Dai reparti confino in FIAT alla prime avvisaglie di autunno caldo

All’interno delle fabbriche, dunque, il clima era teso. Alla Fiat di Torino erano stati numerosi i licenziamenti per ragioni politiche o sindacali ed erano frequenti controlli e perquisizioni. All’inizio degli anni Settanta, un’indagine della procura di Torino aveva accertato che, fra il 1949 e il 1966, l’Ufficio Servizi Generali aveva redatto oltre duecentomila schede relative a impiegati e operai dell’azienda, grazie anche alla collaborazione di funzionari di polizia, carabinieri, agenti del Sid, che avevano ricevuto compensi in denaro in cambio di notizie di carattere riservato. La Fiat, tuttavia, non era un caso isolato; iniziative analoghe erano state prese anche dalle direzionali aziendali di altre fabbriche, come denunciò, nel 1955, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni nelle fabbriche. Questa ondata di licenziamenti, che colpiva i nuclei «tradizionali» dei lavoratori, era controbilanciata da assunzioni sempre più massicce <132.
Intorno alla metà degli anni Cinquanta, infatti, le imprese più grandi del nord cominciarono a reclutare una nuova generazione di lavoratori – negli anni del «miracolo» la forza lavoro industriale sarebbe cresciuta complessivamente di un milione di unità <133 -, uomini e donne con poca esperienza di lavoro in fabbrica e sindacale. Se inizialmente questi lavoratori erano soprattutto di origine settentrionale, dalla fine del decennio, gli imprenditori si rivolsero in misura crescente alle migliaia di immigrati che provenivano da un sud afflitto dalla mancanza di lavoro. Nell’arco di pochi anni, questo modello di industrializzazione avrebbe inasprito le differenze tra «il nord avanzato e il mezzogiorno semifeudale» <134.
A pesare, però, non erano soltanto gli squilibri regionali. I benefici derivanti dalla ripresa industriale non si erano estesi in modo uniforme a tutti i settori della società e fu proprio la mancata redistribuzione dei benefici a determinare uno scarto notevole fra l’incremento dei salari e quello della produttività <135, e, di conseguenza, ad innescare la ripresa della conflittualità sociale.
Lo sviluppo economico italiano, che poggiava sul costante aumento del gap fra salari, produttività e produzione, fu trainato dalle esportazioni a causa dei differenziali di costo della manodopera fra l’Italia e gli altri paesi industriali. Di fatto, fu il basso costo del lavoro a permettere alle imprese italiane di presentarsi in modo estremamente competitivo sui mercati internazionali <136.
Nel corso degli anni Cinquanta, sotto la spinta di forti investimenti che avevano rinnovato e ampliato gli impianti, nelle grandi fabbriche del nord erano stati gli stessi processi produttivi a cambiare, con l’introduzione del sistema tayloristico e l’affermazione della produzione di massa. Nuovi macchinari e tecniche produttive, principalmente nell’industria automobilistica ed elettromeccanica, avevano comportato inasprimento dei tempi e dei cottimi, una maggiore produttività, insomma, a cui però non erano corrisposti aumenti salariali <137.
Insieme ai processi produttivi, in quegli anni subì una profonda trasformazione anche la composizione della classe operaia. In ritardo rispetto agli altri paesi del cosiddetto «capitalismo avanzato», anche in Italia il passaggio accelerato al taylorismo-fordismo, con l’introduzione massiccia dell’organizzazione scientifica del lavoro, della catena di montaggio, dei rigidi tempi di misurazione, produsse estrema serializzazione delle mansioni e svuotamento di ogni contenuto professionale. Al cambiamento produttivo e dei modelli di organizzazione di fabbrica, corrispose l’emergere di una nuova figura del lavoro: la catena di montaggio richiedeva un lavoratore dequalificato, che svolgesse mansioni standardizzate e ripetitive. È ciò che gli operaisti chiameranno «operaio-massa», un nuovo soggetto al quale essi avrebbero attribuito un significato politico, considerandolo portatore «di nuovi bisogni, desideri, comportamenti, istanze conflittuali e centralità delle lotte, di un diverso rapporto con il movimento operaio ufficiale, di un differente atteggiamento verso il lavoro e la propria condizione» <138.
