Circa i tormentati accordi del CLNAI con gli alleati e con il governo Bonomi

Di fronte alla progressiva avanzata degli Alleati in Europa, fu firmato nel marzo del 1945 un accordo tra governo e CLNAI. Il primo accettò la richiesta del Comitato di liberazione di riconoscere la legittimità di un’insurrezione generale che chiamasse tutti gli italiani allo sforzo finale per porre fine alla guerra. Ma impose che essa avesse solo carattere antifascista e antitedesco, e obiettivi limitati : la protezione degli impianti industriali e idroelettrici e l’amministrazione dei territori liberati nell’attesa dell’arrivo degli Alleati. Dall’accordo veniva cioè esclusa l’ipotesi che l’insurrezione generale potesse dare l’avvio a una rivoluzione politica e sociale. Dell’assetto del nuovo Stato post-fascista, se ne sarebbe parlato a guerra finita.
Angelo Ventrone, «Italia 1943-1945: le ragioni della violenza», Amnis, 2015

Il Sovrano si appresta a uscire di scena e vorrebbe, per l’ultima recita, il tributo che spetta ad un attore di successo. Ma, evidentemente, il copione è cambiato. Badoglio, invece, continua a recitare: “Ho esaminato col Generale Sir Noel Mason Mac Farlane la possibilità di accogliere il vivo desiderio espresso da Vostra Maestà e cioè di far sì che la firma dell’atto della Luogotenenza avvenisse in Roma od in territorio di Roma. Col Generale Sir Noel Mason Mac Farlane abbiamo dovuto convenire che per diversi giorni non è possibile effettuare il viaggio di Vostra Maestà sia per via ordinaria sia per via aerea. Perciò, contrariamente al desiderio espresso da Vostra Maestà, sono a pregarLa che l’atto venga firmato a Ravello” <548.
Il Presidente del Consiglio pensa di avere la parte del protagonista. L’8 giugno avviene l’incontro tra il Governo e il Comitato di liberazione. Contrariamente alle aspettative, non viene avanzata una proposta di rimpasto ministeriale ma la richiesta di un nuovo governo con a capo Ivanoe Bonomi. Il Luogotenente accetta e così anche Badoglio esce di scena. Lui però non è un Savoia e può consentirsi, di fronte ai membri del CLN, un’ultima reazione stizzita: “Voi siete riuniti intorno a questo tavolo in Roma liberata non perché voi, che eravate nascosti o chiusi in conventi, abbiate potuto far qualche cosa: chi ha lavorato finora, assumendo le più gravi responsabilità, è quel militare che, come ha detto Ruini, non appartiene ad alcun partito” <549.
[NOTE]
548 Ivi, p.206.
549 Pietro Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale, cit., p.219. “Il Badoglio che lasciava la scena era tutt’altro che uno sconfitto. Era l’uomo che era riuscito a intrecciare tutti gli anelli essenziali del biennio ’43-’45
(25 luglio e 8 settembre, il Regno del Sud, la dichiarazione di guerra alla Germania e il movimento partigiano) in un groviglio pressoché inestricabile. Non sarebbe riuscito a salvare l’istituto monarchico, ma avrebbe salvato, insieme alla sua persona, la “continuità” dello Stato e, in buona parte, delle sue vecchie strutture e del relativo personale politico. La “svolta di Salerno” era stata da parte delle sinistre la realistica presa d’atto dei termini di una politica che sin dall’inizio si era posta tutta a loro sfavore”, Enzo Forcella, La Resistenza in convento, cit., p.205.
