Con la primavera la sorte del fascismo repubblicano lucchese è segnata

Il chiostro, allo stato attuale, della Pia Casa di Lucca – Fonte: Wikimedia

All’indomani dell’8 settembre i tedeschi prendono il controllo della provincia di Lucca senza incontrare grande resistenza, nonostante le manifestazioni spontanee contro il fascismo successive al 25 luglio. Uno scontro significativo avviene nei pressi del Campo di detenzione dei prigionieri di guerra di Colle di Compito, dove il comandante resiste all’arrivo dei tedeschi, dando modo e tempo ai detenuti di fuggire, ma paga questa scelta con la vita (sua e di alcuni commilitoni). Proprio la caccia a questi evasi vede impegnate sulle colline lucchesi le truppe tedesche sin dalla fine del mese.
Si formano alcuni primi gruppi di partigiani, che cercano riparo sulle Pizzorne e sui monti della Garfagnana, ma la loro esistenza è assai travagliata, per la crescente pressione tedesca, e solo gli uomini della “XI Zona Patrioti” di Manrico Ducceschi riusciranno a passare questo primo inverno.
Mario Piazzesi è dal 21 ottobre il Capo della Provincia, e presiede alla riorganizzazione delle strutture fasciste. Si da manforte ai tedeschi nella lotta agli oppositori.
A inizio gennaio una retata scompagina l’antifascismo clandestino e mette in crisi sino alla tarda primavera l’attività del Cln di Lucca.
La caccia ai renitenti vive il suo apice nei primi mesi del 1944 (in particolare dopo la scadenza del “bando Graziani”, che sanziona con la pena di morte chi sceglie la clandestinità invece dell’arruolamento): la mattina del 25 marzo due giovani, Mario Marveggio e Alberto Cassiani, sono fucilati nei pressi del cimitero urbano di Lucca, dopo esser stati condannati a morte dal Tribunale militare straordinario di guerra, simulacro giuridico della politica fascista di “giusta punizione” nei confronti dei dissidenti.
A questa data, circa 120 ebrei sono già stati deportati da diverse settimane dalla Lucchesia alla volta dei campi di sterminio (per quasi tutti la destinazione sarà Auschwitz): dopo la Circolare del ministro dell’interno della Rsi Buffarini Guidi (30 novembre 1943), relativa appunto all’arresto e alla deportazione dei cittadini di razza ebraica, entra in funzione a Villa Cardinali, nei pressi di Bagni di Lucca, un campo di concentramento provinciale, e dalla metà di dicembre sono frequenti le azioni di polizia condotte dai fascisti e volte alla cattura degli ebrei.
Le strutture locali della Rsi non riescono però a fronteggiare la crescente crisi economica, appesantita dalla presenza di alcune decine di migliaia di persone che cercano riparo in Lucchesia dopo aver abbandonato le proprie abitazioni per fuggire ai bombardamenti alleati – gli sfollati provengono in massima parte, infatti, da Grosseto, da Livorno e da Pisa. E le bombe colpiscono anche a Lucca – il 6 gennaio 1944 è il quartiere di San Concordio in Contrada a subire gli effetti tremendi di un bombardamento impreciso diretto sulla stazione ferroviaria – contribuendo a incrinare ulteriormente la fiducia della popolazione nelle istituzioni fasciste.
Con la primavera la sorte del fascismo repubblicano lucchese è segnata.
Con una cronologia che rispecchia quanto avviene altrove, tra marzo e aprile il movimento partigiano riprende vigore, e inizia a contendere il controllo del territorio ai reparti della Gnr, in particolare sulle Apuane, sulle alture della Versilia e in Garfagnana.
Il Cln di Lucca riesce ad assolvere una più fattiva funzione di coordinamento, e l’impegno dell’antifascismo clandestino si giova anche dell’appoggio di settori importanti della chiesa cittadina: l’arcivescovo Torrini e molti suoi sacerdoti – a cominciare dalla congregazione degli Oblati del Volto Santo – danno manforte sin dall’autunno 1943 alla rete clandestina di assistenza agli ebrei organizzata da Giorgio Nissim, che riuscirà a garantire la salvezza ad oltre 800 persone, e nei mesi successivi si impegnano nella attività di assistenza e tutela della comunità (e degli sfollati), finendo per compiere una chiara scelta di campo a favore della pace, schierandosi spesso dalla parte di coloro che sono ricercati o identificati come nemici del fascismo e del nazismo, quali appunto ebrei, renitenti, ma anche antifascisti (le riunioni del Cln si terranno a lungo nei locali dell’ex-seminario cittadino).
Sono allora i tedeschi che, dall’aprile in avanti, si fanno carico con maggior solerzia della gestione dell’ordine pubblico.