In altre parole, una volta che anche in Italia si era affermato il fordismo, la diffusione della catena di montaggio aveva comportato la sostituzione del vecchio «operaio di mestiere», caratterizzato da forte specializzazione e scarsa mobilità, con l’«operaio di linea», dequalificato professionalmente e soggetto ad altissima intercambiabilità proprio perché forza-lavoro generica <139.
Il punto di partenza per comprendere quali dinamiche determinarono la ripresa delle lotte operaie nei primi anni Sessanta è rappresentato dalla sconfitta della FIOM alle elezioni per il rinnovo della commissione interna negli stabilimenti Fiat di Torino nel marzo 1955, quando la percentuale dei consensi crollò dal 63 al 36 per cento. Quel risultato segnò il punto di arrivo del progressivo indebolimento del potere politico dei sindacati iniziato sette anni prima con la scissione della CGIL <140 e l’instaurazione di un clima di estrema durezza nelle fabbriche – non solo alla Fiat, ma in tutti i principali stabilimenti industriali, privati e pubblici, nonché nei piccoli laboratori collegati alla grande impresa – da parte delle direzioni aziendali attraverso le schedature politiche, i reparti-confino, le perquisizioni, i licenziamenti dei lavoratori più attivi sul piano sindacale <141. Il crollo della CGIL alla Fiat fu talmente vistoso da marcare per un lungo periodo il dibattito interno al movimento operaio italiano. Ad oltre dieci anni di distanza, la «lezione» tratta da quello che era stato percepito allora come un vero e proprio «evento», avrebbe condizionato il gruppo dirigente della CGIL torinese nell’impostazione e conduzione delle rivendicazioni ancora nella primavera del 1968 <142.
Il clima interno alle fabbriche, tuttavia, non basta da solo a spiegare il significato della sconfitta della FIOM alla Fiat e, più in generale, della CGIL, le cui liste, fra il 1954 e il 1956, persero la maggioranza assoluta nei più grandi complessi industriali, dalla Montecatini alla Pirelli, dall’Ansaldo alla Cornigliano, dalla Falk alla Edison e all’Italcementi <143. A determinare quel risultato contribuì anche la «logica produttivistica» <144 che la sinistra politica e sindacale aveva posto al centro del proprio programma fin dall’immediato dopoguerra. Ancora alla metà degli anni Cinquanta, la «bandiera della produttività» veniva rivendicata da partiti e sindacati della sinistra e anteposta alle stesse rivendicazioni sociali, in linea con la convinzione, come ha osservato Luigi Ganapini, che «lo sviluppo delle capacità produttive del paese avrebbe potuto essere conseguito esclusivamente grazie all’impegno della classe operaia, che era la sola depositaria del sapere tecnico, dell’interesse e della volontà di ricostruire l’avvenire industriale dell’Italia» <145.
La scelta di porre al centro dell’intero processo dello sviluppo economico e del progresso sociale l’operaio professionale, comportava la valorizzazione di tutti gli aspetti dello sviluppo tecnologico e scientifico, senza riguardo all’accrescimento del peso lavorativo, purché il ruolo della classe operaia professionale fosse riconosciuto e posto al centro della ricostruzione del paese. In altre parole, negli anni Cinquanta, le forze politiche e sindacali della sinistra dettero la priorità agli interessi nazionali, nella convinzione, tuttavia, che le fortune dell’industria italiana dipendessero principalmente dalla qualificazione e dalla capacità della manodopera. La classe operaia professionale, che, dalla Resistenza in poi, aveva costituito la base di massa del sindacato, restava il referente sociopolitico della loro strategia <146, che, in linea con l’impostazione data da Togliatti fin dal 1944-1945 – e da lui espressamente fatta risalire a Gramsci -, attribuiva una «funzione nazionale» alla classe operaia <147.