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

In Italia, la presenza di un forte movimento partigiano a carattere popolare e democratico ingenerava negli ambienti alleati il timore che, con la liberazione delle regioni settentrionali, si riproducesse una situazione simile a quella greca, anche se le condizioni oggettive esistenti nei due paesi erano assai diverse. Identica era solo la politica britannica, orientata a sostenere la monarchia e le forze della conservazione sociale ed a soffocare le aspirazioni democratiche delle grandi masse popolari. E poiché nel movimento di liberazione nazionale prevalevano largamente i partiti che di quelle masse popolari erano l’espressione politica, gli alleati ne traevano motivo per alimentare la loro ostilità verso la resistenza. Senonché, le correnti più avanzate del movimento di liberazione, pur proponendosi anche l’obiettivo di un profondo rinnovamento della società italiana, erano consapevoli che la loro azione in questo senso doveva essere contenuta entro limiti ben definiti, imposti dalla situazione che oggettivamente s’era creata nel paese sin dal momento in cui le truppe angloamericane avevano messo piede in territorio italiano. Non avevano alcun fondamento, pertanto, le preoccupazioni che sembravano ossessionare certi ambienti alleati, e provocavano una crescente tensione che in definitiva si ritorceva a danno tanto della resistenza quanto degli angloamericani. In ottobre la situazione s’era aggravata al punto che ormai appariva improrogabile, se si voleva evitare un’aperta rottura, un chiarimento tra le due parti. Perciò al convegno di Lugano del 25 ottobre [1944] venne concordato l’invio di una missione del CLNAI a Roma per discutere ogni questione direttamente con i capi militari alleati e per stabilire un modus vivendi accettabile. A comporre la missione il CLNAI designò Alfredo Pizzoni, Ferruccio Parri e Giancarlo Pajetta, ai quali s’aggregò anche, dietro esplicita richiesta alleata, Edgardo Sogno. Recatisi in Svizzera e poi in Francia, i delegati del CLNAI partirono da Lione il 14 novembre e sbarcarono all’aeroporto di Capodichino. Accolti con deliberata scortesia dal prefetto di Napoli, i rappresentanti della resistenza del nord dovettero subito rendersi amaramente conto della barriera d’incomprensione e di sospetto che li separava dalle intatte strutture burocratiche dello Stato. A Roma furono ricevuti dal presidente Bonomi, e quindi dal consiglio dei ministri appositamente convocato, ma l’esito di quei primi colloqui non fu molto incoraggiante: il governo italiano si limitò a dichiarare la propria incompetenza ad affrontare le situazioni dei territori invasi, soggetti esclusivamente, in quanto zona di operazioni, all’autorità militare alleata; la missione avrebbe dovuto quindi trattare da sola con gli angloamericani. Invero, le preclusioni poste dagli alleati riducevano al minimo la capacità d’intervento del governo; tuttavia, almeno per quanto riguardava uno degli obiettivi che la missione si proponeva di raggiungere – il riconoscimento ufficiale del CLNAI da parte del governo medesimo – restava un certo margine di manovra in virtù anche della posizione recentemente assunta verso l’Italia da Roosevelt e da Churchill, i quali in settembre, al termine della seconda conferenza di Quebec, avevano diramato una dichiarazione che sotto certi aspetti sembrava segnare l’inizio di un «new deal for Italy», promettendo esplicitamente la concessione di una maggiore autorità all’amministrazione italiana. Inoltre cominciavano ad affiorare anche in campo alleato significative tendenze a riconsiderare i rapporti con la resistenza, accantonando l’ostilità preconcetta cui s’era ispirata sin’allora la condotta alleata. Lo storico inglese C.R.S. Harris, mentre indica nella commissione alleata l’ambiente più ostile, e più riluttante all’idea di «dare un riconoscimento ufficiale al movimento di resistenza nel nord, nel quale era noto il predominio dei comunisti», afferma che in certi uffici del comando supremo del Mediterraneo si faceva strada la convinzione che il movimento partigiano poteva offrire un utile contributo militare, e che pertanto conveniva potenziarlo. L’accertata esistenza di questo contrasto creava le condizioni perché il governo italiano potesse efficacemente inserirsi nelle trattative; se ciò non avvenne, non si può obiettivamente addossare tutta la responsabilità agli alleati, ma occorre ricercare altrove le vere cause: in primo luogo nel fatto che la coalizione governativa era già virtualmente in crisi (il ministero Bonomi cadrà poi il 26 novembre) perché i partiti di destra ritenevano che ormai fosse giunto il momento di liquidare il CLN, di cui il governo era, almeno formalmente, l’espressione; mentre le destre ponevano in atto, con la crisi, questo tentativo, non era ovviamente da attendersi che dessero il loro consenso al riconoscimento del CLNAI. La missione affrontò pertanto in modo auto nomo le discussioni con gli alleati, ed ebbe una serie d’incontri al quartier generale di Caserta e a Roma. Per parte alleata, le trattative erano condotte dal generale Maitland Wilson, comandante supremo del teatro d’operazioni del Mediterraneo, assistito dal generale Stawell, capo del SOMTO (Subversive Operations in thè Mediterranean Theatre Office), e dal capitano di fregata G. Holdsworth, comandante della N. 1 Special Force.
