiamarono all’occorrenza dei combattenti da Castelmaggiore), un’altra da partigiani catturati. L’approccio al complesso avvenne di notte con un paio di macchine e una volta arrivati i gappisti scesero dai mezzi ed entrarono nei loro ruoli. Alla visione di loro presunti “camerati” con dei partigiani catturati le sentinelle dell’ingresso non esitarono ad aprire i cancelli. Una parte dei gappisti rimase fuori per occuparsi di loro e ucciderle al momento opportuno, il resto si fece strada grazie alle armi fatte passare sotto i giubbotti e aprirono tutte le celle che capitavano a tiro. Furono liberati anche i detenuti comuni, in modo tale che con la loro fuga i partigiani avessero maggiori possibilità di non essere riconosciuti e catturati. I partigiani liberati seguirono i gappisti in diverse “basi” e località, gli altri si dispersero nell’oscurità. In tutto più di 400 detenuti scapparono, salvati molto spesso dalla fucilazione. L’operazione non durò più di 15 minuti.
La seconda azione è quella all’albergo di lusso Baglioni, in via Indipendenza, dove era localizzato il comando tedesco e repubblichino della città. In realtà di azioni ce ne furono due, una andata male e una andata a buon fine, ma non si può comprendere la seconda senza la prima. L’obiettivo era comunque uno: far saltare in aria tutto l’edificio, con i fascisti e i tedeschi al suo interno.
[…] Irma Bandiera, nome di battaglia “Mimma”, crebbe invece in un contesto differente. Era di famiglia agiata e non conobbe gli aspetti duri dell’esistenza di un proletario, ma in lei albergava un istintivo sentimento di giustizia. Questo sentimento la fece avvicinare lentamente al movimento resistenziale, non potendo più tollerare le tragedie e le ingiustizie di cui era testimone quotidianamente. Incominciò ad esplorare una nuova visione del mondo, a rigettare il suo passato e prese la decisione di dare il suo contributo alla lotta antifascista. Nel ’44, a 29 anni, divenne staffetta dei Gap, ma in agosto venne catturata dai fascisti che la tennero viva per 6 giorni, cercando di ottenere informazioni sui suoi compagni. Irma, sotto tortura, non disse niente. Con il corpo rotto dalle ferite e dai dolori, i fascisti la portarono di fronte a casa sua, dove esclamarono che se non si decideva a parlare non avrebbe più rivisto i suoi genitori. Irma ancora si rifiutò. Così la portarono nei pressi del Meloncello e qui la uccisero a colpi di mitra […]
I gappisti della pianura
Se i partigiani dell’Appenino combatterono in un contesto rurale costituito in prevalenza da larghi tratti di natura selvaggia e da un tessuto sociale composto perlopiù da piccoli contadini e allevatori, i partigiani della pianura lo fecero in una campagna fatta da braccianti e da mezzadri con una lunga tradizione di lotta socialista alle spalle, organizzata in numerosi paesi e importanti vie di comunicazione. Non sarebbe stato possibile organizzare le forze partigiane in tale contesto, se non con il supporto costante della popolazione contadina che difatti offrì ripetutamente il suo appoggio alla lotta di Liberazione. I gappisti della pianura bolognese, di cui abbiamo ricordato precedentemente le quattro formazioni principali, si ritrovarono in prima linea nella difesa dei diritti dei contadini contro gli ammassi fascisti e le requisizioni tedesche. Inoltre, appoggiarono e difesero con le armi in pugno le manifestazioni di protesta fatte dalle donne nelle piazze dei paesi contro l’assenza di generi di prima necessità e il loro cattivo confezionamento, contro le ordinanze di leva e a favore della pace. Si approfittò di situazioni di questo tipo per portare avanti assalti armati contro caserme repubblichine isolate e per assaltare i municipi con l’obiettivo di distruggere i registri delle tasse e quelli del servizio di leva. I gappisti sostennero i contadini anche contro le requisizioni di bestiame ordinate dai tedeschi e portarono avanti la cosiddetta “battaglia delle trebbiatrici”, con l’obiettivo di sabotare le macchine agricole per ostacolare il più possibile la trebbiatura del frumento da consegnare alle truppe di occupazione. Così riportò «Il lavoratore agricolo», organo dei contadini e dei braccianti bolognesi: «Perché i tedeschi che finora non si sono preoccupati che di affamarci e farci soffrire, proprio ora si preoccupano tanto di far trebbiare per sfamare le popolazioni? La risposta è chiara: farci trebbiare il grano con la lusinga di 2 q di grano per persona e portarci via tutto il rimanente e, più tardi, saccheggiare le nostre case, per rubarci anche quella parte che serve al nostro fabbisogno. Noi non cediamo! Non sono valse e non varranno tutte le lusinghe e tutte le minacce: non abbiamo trebbiato e non trebbieremo! Il grano è nostro, è di tutto il popolo italiano; lo abbiamo prodotto a costo di sudori e di fatiche; nessuno oserà impossessarsene. Noi siamo pronti alla difesa e all’offesa; le nostre squadre armate vegliano pronte a scattare, i partigiani che noi ospiteremo nelle nostre case e nei nostri campi, saranno l’avanguardia eroica della nostra sacrosanta lotta…».