La strategia di questo periodo, quindi, sembra testimoniare le difficoltà del partito comunista e della CGIL nel comprendere l’effettiva portata delle trasformazioni in corso nell’industria italiana, con la modificazione dei processi produttivi e della composizione della classe operaia. Le griglie interpretative con cui la sinistra guardava a quei processi, ha scritto Guido Crainz, contribuivano in maniera significativa alla sua debolezza, e, sebbene il partito comunista non fosse stato il solo a cogliere tardi la portata di quelle trasformazioni, questo ritardo si protrasse a lungo a causa dei condizionamenti derivanti da una lettura «catastrofista» del capitalismo, in particolare di quello italiano, del quale si continuava a sottolineare l’«arretratezza» <148.
[NOTE]
132 Cfr. G. Crainz, Storia del miracolo italiano cit., pp. 5-41
133 N. Magna, Per una storia dell’operaismo in Italia. Il trentennio postbellico, in F. D’Agostini (a cura di), Operaismo e centralità operaia, Editori riuniti, Roma 1978, p. 313
134 S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma 2008, pp. 28-29 [trad. ital. di Storming heaven: class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism, Pluto Press, London 2002]
135 Cfr. B. Bongiovanni, Il balzo in avanti e la redistribuzione difficile, in B. Bongiovanni, N. Tranfaglia (a cura di), Le classi dirigenti nella storia d’Italia cit., p. 232-233
136 Cfr. G. Bruno, Le imprese industriali nel processo di sviluppo cit., p. 377. Riportando le cifre fornite dal ministero del Lavoro e dall’Istituto di statistica, in un’inchiesta del 1961 Eugenio Scalfari scriveva che, complessivamente, dal 1953 al 1960 la produzione industriale era passata da un indice 100 ad un indice 189, la produttività operaia da 100 a 162, mentre i salari avevano seguito un movimento inverso, diminuendo, sia pure lievemente, da 100 a 99,4. Alla luce di questi dati, Scalfari osservava che si erano «in tal modo create enormi rendite salariali a favore dell’industria che spiegano meglio di qualunque complicato ragionamento le cause del formidabile sviluppo produttivo degli ultimi anni», cfr. E. Scalfari, Rapporto sul neocapitalismo in Italia, Laterza, Bari 1961, pp. 101
137 Cfr. F. Billi, Dal miracolo economico all’autunno caldo. Operai e operaisti negli anni sessanta, in C. Adagio, R. Cerrato, S. Urso (a cura di), Il lungo decennio. L’Italia prima del 68, Cierre, Verona 1999 pp. 140-141.
138 Introduzione a G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero (a cura di), Gli operaisti. Autobiografie di cattivi maestri, DeriveApprodi, Roma 2005, p. 13
139 G. Gattei, Nella teoria economica il 68 è avvenuto in anticipo. Piero Sraffa e il salario “variabile indipendente”, in C. Adagio, R. Cerrato, S. Urso (a cura di), Il lungo decennio cit., pp. 126-127
140 A seguito dei grandi movimenti spontanei scoppiati in risposta all’attentato contro Togliatti, nel luglio 1948, si consumò la rottura dell’unità sindacale – siglata dalle correnti sindacali di ispirazione socialista, comunista e cattolica soltanto quattro anni prima, con il Patto di Roma del 3 giugno 1944 – con la creazione della CISL e della UIL. Cfr. ad es. F. Loreto, Storia della CGIL. Dalle origini ad oggi, Ediesse, Roma 2009
141 Cfr. ad es. G. Gozzini, R. Martinelli, Dall’attentato a Togliatti all’VIII congresso cit., pp. 393-396
142 Cfr. E. Pugno, S. Garavini, Gli anni duri alla Fiat. La resistenza sindacale e la ripresa, Einaudi, Torino 1974, p. 13 e sgg. Gli «anni duri» a cui fa riferimento il titolo sono quelli che vanno dal 1955 al 1961. Questa fase fu parzialmente, e progressivamente, superata dalla ripresa della conflittualità nel 1962 e soprattutto nel biennio 1968-69, a cui gli autori attribuivano il significato di una vera e propria svolta. Premessa, ivi
143 E. Scalfari, Rapporto sul neocapitalismo cit., pp. 99-100
144 G. Trotta, F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008, p. 67