Nella prima fase dei colloqui parve delinearsi concretamente la possibilità di un «accordo tripartito» (cioè tra CLNAI, comando alleato e governo italiano), ma poi questa prospettiva decadde a causa soprattutto dell’inerzia del governo Bonomi, che si mantenne ostinatamente estraneo alle trattative col pretesto della crisi incombente (ma non ancora aper­ ta ufficialmente, sicché per il momento non s’era ancora determinato un effettivo impedimento a par­ teciparvi), ma in realtà per esimersi, sotto la pressione delle destre, da ogni responsabile intervento. Al governo italiano i delegati del CLNAI si rivolsero anche per chiedere una serie di provvedimenti a favore del Corpo volontari della libertà, primo fra tutti la sua integrazione nell’esercito italiano. Questa istanza però urtava contro l’intransigente opposizione alleata in perfetta sintonia con quella delle correnti conservatrici dello schieramento politico italiano, ed era destinata perciò a rimanere insoddisfatta.
La crisi di governo a crisi del ministero Bonomi, apertasi ufficialmente il 26 novembre, era la conseguenza dell’approfondirsi dei motivi di dissenso che s’erano rivelati non soltanto in seno al CLN centrale prima e dopo la liberazione di Roma. Le forze conservatrici rientrate in giuoco nella capitale liberata e rappresentate nel governo dai partiti di destra, erano andate esercitando pressioni sempre più insistenti sul governo, preoccupate non tanto di fare la guerra, ma di fare essenzialmente la politica delle vecchie classi dirigenti, il che allora significava in primo luogo liquidare il movimento dei comitati di liberazione col pretesto che le sinistre miravano ad attribuire ad essi tutto il potere per screditare il governo e sfasciare lo Stato; e liquidare l’epurazione con cui, secondo le destre, si voleva distruggere la classe dirigente italiana. Strumento di questa politica era il presidente Bonomi il quale, ai leaders delle sinistre impegnati nell’estremo tentativo di evitare la crisi, pose condizioni (tra cui l’abolizione dell’alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo) che avevano il senso di un esplicito invito ad uscire dalla combinazione governativa. Col disegno di estromettere dal governo i rappresentanti delle forze più impegnate nella guerra di liberazione, giungeva in piena luce non solo l’originario dissenso di fondo che da sempre esisteva tra le correnti progressiste ed i gruppi conservatori confluiti nel CLN, ma anche un’imprevista capacità di ripresa ed un ritorno aggressivo di questi ultimi. Questo aspetto della crisi restituì, in campo alleato, il sopravvento ai circoli più ostili alla resistenza, i quali sin’allora avevano subito il progressivo affermarsi di tendenze che reputavano più conveniente operare all’interno del movimento di liberazione – ovviamente per ridurne la spinta democratica, traendone nel contempo vantaggi militari – poiché non sembrava possibile contrastarlo frontalmente utilizzando le superstiti forze della conservazione, ritenute ancora disorganizzate e inefficienti.
La crisi, smentendo questa opinione, provocò una modificazione sensibile nella valutazione alleata della lotta politica italiana, e conseguentemente si avvertì, nel torno di tempo compreso tra le dimissioni del governo e la formazione del nuovo ministero, una brusca svolta anche nell’atteggiamento degli angloamericani nei confronti della delegazione del CLNAI.