A queste azioni si aggiungevano le uccisioni di fascisti e soldati tedeschi a ripetizione, la distruzione di caserme e depositi di munizioni e altre azioni squisitamente militari. Naturalmente tutto ciò ebbe un prezzo in vite umane, anche civili: i tedeschi e i fascisti condussero alcune rappresaglie per intimidire la popolazione che appoggiava la lotta partigiana. Ma anche qui, ad un atto barbarico dei fascisti, i gappisti rispondevano sempre con forza decuplicata. La migliore difesa, infatti, non era starsene con le mani in mano e subire passivamente, bensì attaccare senza tregua.
I contadini e i braccianti, dal canto loro, si spesero con tutti i mezzi che poterono in favore dei combattenti: procurando loro da mangiare e un rifugio sicuro; collaborando in servizi di informazione; aiutando nei collegamenti tra le diverse formazioni. Le ragazze di campagna fecero le staffette e anche loro, in qualsiasi occasione, ebbero modo di aiutare i combattenti partigiani. Le madri, magari coi figli scappati in montagna o morti al fronte in Russia o in Africa, ritrovarono nei giovani partigiani i loro ragazzi scomparsi. Quando la stagione era buona, i gappisti si sistemavano pure nei campi di canapa o di granturco. All’arrivo del freddo si andava di preferenza nei fienili e in altri rifugi di fortuna messi a disposizione dalla popolazione […]
Redazione, I gappisti bolognesi nella Resistenza, Senza tregua, 25 aprile 2020

Il gappismo emiliano-romagnolo rappresenta un’eccezione rispetto al contesto nazionale appena delineato. In questa regione, infatti, a partire dall’estate 1944, il movimento gappista fuoriesce dalle città, andando a interessare anche vaste zone periferiche e della campagna. Laddove, dalla tarda primavera fino all’insurrezione, i GAP di Milano, Torino e Genova procedono a fatica tra precari rilanci e fatali cadute, la 65ª GAP Walter Tabacchi <148 di Modena, la 7ª GAP Gianni <149 di Bologna e la 28ª GAP Mario Gordini <150 di Ravenna entrano nella loro fase principale: esse si espandono su un territorio più vasto, iniziano a operare fuori dalle mura cittadine, vanno alla ricerca di un’ampia
mobilità, instaurano forti legami di solidarietà e collaborazione reciproca con la popolazione delle campagne, fino ad acquistare vaste dimensioni. Tali caratteristiche fanno di quello emiliano-romagnolo un «gappismo di massa» <151, che costituisce «un’altra storia» <152 rispetto alla direzione presa nel resto dell’Italia occupata dal gappismo propriamente detto.
La specificità della realtà emiliana-romagnola è attestata anche dalla battaglia urbana che si svolge il 7 novembre 1944 nella zona di porta Lame a Bologna, e che, per le proporzioni assunte, rappresenta un unicum nella Resistenza italiana. L’antefatto, che spiega la concentrazione di circa 300 guerriglieri <153 nell’area di porta Lame, è da ricercare nei risultati che l’offensiva alleata, in codice operazione Olive <154, sta conseguendo sul settore adriatico della linea Gotica <155, il che fa presagire lo sfondamento di quest’ultima e un’imminente liberazione di Bologna.
Partendo da questo presupposto, il CUMER <156 ordina, al fine di preparare l’insurrezione, la mobilitazione generale di tutte le forze disponibili: “Nella zona che circonda Porta Lame, quartiere pressoché disabitato perché semidistrutto dai bombardamenti, si individua il luogo dove stabilire il principale raggruppamento partigiano. Si sceglie un lungo caseggiato adibito a lavanderia con annessa palazzina, lungo il Canale Navile tra Via Azzogardino e Via del Porto, e si occupano i ruderi imponenti di quello che fu l’Ospedale Maggiore. […] Lo straordinario acquartieramento venne portato a termine entro la fine di ottobre” <157.