Si comincia a dar la caccia non più solo ai “banditi” (l’appellativo comunemente assegnato ai partigiani da parte dei tedeschi ma anche dei fascisti), ai renitenti e agli ebrei, ma direttamente ai civili, agli uomini adulti, a coloro che hanno braccia valide e sono in grado di lavorare. Capito che il tracollo è vicino, le autorità tedesche cercano di sfruttare al massimo il territorio occupato, non più solo le sue risorse economiche e materiali, ma anche quelle umane, secondo un preciso disegno che accomuna i sistemi di occupazione impiantati dal nazismo in Europa.
Il 9 maggio 1944 Piazzesi lascia Lucca e viene dirottato a Piacenza. Al suo posto, come Capo della provincia, il medico Luigi Olivieri. Alla fine del mese si tenta addirittura di organizzare lo sfollamento dell’intera popolazione provinciale oltre l’Appennino, per lasciare assoluta libertà di movimento. Il piano resta sulla carta.
Roma viene liberata di lì a qualche giorno. La guerra arriva in Toscana. Molti dirigenti fascisti della città partono per il Nord.
Il 4 luglio anche la provincia di Lucca viene dichiarata “zona di operazioni” e sottoposta quindi al controllo diretto dell’esercito tedesco. La pressione sui partigiani, la caccia agli antifascisti e ai componenti del Cln, le requisizioni e gli arresti degli uomini adulti rappresentano il volto quotidiano della presenza tedesca in Lucchesia in questi ultimi due mesi di occupazione (la Liberazione di Lucca è datata 4 settembre 1944).
Il 29 giugno a Valpromaro una rappresaglia attuata dai tedeschi dopo uno scontro con i partigiani porta alla fucilazione di dodici civili. In quello stesso giorno, a Lucca, sono uccisi il partigiano Gino Del Pistoia e il comandante delle Sap cittadine, Roberto Bartolozzi. Un’altra strage colpisce il 27 luglio sei contadini di Monte S. Quirico.
In quei giorni, arriva in Lucchesia e si stabilisce tra Nozzano e San Macario la XVI divisione corazzata “Reichsfuhrer-SS”, comandata dal generale Simon, e guidata da un corpo ufficiali composto da nazisti della prima ora e da soldati che hanno alle spalle una lunga esperienza di impiego nelle strutture dello Sterminio e di guerra sul fronte orientale. Saranno questi uomini a guidare sul campo i soldati (molti dei quali giovani e giovanissimi) nel corso delle strage di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto).
Il 4 agosto viene ucciso don Aldo Mei. E’ un evento-simbolo, il segno palese di come i tedeschi abbiano ormai qualificato la chiesa cittadina come un’istituzione avversa, da guardare con sospetto: diversi saranno i sacerdoti ricercati e arrestati in queste settimane, alcuni saranno costretti a nascondersi in attesa della Liberazione, altri riusciranno a salvarsi solo grazie all’intervento diretto del vescovo Torrini, altri ancora saranno uccisi.
In questo quadro, attorno alla metà di giugno, era transitato da Lucca Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano, nel corso di un viaggio nell’Italia centrale, che gli servirà per fotografare poi a Mussolini lo sfacelo delle strutture della Rsi.
E’ lui che decide di lasciare in città uno dei suoi uomini più fidati, Idreno Utimpergher, con il compito di presiedere alla militarizzazione del fascismo lucchese e quindi alla organizzazione di una brigata nera, la XXXVI, denominata poi “Mussolini” in onore del Duce (in seguito, il nome muterà in “Natale Piagentini”, un milite caduto).
Entreranno a farne parte oltre 200 persone. Molti giovani e giovanissimi, educati al fascismo e alla sua dimensione valoriale, che trovano proprio nella guerra l’impulso alla “scelta”, talvolta declinata come “ribellione” giovanile; ma anche trentenni irrequieti e delusi dal fascismo-regime degli anni trenta, che rivendicano con questo arruolamento la loro convinta fede in Mussolini e scelgono di combattere non tanto “con” i tedeschi quanto “per” l’Italia e “contro” i “traditori” e i “vigliacchi” (e anche da questo deriverà una palese solerzia nel muoversi in piena autonomia); e infine i vecchi fascisti che hanno ritrovato nella stagione della Rsi un “secondo tempo” dell’esperienza squadrista e della guerra civile del 1919-22.
Saranno questi volontari a scrivere assieme a Utimpergher l’ultima pagina di storia del fascismo repubblicano lucchese. Una storia a suo modo importante, visto che la “Mussolini” assolverà un ruolo centrale di controllo dell’ordine pubblico, in particolare a Lucca e dintorni prima e in Garfagnana poi, come testimoniano le schede che, corredate da alcuni documenti, sono riportate nelle pagine che seguono.