Le speranze suscitate dall’andamento promettente dei primi incontri apparvero sempre meno concrete, né la delegazione poteva far molto per ricuperare il terreno inaspettatamente perduto: poteva solo insistere nei suoi tentativi di dissipare diffidenze e sospetti, precisando la portata delle proprie richieste e sottolineandone la rispondenza alle necessità della situazione militare.
Le trattative proseguirono tuttavia in un clima sempre meno propizio, e quando si giunse alla definizione dei termini di un accordo bipartito, tra CLNAI e comando supremo, la delegazione fu posta di fronte a condizioni improntate alla massima intransigenza, formulate in tono perentorio, e senza alcuna contropartita, tranne il fatto che la conclusione di un accordo implicava di per se stessa un riconoscimento degli organi direttivi della resistenza, il che aveva pur sempre un’importanza fondamentale.
Fu in base a questa considerazione che i delegati del CLNAI si risolsero a sottoscrivere la dura convenzione.
I protocolli di Roma a firma dell’accordo avvenne il 7 dicembre, in un salone del Grand Hotel a Roma.
Così Parri descrisse in seguito la scena: «… da un canto, imponente, maestoso come un proconsole, sir Henry Maitland Wilson, dall’altro noi quattro. Un bicchiere di qualche cosa, qualche parola, una stretta di mano: poi la firma. Mi domando se quando i proconsoli britannici firmano protocolli con qualche sultano del Belucistan o dell’Hadramant non sia un po’ la stessa cosa …».
Il testo dell’accordo era il seguente:
«1) Il comandante supremo alleato desidera che la più completa cooperazione militare sia stabilita fra gli elementi che svolgono attività nel movimento di resistenza; il CLNAI stabilirà e manterrà tale cooperazione in modo da riunire tutti gli elementi che svolgono attività nel movimento di resistenza sia che essi appartengano ai partiti antifascisti del CLNAI o ad altre organizzazioni antifasciste.
2) Durante il periodo di occupazione nemica il Comando generale dei volontari della libertà (che è il comando militare del CLNAI) eseguirà, per conto del CLNAI, tutte le istruzioni date dal comandante in capo delle armate alleate in Italia, il quale agisce in nome del comandante supremo alleato. Il comando supremo alleato desidera, in linea generale, che particolare cura sia dedicata alle misure atte a salvaguardare le risorse economiche del territorio contro gli incendi, le demolizioni e consimili depredazioni del nemico.
3) Il capo militare del Comando generale dei volontari della libertà (e cioè del comando militare del CLNAI) deve essere un ufficiale accetto al comandante in capo delle armate alleate in Italia, il quale agisce per conto del comandante supremo alleato.
4) Quando il nemico si ritirerà dal territorio da esso occupato, il CLNAI farà il massimo sforzo per mantenere la legge e l’ordine e per continuare a salvaguardare le risorse economiche del paese in attesa che venga istituito un governo militare alleato. Subito, all’atto della creazione del governo militare alleato, il CLNAI lo riconoscerà e gli farà cessione di ogni autorità e di tutti i poteri di governo e di amministrazione precedentemente assunti. Con la ritirata del nemico tutti i componenti del Comando generale dei volontari della libertà nel territorio liberato passeranno alle dipendenze dirette del co mandante in capo delle armate alleate in Italia, che agisce per conto del comandante supremo alleato, ed eseguiranno qualsiasi ordine dato da lui o dal governo militare alleato in suo nome; compresi gli ordini di scioglimento e di consegna delle armi, quando vi venisse richiesto.
5) Durante il periodo di occupazione nemica dell’alta Italia verrà data al CLNAI insieme con tutte le altre organizzazioni antifasciste la massima assistenza per far fronte alle necessità dei loro membri che sono impegnati nel contrastare il nemico nel territorio occupato; un’assegnazione mensile non eccedente i centosessanta milioni di lire verrà consentita per conto del comandante supremo alleato per far fronte alle spese del CLNAI e di tutte le altre organizzazioni antifasciste.