Il prolungamento della permanenza nella zona di acquartieramento, dovuto all’arenarsi dell’iniziativa bellica angloamericana, però, espone i guerriglieri, costretti «a condurre, in assenza di precise informazioni, una vita da caserma, in un clima di sospensione» <158, a numerosi rischi, che si concretizzano all’alba del 7 novembre. Una pattuglia tedesca in perlustrazione scopre casualmente i 75 uomini concentrati nella palazzina lungo il canale Navile, li circonda e li sottopone ad un massiccio attacco di fuoco.
La seconda base dell’ospedale Maggiore, in cui sono stanziati i restanti 230 combattenti, per quanto vicina alla palazzina, non viene scoperta. I gappisti, pur nervosi e impazienti di correre in soccorso dei compagni assediati, restano in attesa di ordini sul da farsi: “Nelle prime ore del pomeriggio si andarono delineando meglio le intenzioni del comando: attendere le prime ombre della sera per attaccare di sorpresa e in forze da tutte le direzioni” <159.
Quando i 230 uomini, ignari del fatto che i compagni siano riusciti a sottrarsi all’accerchiamento e ad abbandonare il rifugio tramite uno sganciamento, escono dall’ospedale Maggiore per aggredire gli assedianti: “Tutto si svolse secondo le previsioni, ancora una volta la sorpresa paralizzò il nemico e ogni sua facoltà di reazione, tanto più che in quel momento c’erano prevalentemente dei fascisti […] Un’ora era bastata ai gappisti per impadronirsi del campo di battaglia e per portare a compimento il piano d’attacco: una vittoria in campo aperto, la sconfitta del nemico in una città soggetta alla sua feroce occupazione militare” <160.
Malgrado gli strascichi che la battaglia si porta dietro <161, la vittoria di porta Lame esplicita al meglio la singolarità del gappismo emiliano-romagnolo, divenendo «simbolo di un’evoluzione dei Gap: da piccoli nuclei armati di qualche pistola e molto coraggio a formazione militare capace di misurarsi con interi reparti tedeschi perfettamente equipaggiati, e di sconfiggerli» <162.
[NOTE]
148 Cfr. Chiara Lusuardi, Gappisti di pianura. La 65ª brigata GAP Walter Tabacchi a Modena 1944-1945, Mimesis, Milano 2016.
149 Cfr. De Micheli, 7ª Gap, cit.
150 Cfr. Arrigo Boldrini, Diario di Bulow. Pagine di lotta partigiana 1943-1945, Vangelista, Milano 1985.
151 Pesce, Storie di Gap, cit., p. 195.
152 Ibid., p.188.
153 Furono raggruppati a porta Lame, oltre a squadre della 7ª GAP, i distaccamenti gappisti di Medicina, di Castel Maggiore, di Castenaso e di Anzola dell’Emilia, un nucleo di sappisti e alcuni partigiani della 62ª, della 63ª e della 66ª brigata Garibaldi.
154 L’operazione Olive iniziò il 25 agosto 1944 e fu un’offensiva finalizzata allo sfondamento della linea Gotica e alla rapida riconquista della Pianura Padana. L’efficace difesa tedesca, però, portò, alla fine di ottobre, all’esaurimento dell’avanzata alleata, che, dopo essere riuscita ad avanzare ancora per qualche chilometro e a liberare il 9 novembre Forlì e il 4 dicembre Ravenna, si fermò. La linea Gotica fu ristabilita sul corso del Senio, in provincia di Ravenna, ed il suo sfondamento, dopo quattro mesi di stasi, avvenne soltanto il 9 aprile 1945.
155 La linea Gotica fu la linea fortificata difensiva istituita dal maresciallo tedesco Albert Kesselring, nel tentativo di rallentare l’avanzata dell’esercito alleato, comandato dal generale Harold Alexander, verso l’Italia settentrionale. La linea difensiva si estendeva dalla provincia di Apuania in Toscana fino alla costa adriatica di Pesaro nelle Marche, passando per i rilievi delle Alpi Apuane, le colline della Garfagnana e i monti dell’Appennino modenese, bolognese e forlivese.
156 Come propagazione a livello regionale del CVL, nell’estate 1944 fu costituito il Comando Unico Militare Emilia-Romagna.
157 Renato Romagnoli, Gappista: dodici mesi nella Settima GAP “Gianni”, Vangelista, Milano 1974, pp. 119-121.
158 Pesce, Storie di Gap, cit., p. 197.
159 Romagnoli, Gappista, cit., p. 131.
160 Ibid., pp. 133-134.
161 Il 15 novembre 1944 un gruppo di gappisti venne sorpreso da un rastrellamento tedesco nel quartiere della Bolognina, dove era rimasto immobilizzato, in attesa di nuova dislocazione, a seguito degli eventi di porta Lame.
162 Pesce, Storie di Gap, cit., p. 196.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea magistrale, Università di Pisa, 2019