[…] Figlio di artigiani di lontane origini austriache, Idreno Utimpergher nasce ad Empoli il 9 dicembre 1901, dalla madre Drusola Dicomani e dal padre Giovanni, vetraio, originario di Murano. Trascorre la sua giovinezza nella cittadina toscana, simpatizza da adolescente per il socialismo rivoluzionario e, quindi, aderisce al movimento fascista fin dalla marcia su Roma. Dopo l’impegno nel Pnf empolese, sia nelle organizzazioni giovanili che in quelle del Dopolavoro, imbocca la carriera del sindacato al quale si dedica per oltre un ventennio ricoprendo la carica di segretario provinciale dei sindacati dell’industria a Vercelli (dove diventa segretario della Corporazione dei Lavoratori dell’Industria), Mantova, Udine, Palermo e Taranto e infine Trieste.
Nella città giuliana, apre la sede del Pfr già il 10 settembre (la seconda in Italia, dopo Bologna), quindi ricopre anche l’incarico di direttore del quotidiano “Il Piccolo” e, assieme ad alcuni triestini, spostandosi in corriera da un centro all’altro, presiede spesso con la violenza alla riapertura delle sedi fasciste di Venezia, Rovigo, Padova, Treviso e Belluno. Nel contesto del confine orientale, che vede Trieste capitale dell’Adriatisches Kustenland, Utimpergher si trova perfettamente a proprio agio. Il 29 settembre si nomina commissario del Pfr cittadino, e concede la tessera numero due a Beniamino Fumai, che con la sua squadra dei “Mai Morti” dà manforte alla durissima politica repressiva che Utimpergher avvia seminando il terrore con rapine, estorsioni e assassinii. Un eccesso di violenza per molti tra gli stessi fascisti triestini, che tra fine novembre e inizio dicembre riescono a ottenere la sua destituzione e quella dello stesso Fumai. I “Mai Morti”, dopo un lungo vagabondare, approdano a La Spezia (dove entreranno poi a far parte della X-Mas di Junio Valerio Borghese, partecipando alle stragi naziste di Mommio e di Forno nel maggio e giugno 1944 e a diversi rastrellamenti antipartigiani in Lunigiana in luglio) mentre Utimpergher continua la sua azione a Maderno (Bresciano), sino a quando nel giugno 1944 si trova ad accompagnare il segretario del partito fascista repubblicano Pavolini in un viaggio nell’Italia centrale, dove le strutture della Rsi sono prossime al disfacimento, man mano che gli Alleati, dopo la Liberazione di Roma (4 giugno), risalgono la penisola.
Ancor prima della pubblicazione del decreto costitutivo delle Brigate Nere, datato 30 giugno 1944, Utimpergher mobilita a Lucca la Brigata Nera “Mussolini”, un nucleo di fedelissimi da impiegare nella lotta contro i resistenti ed affiancare alle attività degli occupanti tedeschi.
Con il passare delle settimane, Utimpergher conquista per sé e per la brigata un ruolo sempre più importante, finendo per rappresentare l’unica e l’ultima autorità della Repubblica di Salò in provincia di Lucca. A seguito del trasferimento del capo della provincia Olivieri si autonomina Comandante militare della provincia e gestisce l’intera amministrazione nominando una serie di nuovi commissari prefettizi. Al contempo, i militi della Brigata Nera ed il suo comandante saccheggiano, requisiscono, partecipano e organizzano i rastrellamenti, compiono attività di delazione, eseguono rappresaglie, interrogano seviziano e condannano a morte i sospetti partigiani (o di altre forme di “attività antinazionale”).
Il 31 agosto 1944, con gli Alleati alle porte, il comandante Utimpergher decide di concentrare su Lucca tutti i distaccamenti e i presidi della “Mussolini” per organizzare la ritirata al nord. Il 2 settembre la maggior parte della XXXVI lascia la città a bordo di alcuni camion e trasferisce il comando a Bagni di Lucca; di qui sarà la volta di Barga, finché il 10 ottobre ’44 Utimpergher e i suoi abbandonano definitivamente la Toscana.
Il pellegrinaggio della “Mussolini”, che continua a svolgere dovunque si trovi funzioni di ordine pubblico e operazioni antipartigiane, tocca Pavullo, nel Modenese, Piacenza ed infine nel febbraio ’45 si sposta in Piemonte, stabilendosi a Pinerolo, e operando quindi nelle zone di Cavour, Bricherasio e in Val Pellice. Alla immediata vigilia della insurrezione e della Liberazione, il 22 aprile, l’autoblinda della XXXVI Bn parte alla volta di Milano, dove Pavolini ha ordinato il raduno di quanto resta delle Brigate Nere. Dopo numerosissime defezioni la “Mussolini” è ormai ridotta a poche unità, tuttavia raggiunge Milano e di qui parte alla volta della Valtellina, dove Pavolini – che viaggia proprio assieme agli uomini di Utimpegher – intende approntare l’ultima difesa di Mussolini.