Sotto il generale controllo del comandante in capo delle armate alleate in Italia, il quale agisce in nome del comandante supremo alleato, tale somma sarà attribuita alle zone sottoindicate nelle proporzioni sottoindicate per sostenere tutte le organizzazioni antifasciste in tali zone: Liguria, venti – Piemonte, sessanta – Lombardia, venticinque – Emilia, venti – Veneto, trentacinque.
La somma complessiva e le singole ripartizioni su citate saranno soggette a variazioni secondo le esigenze della situazione militare: la cifra massima sarà ridotta proporzionalmente man mano che le province saranno liberate.
6) Missioni alleate addette al CLNAI, al Comando generale dei volontari della libertà o a qualsiasi dei loro componenti saranno da loro consultate in tutte le questioni riguardanti la resistenza armata, le misure anti-incendi e il mantenimento dell’ordine. Gli ordini emanati dal comandante in capo delle armate alleate in Italia, in nome del comandante supremo alleato e trasmessi per il tramite delle competenti missioni, saranno eseguiti dal CLNAI, dal Comando generale dei volontari della libertà e dai loro componenti».
Parallelamente alle trattative con il comando supremo alleato, la delegazione del CLNAI ebbe ripetuti contatti con i servizi speciali angloamericani, per studiare in modo particolareggiato vari aspetti dell’attività partigiana e per concordare forme di collaborazione più proficue. Restava in sospeso ancora la questione del riconoscimento da parte del governo italiano.
Frattanto la crisi di governo s’era conclusa, dopo quindici giorni di trattative difficili e spesso aspre, con la formazione di un secondo ministero Bonomi. Era intervenuto un veto inglese alla candidatura del conte Sforza quale nuovo presidente del consiglio, e successivamente il nome di Meuccio Ruini, avanzato dal CLN, non aveva incontrato l’adesione dei partiti di destra. Per evitare un ulteriore prolungarsi della crisi non restava che tornare a Bonomi, il quale aveva ricevuto il reincarico dal luogotenente.
D’altra parte s’era sviluppato nel paese un vasto movimento a sostegno della politica del CLN, ed era intervenuto anche il CLNAI con un messaggio nel quale si affermava che un governo italiano non poteva «avere un consenso e un seguito nel nord se si distaccava dalla base dei CLN: la costituzione su altre basi avrebbe creato gravi difficoltà al movimento militare e politico nell’Italia del nord»; il messaggio invitava inoltre a «tenere presente che è convinzione profonda e intendimento di tutto il movimento dell’Italia del nord che sia attuato un profondo rinnovamento in senso democratico nell’alta politica italiana, non ritornando in nessun modo agli errori del passato».
Bonomi e le destre dovettero allora rinunciare momentaneamente al loro disegno e adeguarsi all’esigenza di risolvere la crisi nel quadro del Comitato di liberazione nazionale.
Su questa base il partito comunista restò nella coalizione governativa, svuotando così, malgrado l’astensione dei socialisti e degli azionisti, il piano delle forze conservatrici che miravano alla formazione di un «governo di tecnici» o ad una combinazione tra i soli partiti dell’ala moderata del CLN.
Tra le condizioni poste dal partito comunista, e formalmente accolte da Bonomi, vi furono l’istituzione di un ministero per l’Italia occupata, l’integrazione dei partigiani nell’esercito regolare e il riconoscimento del CLNAI come agente del governo nelle terre invase.
Erano le richieste fondamentali della delegazione del CLNAI. Il ministero per l’Italia occupata fu subito istituito, ma le sue competenze vennero poi ridotte al minimo da un intervento della commissione alleata. In quanto alle altre due richieste, il presidente Bonomi, nella prima riunione del nuovo consiglio dei ministri, il 20 dicembre, pronunciò una dichiarazione del seguente tenore: «Il governo ha già da tempo dichiarato che la lotta dei patrioti fa parte integrante dello sforzo bellico della nazione e che al CLNAI è delegato, in rappresentanza del governo stesso, il compito di dirigere l’azione dei patrioti nella sanguinosa lotta contro l’oppressore fascista e nazista. Ora il governo è lieto di constatare che anche il comando supremo alleato riconosce il CLNAI come organo rappresentativo di tutti i partiti antifascisti nel territorio occupato dal nemico. Con tale riconoscimento, che s’aggiunge a quello precedentemente dato dal governo italiano, e con gli aiuti che saranno concessi, il comitato dell’alta Italia potrà rinvigorire la lotta eroica che sostiene da molti mesi e che continuerà fino al giorno in cui l’Italia interamente liberata potrà, nella concordia degli italiani, decidere liberamente del suo destino».
Ancora una volta Bonomi cercava di eludere i problemi di fondo, ricorrendo alle già usate ed abusate formule interlocutorie che non andavano oltre un riconoscimento morale, senza alcun effetto pratico.
Intanto la delegazione del CLNAI, dopo un mese di permanenza nell’Italia liberata, era partita per il nord il 15 dicembre, dopo aver deciso che Giancarlo Pajetta sarebbe rimasto a Roma col mandato di continuare le trattative col governo e con gli alleati.
Ed infine, il 21 dicembre, Pajetta ottenne un riconoscimento che, malgrado i suoi limiti, era pur sempre un atto ufficiale del governo.
Pietro SecchiaFilippo Frassati, Storia della Resistenza. La guerra di liberazione in Italia. 1943-1945, Editori Riuniti, 1965

Le forze «progressiste» che volevano esautorare i prefetti in favore del CLN, e che avevano subito come un grave smacco politico, oltre che militare, il rinvio alla primavera della liberazione del nord, sbandieravano il pericolo delle «forze occulte della reazione in agguato» (fu coniata perfino una sigla, Fodria, per riassumere lo slogan). Il Consiglio dei ministri fu costretto a ribadire, in un comunicato, che l’Assemblea costituente era lo sbocco normale della procedura istituzionale.
Mentre democristiani e liberali pigiavano sul freno, i socialisti tentavano di forzare la mano a tutti, comunisti compresi. Per commemorare il XXVII anniversario della Rivoluzione russa si riunirono il 12 novembre (del ’44 si capisce) allo stadio di Domiziano sul Palatino (era stata rifiutata da Bonomi piazza Navona) ottantamila persone, e Nenni s’inebriò di demagogia: «Questo popolo – scrisse alquanto trombonescamente nel suo diario – mi considera come il suo interprete. Direi che sente che la parola mi è stata data per esprimere il mio pensiero, mentre intuisce in Togliatti una riserva mentale che lo turba. E’ stata una successione di ovazioni che hanno raggiunto il delirio ogni volta che ho attaccato la Monarchia. Non v’e dubbio che l’odio della massa è oggi diretto contro il Quirinale. E questa è stata, in grande parte, opera mia. Anche Togliatti stamattina ha dovuto alfine pronunciare la parola Repubblica».
Era una crisi particolarmente complessa, quella che si aprì a fine novembre del ’44, perché contrapponeva due autorità ormai inconciliabili, e irreconciliabili. Il Luogotenente diede l’avvio, nella più rigorosa osservanza delle forme, a consultazioni con le alte personalità dello Stato, e con quegli esponenti politici che accettavano di farsi consultare. Ma il CLN rivendicava il diritto di designare esso stesso, in nome dell’antifascismo, chi dovesse assumere la guida del paese, e lo fece chiamando a dirigere i suoi lavori il conte Sforza: che diventava così l’anti-Bonomi. Questa preferenza delle sinistre per il conte si scontrò subito con un veto britannico a che fosse nominato non soltanto Capo del governo, ma ministro degli Esteri. Se il primo veto, del giugno, era stato una iniziativa personale del generale MacFarlane, dalla quale gli americani si erano dissociati, questo di fine novembre fu comunicato ufficialmente a Bonomi e al CLN dall’ambasciatore di Londra, Charles.