La colonna è fermata dai partigiani. Utimpergher, arrestato, viene fucilato il 28 aprile 1945 sul lungolago di Como, a Dongo, insieme a Pavolini e ai gerarchi, mentre i pochi brigatisti lucchesi rimasti (una decina) riusciranno a scampare all’esecuzione.
[…] Il pomeriggio del 3 agosto 1944 un piccolo gruppo di partigiani appartenenti alla XXIII Brigata d’Assalto Garibaldi “Nevilio Casarosa” si apposta nei pressi del paese di S. Lorenzo a Vaccoli in attesa del passaggio di una motocicletta diretta a S. Maria del Giudice. A bordo, secondo le segnalazioni ricevute, dovrebbero trovarsi due militi della Brigata Nera, Luigi Giorgetti ed Emilio Dal Poggetto, due fascisti della zona assai noti per aver preso parte a diversi episodi di violenza e di prepotenza contro gli abitanti del posto: minacce, requisizioni, irruzioni nelle abitazioni, avvenute non solo negli ultimi mesi ma risalenti anche agli anni precedenti la guerra.
Al passaggio della motocicletta i partigiani aprono il fuoco: in realtà a bordo non vi sono né Giorgetti né Dal Poggetto, bensì due altri brigatisti neri, Gualtiero Casali (che rimane illeso) e il tenente Sante Barbieri, lievemente ferito alla nuca e alla spalla. L’attacco ai due brigatisti della “Mussolini” si inserisce in una strategia di disturbo, fatta di sabotaggi, piccoli attentati, modesti attacchi alle forze tedesche e ai fascisti repubblicani, che i resistenti dislocati sui Monti Pisani portano avanti ormai da alcuni mesi.
I due fascisti riescono comunque a raggiungere il comando della brigata e a dare notizia dell’agguato. Informato sull’accaduto Utimpergher chiama immediatamente a rapporto gli ufficiali, raduna una settantina di brigatisti nel Cortile degli Svizzeri, sede della Prefettura e del Comando, e dà ordine di raggiungere la località nella quale è avvenuta la sparatoria.
Appena giunti sul posto, Utimpergher ordina ai suoi uomini di dividersi in piccole squadre capitanate ciascuna da un ufficiale e battere le campagne circostanti: all’obiettivo della cattura dei partigiani che hanno organizzato l’agguato, si salda la volontà di attribuire una punizione esemplare agli abitanti di S. Lorenzo a Vaccoli, che non avendo impedito i movimenti dei “ribelli” si sono resi complici delle loro azioni.
Il discorso di Utimpergher scatena la violenza fascista: i militi della Brigata si distribuiscono in ogni parte del paese, sparano colpi di fucile e di mitraglia all’impazzata, entrano nelle abitazioni e rompono, devastano, depredano, lanciano delle bombe a mano nelle capanne mandando in fumo i fabbricati ma soprattutto gli attrezzi agricoli e il grano ammassato, un danno economico gravissimo per i contadini, nella drammatica estate del 1944.
Armi in pugno, i brigatisti si divertono a minacciare le donne del paese e i pochi uomini che non sono riusciti a nascondersi. Vengono presi in ostaggio cinque abitanti di S. Lorenzo a Vaccoli, contadini completamente estranei al movimento partigiano, che saranno poi deportati in Germania, dove trascorreranno i due anni successivi nei campi di lavoro nazisti, per fare ritorno in Italia soltanto a guerra conclusa.
Il giorno successivo, il 4 agosto 1944, “Brigata Nera Mussolini”, il giornale del fascio repubblicano di Lucca, pubblica un articolo dal titolo “Un vile agguato contro il S. Tenente Sante Barbieri” e liquida così l’episodio: «Il deplorare soltanto questi fatti di banale delinquenza è ormai inutile. Quindi le leggi di guerra hanno dato le loro durissime sanzioni. Alcuni abitanti della località ove è avvenuto il fatto, che non hanno disarmato o denunciato i delinquenti – riconoscibili perché in borghese ed armati di mitra – sono stati arrestati e saranno passarti per le armi od inviati pei campi di lavoro in Germania e la località è stata quasi completamente incendiata».
[…] A queste manifestazioni di criminalità comune, i brigatisti affiancano una costante attività ausiliaria nelle attività condotte dalle truppe tedesche. Tra queste, la caccia agli uomini adulti.
Dopo il fallimento del tentativo di creare un sistema “volontario” di raccolta della manodopera, da inviare in Germania o a lavorare alle fortificazioni sulla Gotica – il Plenipotenziario tedesco Sauckel aveva stimato in un milione e mezzo di persone il fabbisogno del Reich, mentre alle fine del 1944 gli arruolati su base volontaria sarebbero stati solo 65000 – in queste settimane vengono emanati degli ordini molto precisi che istruiscono una campagna sistematica di acquisizione terroristica della forza lavoro.