Gli inglesi non perdonavano a Sforza d’aver rinnegato, rientrando in Italia dal lungo esilio, la promessa di mostrarsi collaborativo verso Badoglio e rispettoso verso la Monarchia. Parlando ai Comuni, Churchill disse che il veto era stato una ritorsione agli «intrighi (di Sforza ovviamente) che erano culminati nella espulsione del maresciallo Badoglio dal suo ufficio». Ma più tardi – avendo gli americani preso le distanze anche questa volta – addossò all’ambasciatore Charles la responsabilità maggiore del pesante intervento, che non fu però reso noto. Nel CLN Sforza spiegò la sua posizione. Ammise – e Nenni lo registrò – d’essersi impegnato ad appoggiare con la sua autorità Badoglio e il Re, ma aggiunse che, giunto a Brindisi, aveva visto «che il Re e Badoglio non avevano altro proposito che di salvare il fascismo nella sua sostanza se non nel suo nome».
Escluso Sforza, che rinunciò alla presidenza del CLN, socialisti e comunisti cercarono di ripiegare su Meuccio Ruini: ma nella schermaglia che si andava svolgendo Ruini fu rifiutato dai liberali e accettato dalla DC solo «in via subordinata», cioè se fosse caduta la riconferma di Bonomi. Questisapeva di manovrare da una posizione di forza, perché i suoi avversari erano disuniti, gli Alleati tendevano alla stabilità, e il Luogotenente avrebbe visto con soddisfazione un reincarico, che sarebbe anche stato una sconfitta, palese o mascherata, del più acceso schieramento repubblicano. Bonomi agì con accortezza da vecchia volpe: a democristiani, socialisti e comunisti inviò lettere con cui proponeva di associarli strettamente, dandogli tre vicepresidenze, nella gestione del futuro governo.
Scontata l’intransigenza del Partito d’azione del quale tuttavia si andava sempre più rivelando la scarsa presa popolare, la peggiore posizione era quella dei socialisti, che non volevano Bonomi, non volevano rompere l’unità d’azione con i comunisti, ma neppure volevano seguire i comunisti nel governo. La conclusione fu che Bonomi formò (7 dicembre) un ministero a quattro (liberali, democristiani, democratici del lavoro, comunisti), mentre socialisti e azionisti ne rimasero fuori. «Ieri – osservò amaramente Nenni – i comunisti avevano pubblicato che non si sarebbero divisi dai socialisti, ma è evidente che per loro marciare coi socialisti vuol dire che, in ogni caso, i socialisti devono seguirli.»
Pur di concludere, Bonomi diede al Pci qualche soddisfazione: elaborò un programma in base al quale l’epurazione e la repressione dei delitti fascisti sarebbero state accentuate (così come l’avocazione dei profitti di regime), lo sforzo di guerra avrebbe avuto una accelerazione, al CLNAI sarebbe stata data una delega di poteri governativi. Tutte queste sottolineature antifasciste non riuscivano però a cancellare la sensazione che la crisi avesse giovato ai moderati più che alle sinistre. Togliatti ebbe una vicepresidenza, e un’altra il cattolico Rodino. A De Gasperi andarono gli Esteri, al comunista Pesenti le Finanze, al liberale Arangio-Ruiz l’Istruzione.
Quello stesso 7 dicembre, in un salone del Grand Hotel, il generale inglese Maitland Wilson, Comandante delle forze alleate nel Mediterraneo, firmò un protocollo formale con i quattro delegati che il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) aveva inviato da Milano via Lugano-Lione: erano Ferruccio Parri, Giancarlo Pajetta, Edgardo Sogno, e Alfredo Pizzoni (quest’ultimo «ministro delle Finanze» della organizzazione partigiana).
Si era discusso, nei giorni precedenti – tra notevoli diffidenze alleate – sui lanci di armi al nord e sul finanziamento della guerriglia. Maitland Wilson offriva cento milioni al mese, Pizzoni ne voleva 160, e li ottenne: 60 al Piemonte, 20 alla Liguria, 25 alla Lombardia, 20 all’Emilia, 35 al Veneto. Il protocollo riconobbe il CLNAI e il CVL (Corpo Volontari della Libertà), stabilì che a liberazione avvenuta le armi sarebbero state riconsegnate, e che la Resistenza avrebbe rinunciato a pretendere l’inserimento dei suoi uomini nell’Esercito regolare.
Indro Montanelli Mario Cervi, Storia d’Italia. L’Italia della guerra civile. Dall’8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983