La base di questa attività per la Toscana nord-occidentale diventa la Pia Casa, un ex- centro di assistenza requisito nel pieno centro di Lucca, in via S. Chiara. Di qui, i lavoratori sono inviati verso nord, in genere al Campo di Fossoli che, dopo aver funzionato come centro di transito dei diversi convogli di ebrei destinati allo sterminio, con i primi di agosto viene “requisito” da Sauckel e diventa un centro di detenzione temporanea e “transito” per la manodopera (denominato “Dulag”, per la precisione il n. 152), che viene smistata verso le diverse destinazioni, in Italia o in Germania.
Le spedizioni colpiscono a più riprese le campagne della Lucchesia. Poi è la volta del centro cittadino.
All’alba del 21 agosto 1944 vengono chiuse le porte che consentono l’ingresso e l’uscita dalla città attraverso le mura. Un camioncino, dalle 7 alle 14, percorre in lungo e in largo le vie del centro: alla guida e all’altoparlante, in compagnia di alcuni militari delle Ss, ci sono Almo Dal Poggetto e Orlandino Giorgetti, attendenti di Utimpergher. Ripetono incessantemente una comunicazione: gli uomini tra i 15 e i 45 anni devono immediatamente presentarsi al baluardo di Porta Elisa, in caso contrario, se verranno trovati, saranno passati per le armi.
Gli uomini della “Mussolini” partecipano al rastrellamento assieme ad altro personale italiano e alle Ss della XVI Divisione “Reichsfuhrer-SS”. Si organizzano le squadre e si assegna ad ognuna un quartiere, con l’ordine di perquisire e fare irruzione nelle abitazioni, negli scantinati, nei sottotetti, allo scopo di trovare e catturare il maggior numero possibile di uomini validi. La presenza degli italiani è fondamentale per la riuscita del rastrellamento: essi sfruttano la conoscenza dei luoghi e delle persone e collaborano attivamente con i tedeschi. In alcuni episodi i brigatisti della “Mussolini” si dimostrano addirittura più intransigenti dei tedeschi: diversi sono i casi di giovani uomini prima rilasciati da questi ultimi e poi nuovamente e definitivamente catturati dai militi di Utimpergher.
Alla fine della giornata i rastrellati, alcune centinaia, vengono condotti alla Pia Casa, dove, una volta accertato lo stato di salute e l’abilità al lavoro attraverso una serie di visite mediche, se ne decide la successiva destinazione. Un destino analogo toccherà dopo alcuni giorni, il 27 agosto, a 68 agenti ausiliari di polizia, arrestati ancora una volta nel centro di Lucca: solo alcuni subiranno una sorte diversa, in quanto saranno costretti ad arruolarsi nelle file della Bn.
[…] Il 24 agosto un rastrellamento investe il Monte Faeta. Ad accompagnare gli uomini della XVI divisione c’è anche un gruppetto di italiani appartenenti alla Brigata Nera “Mussolini”: diversi testimoni li ricordano indossare mascherine per coprire il volto e giacche mimetiche tedesche, come a voler camuffare l’uniforme fascista.
La colonna dei militari, una cinquantina circa, arriva alle pendici del Faeta nelle prime ore del mattino ed inizia a risalire il monte dividendosi in diverse squadre. I brigatisti neri presenti quella mattina conoscono i sentieri e la posizione di molte capanne che ospitano gli sfollati e che sono sparse sulle alture del monte, quindi si spostano in piccoli gruppi, guidando i tedeschi nelle perlustrazioni. Un paio di donne scorgono la colonna dei militari e cercano di dare l’allarme ma gli sfollati sono molti e non tutti riescono a nascondersi: in località Leggeri, dove si trova un cascinale che ospita quasi trecento persone, vengono catturati Nello Del Brina e Corrado Legnaioli. Poco distante, accampati nei pressi di una carbonaia, i militari sorprendono altri cinque giovani uomini, appartenenti ad una pattuglia partigiana composta di sfollati provenienti da S. Giuliano Terme. Dopo un breve controllo dei documenti ne viene decisa l’immediata fucilazione: Legnaioli riesce a fuggire mentre Nello Del Brina, Claudio Genovesi, Virgilio Sensi, Mario De Ranieri, Renzo Giusti e Nello Ciampi vengono uccisi a raffiche di mitra nel piazzale della carbonaia.
Un’altra squadra, composta da elementi tedeschi e italiani, si muove invece in località Spadino, dove ancora una volta trovano rifugio una trentina di persone. Riescono a fuggire quasi tutti ad eccezione di Lino Meini, Egidio Rossi e Nello Dini. I tre vengono condotti dietro una capanna e fucilati. Dopo le esecuzioni a Leggeri e a Spadino, il rastrellamento prosegue per tutta la mattina con la cattura di una sessantina di civili.
Raggiunto il paese di Vorno, dove si trovano una decina di brigatisti lucchesi ad attendere la colonna, i rastrellati vengono suddivisi in due gruppi: coloro che sono stati catturati nelle case e nelle capanne, sono caricati su un camion e condotti alla Pia Casa; quelli scovati tra i boschi, una decina, restano a disposizione dei tedeschi. Tra questi ultimi Alcide Cacciamano, che verrà fucilato sulle alture di Spadino un paio di giorni dopo. Gli altri, probabilmente, sono instradati verso gli altri centri di detenzione approntati dai tedeschi tra Massa e Carrara per gestire il flusso di manodopera verso la Pianura Padana e la Germania.
[…] Alla vigilia della liberazione di Lucca, nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944, una pattuglia di soldati tedeschi appartenente alla XVI divisione “Reichsfuhrer-SS” irrompe nella Certosa dello Spirito Santo, a Farneta. Vengono catturati tutti i monaci presenti, assieme ad oltre un centinaio di civili che, a partire dall’inverno precedente, hanno trovato rifugio e protezione entro le mura del monastero.
Tra loro alcuni ebrei – i certosini, per il tramite del loro padre procuratore, Gabriele Costa, sono da tempo in contatto con l’arcivescovo Torrini, con gli Oblati e con Nissim, e contribuiscono all’attività della “sua” rete clandestina di assistenza agli ebrei – ma anche ex-fascisti, antifascisti, alcuni partigiani, diversi renitenti alla leva e molti contadini dei paesi limitrofi, che da alcune settimane dormono nelle cellette dei frati per timore dei rastrellamenti tedeschi volti a catturare manodopera.
[…] I prigionieri di Farneta iniziano il 2 settembre la loro odissea. Divisi in gruppi, sono instradati verso nord. Transitano prima da un centro di detenzione posto a Nocchi di Camaiore, da dove alcuni vengono prelevati e “usati” come vittime per l’attuazione di una rappresaglia, inscenata a Pioppetti di Camaiore in risposta ad un agguato compiuto dai partigiani della zona che cercano di ostacolare la ritirata tedesca.
Quindi sono divisi in due gruppi e direzionati verso Apuania – eccezion fatta per due anziani frati che chiedono di restare, e verranno uccisi – assieme ad altre centinaia di persone rastrellate nei primissimi giorni di settembre sulle colline che separano Lucca dalla Versilia.
I responsabili della comunità monastica, assieme ai rifugiati identificati dai nazisti e ai sospetti di una qualche forma di attività antitedesca, sono condotti presso il carcere Malaspina di Massa. Di qui, sono prelevati la mattina del 10 settembre, assieme ad altri detenuti, tra i quali altri due sacerdoti della diocesi di Lucca, e uccisi a piccoli gruppi in diverse località della periferia cittadina.
[…] Idreno Utimperghe firma la costituzione di due distaccamenti delle Brigate Nere in Garfagnana il 16 agosto 1944. il primo si disloca a Fosciandora, al comando del sotto tenente Aurelio Ricci Aurelio, il secondo invece opera a Castelnuovo di Garfagnana alle dipendenze del sotto tenente Silla Turri.
Il 20 agosto, nei locali del comune di Castelnuovo di Garfagnana, presso la Rocca Ariostesca, esplode una bomba ad orologeria che uccide un milite della Brigata nera, Giovanni Battaglini detto “Torello”: a compiere l’attentato sono gli uomini del 3° battaglione della I divisione Garibaldi Lunense. Nei giorni successivi i brigatisti del distaccamento di Castelnuovo, coadiuvati da altri commilitoni giunti da Lucca, arrestano 10 persone e le trasferiscono a Lucca, dove saranno poi liberate da un gruppo i partigiani guidati da Mario Bonacchi.
La permanenza delle Bn in Garfagnana si contraddistingue per una serie di rastrellamenti antipartigiani compiuti sia in affiancamento alle truppe tedesche sia in autonomia. La contrapposizione con i partigiani cresce in intensità, al pari della rabbia nei confronti della popolazione civile, accusata di dar manforte ai “banditi” o comunque di non esprimere sufficiente sostegno e consenso agli uomini di Utimpergher che, dopo aver lasciato Lucca, ha spostato il comando della “Mussolini” prima a Bagni di Lucca e quindi a Barga.
[…] Il 22 settembre alcuni uomini della 3a brigata (denominata “Casino”) della divisione partigiana “Lunense”, organizza una serie di azioni con lo scopo di creare confusione e tentare di liberare il partigiano Luigi Berni, recluso a Castiglione Garfagnana dal 19 settembre.
Nel corso di una di queste azioni viene catturato dai tedeschi il partigiano Bruno Valori, consegnato agli uomini di Utimpergher. Attorno alle 9 della sera del 22 settembre, i partigiani assaltano la sede della Bn di Castelnuovo Garfagnana, situata presso il convento dei Cappuccini, lanciando alcune bombe a mano e sparando raffiche di mitra, provocando diversi feriti. La risposta è immediata. Organizzatisi già nel corso della nottata, i fascisti sono già operativi nelle prime ore del mattino seguente. Utimpergher ordina a tutti i presidi di convergere su Castelnuovo.
Comincia un pattugliamento serrato. attorno alle 7 del mattino sono assassinati 3 contadini (Alfiero Orazzini, Duilio Cavallini e Edoardo Lazzerini) che stanno provvedendo alla vendemmia nei pressi del convento. La loro unica colpa è la vicinanza fisica al luogo della azione partigiana.
Dopo una riunione tra Utimpergher e i suoi ufficiali, si avvia un rastrellamento che si irradia dal convento lungo tre direttrici, e che conduce all’arresto di diversi civili e al saccheggio e all’incendio di alcune abitazioni e capanne.
Verso le 11, dentro il convento, sede come detto del presidio della Bn, il partigiano Bruno Valori viene ucciso, dopo essere stato ripetutamente percosso nel corso di un interrogatorio: i brigatisti ne ordinano il seppellimento ad alcuni dei civili catturati nella mattinata.
La rappresaglia prosegue quindi nel pomeriggio, con un’altra azione coordinata “a tenaglia” di due squadre di fascisti che si dipana lungo le due rive del fiume Serchio, in direzione Fosciandora.
Ancora numerosi sono i furti e gli incendi delle abitazioni incontrate durante il rastrellamento: in una casa, in località Merlacchiaia, sono uccisi quattro contadini (Decimo ed Ottavio Bacci e Fernando e Giovanni Guidi) trovati intenti a scavare un rifugio anti aereo.
Luigi Berni
Nato a Bagno di Romagna nel 1894, Berni partecipa alla guerra partigiana nel III battaglione della “Lunense”, comandato da Giovanni Bertagni.
Viene arrestato dai tedeschi a Sasso di Filicaia (lungo la strada che da Castelnuovo Garfagnana conduce a Camporgiano) la mattina del 19 settembre, assieme a tre compagni (Ulisse Bonini, Oreste Fusai e Nello Biagioni): con sé ha un cannocchiale, una pistola, un coltello, un orologio e una notevole somma di denaro.
I quattro sono condotti a Castelnuovo presso la sede della Feldgendarmeria, nel quartiere di “Carbonaia”, e quindi a Castiglione di Garfagnana, dove vengono affidati al locale distaccamento delle Bn, retto da Aurelio Ricci. I partigiani cercano di liberare i quattro.
Berni viene ripetutamente e duramente percosso durante un lungo interrogatorio, nel corso del quale i brigatisti neri tentano anche di introdurre nella stanza ove egli è recluso un “finto” partigiano, per cercare di carpire informazioni.
Mentre gli altri tre compagni sono rilasciati, egli viene trasferito presso la locale sede di un distaccamento di truppe tedesche, dove viene nuovamente malmenato e tenuto senza mangiare e bere, per alcuni giorni. I fascisti tornano più volte a interrogarlo e seviziarlo.
Secondo alcune testimonianze, il partigiano scrive sul muro della stanza ove è recluso, utilizzando il sangue che gli esce dalle ferite: «Non vi ho tradito. I miei nemici li conoscete. Sangue del Berni», una scritta che è riportata anche nella motivazione della concessione della Medaglia d’oro al Valor militare, concessa dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nel 1994.
A quanto pare, il 27 settembre sono proprio alcuni degli uomini di Utimpergher che, guidati ancora da Aurelio Ricci, e assieme ai soldati tedeschi, dopo avergli legato una corda al collo lo trainano con un camion per alcuni chilometri, lungo la strada che conduce a Modena, sino a che, stremato, Berni si lascia andare: il corpo viene abbandonato nei pressi di Terrarossa. […]
(testi a cura di) Gianluca Fulvetti, Giulia Gemignani e Carlo Giuntoli, fascismo, guerra, violenza. Lucca 1943-1944. Rileggere la storia, vivere il presente, 19 febbraio 2010, quaderno speciale, Scuola per la Pace della provincia di Lucca, Provincia di Lucca

I Padri certosini del convento di Farneta, piccolo paese della periferia di Lucca, diventano nell’estate del 1944 punto di riferimento per gli appartenenti alla comunità locale, per sfollati, ebrei, ex-fascisti, tutti ospitati entro le mura della Certosa per evitare la violenza nazista e la deportazione. Il clima si fa più teso a partire dal mese di agosto, quando la “guerra contro i civili” colpisce anche la Piana di Lucca: la violenza tedesca cresce con la fine del mese, man mano che l’esercito alleato avanza da Sud, e si palesa la necessità di lasciare la Lucchesia per ritirarsi lungo la Linea Gotica. Nella notte del 2 settembre 1944, alla vigilia della Liberazione di Lucca, un gruppo di SS entra nel convento e rastrella le circa 100 persone, tra religiosi e civili, ivi residenti. Concentrate tutte le persone (monaci inclusi) in una stanza, la mattina successiva i tedeschi le fanno incamminare lungo la strada che conduce in Versilia. Le vittime sono rinchiuse sino al 6 settembre in un capannone nei pressi di Nocchi di Camaiore. Nel frattempo, in tutta la zona si intensificano le azioni di rastrellamento e di sfollamento forzato, ed anche la pressione sulle diverse formazioni partigiane che cercano di rallentare e ostacolare le operazioni di ritirata dalla Lucchesia in direzione della Versilia. Molte altre decine di civili vengono rinchiusi nel capannone di Nocchi. Già il pomeriggio del 3 settembre sono tre gli ostaggi che vengono prelevati e uccisi nella vicina Orbicciano. Il giorno successivo è la volta di altre 31 persone, caricate su dei camion, portate a Pioppeti e qui fucilate e poi legate agli alberi con del filo spinato, secondo un rituale che ritroviamo anche a Bardine San Terenzo e in altre stragi compiute dalle SS di Simon in Emilia. Coloro che son rimasti a Nocchi, il 6 settembre vengono condotti verso Massa e Carrara, in due distinti contingenti. Gli appartenenti al secondo gruppo passarono prima da Camaiore, e qui sono incolonnati insieme ad altri rastrellati provenienti dalla piana di Lucca e condotti a Massa. Due dei monaci più anziani, lo svizzero Martino Binz e l’ex-vescovo venezuelano Montes de Oca, chiedono di non proseguire a piedi non essendo in grado di affrontare il viaggio verso Massa a piedi: vengono uccisi tra Camaiore e il Montemagno. Giunti a Massa, i rastrellati della Certosa sono nuovamente divisi: gli abili al lavoro vengono inviati al campo di Fossoli (Modena) e, di qui, alcuni saranno poi deportati in Germania. I più anziani e i più qualificati agli occhi dei tedeschi (cioè coloro che ricoprivano le cariche principali all’interno della comunità monastica; ed altri ricercati politici, tra i quali l’ex-questore di Livorno Moraglia e il direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano di Lucca, Lippi Francesconi) vengono prelevati nel corso della giornata del 10 settembre dal carcere di Malaspina di Massa, ed uccisi a piccoli gruppi.
Gianluca Fulvetti, Certosa di Farneta, 02-10.09.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

Maurizio Moraglia, nato ad Oneglia il 5 luglio 1898, venne fucilato il 10 settembre dalle SS della Divisione “Reichsfuerer” nel corso delle stragi seguite all’irruzione dei soldati tedeschi nella Certosa di Farneta (MS).
Il questore di Livorno Maurizio Moraglia, già console della Milizia e squadrista, dopo l’8 settembre aveva iniziato ad avvicinarsi agli ambienti dell’antifascismo e della Resistenza, tanto da essere costretto ad allontanarsi dalla città quando su di lui avevano iniziato ad addensarsi i sospetti da parte delle autorità nazifasciste.
Rifugiatosi con il figlio sedicenne Vittorio all’interno della Certosa di Farneta, il 2 settembre vi era stato catturato dai nazisti che vi avevano fatto irruzione insieme a decine di altri fuggitivi che avevano cercato rifugio nel luogo sacro ed ai monaci dello stesso convento.
Le fucilazioni degli ostaggi della Certosa di Farneta iniziarono il giorno successivo. Il 10 Settembre il questore Moraglia, il figlio Vittorio ed un’altra ventina di ostaggi vennero trasportati a Marina di Massa e qui giustiziati dai tedeschi. Le vittime della Certosa di Farneta furono circa sessanta.
Solo alla fine degli anni ’90 si poté avviare un’inchiesta sull’eccidio, ma il successivo processo portò all’assoluzione per non avere commesso il fatto di un anziano cittadino tedesco, accusato di essere stato nel 1944 l’ufficiale responsabile del massacro.
Redazione, Moraglia Maurizio, I Caduti della Polizia di Stato

[A questo collegamento, indicato dal sopracitato articolo de “I Caduti della Polizia di Stato” diversi atti processuali relativi alla strage della Certosa di Farneta]