145 L. Ganapini, I sindacati italiani dalla ricostruzione alla vigilia dell’autunno caldo, in M. Antonioli, L. Ganapini (a cura di), I sindacati occidentali dall’800 ad oggi in una prospettiva storica comparata, BFS, Pisa 2003², pp. 172-178
146 Ivi, pp. 179-182
147 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano vol. V, La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino 1975, pp. 405-406. Intervenendo a Napoli nell’aprile 1944, ad esempio, Togliatti insistette molto con i funzionari locali sulla «funzione nazionale» che la classe operaia avrebbe dovuto adempiere, cfr. P. Togliatti, La politica di unità nazionale dei comunisti cit., pp. 20-22
148 G. Crainz, Storia del miracolo italiano cit., p. 41. Giorgio Amendola, che, come si è visto precedentemente, era stato uno dei più convinti sostenitori dell’«arretratezza» del capitalismo italiano, ammise, molti anni più tardi, che partito e sindacato avevano sottovalutato la portata di quei cambiamenti. Tuttavia, ancora nel 1978, affermava che quella iniziata negli anni Cinquanta non era una nuova fase dello sviluppo e della riorganizzazione capitalistica, ma piuttosto un periodo di espansione a cui sarebbe seguita una grave crisi, rivendicando la capacità del PCI di prevedere con largo anticipo («essere presbiti è un difetto storico del nostro partito») «sviluppi che si sarebbero puntualmente realizzati più tardi», ovvero durante la crisi energetica ed economica degli anni Settanta, cfr. G. Amendola, Il rinnovamento del PCI. Intervista di R. Nicolai, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 90-111
Valentina Casini, Sinistra extraparlamentare e partito comunista in Italia 1968-1976, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2015

Nel ’55 queste vaghe avvisaglie di una transizione politico-culturale in corso non sembrano destare particolari apprensioni tra allievi e formatori comunisti. Traspare, anzi, un inconsueto clima di fiducioso ottimismo, solcato dalle attese di un’“apertura a sinistra” in ambito governativo e scosso soltanto dal traumatico ridimensionamento della Fiom alle elezioni per le commissioni interne della Fiat. < 121
[…]
121 Si veda, ad esempio, il resoconto del corso per operai Fiat, Bilancio del corso torinese, in «Scuola comunista», n. 2-3, 1956.
Andrea Pozzetta, «Tutto il partito è una scuola». Le scuole di partito del Pci e la formazione dei quadri (1945-1981), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Pavia, Anno accademico 2015-2016

Quando si parla di crisi del fordismo facciamo riferimento ad un’alterazione generale degli equilibri prevalenti fino agli inizi degli anni Settanta, che riguardano sia il piano socioculturale, che economico-produttivo, presentando caratteristiche specifiche a seconda delle varie realtà territoriali e nazionali, le quali contribuiscono a rendere il quadro generale ancora più articolato e complesso.
Sul piano sociale la crisi del fordismo è collegabile ad un’intrinseca contraddittorietà del processo di massificazione, tale da condurre alla fine del “compromesso fordistaˮ. I principali aspetti della contraddizione sono riassunti da Bihr (1995: 50) nei seguenti:
ˮ[Il processo di massificazione] concentrava il proletariato nello spazio sociale, ma tendeva per altro verso ad atomizzarlo; omogeneizzava le sue condizioni di vita, ma nello stesso tempo apriva lo spazio alle premesse di un processo di personalizzazione; riduceva l’autonomia individuale, ma sollecitava il desiderio della stessa sviluppandone le condizioni; accentuava la sua mobilità geografica, professionale, sociale e psicologica, ma ne rendeva più rigida la posizione, etc. Una concentrazione di contraddizioni che, di lì a poco, sarebbe diventata esplosivaˮ.
Il fordismo presentava, dunque, due volti: quello della disciplinarizzazione tesa allo sfruttamento intensivo della forza operaia – tramite la sua concentrazione nello spazio sociale (gigantismo dell’unità di fabbrica e diffusione delle conurbazioni industriali), la dequalificazione e serializzazione dell’organizzazione del lavoro, lo sradicamento dell’individuo dai precedenti stili di vita – e quello della diffusione del consumo di massa, tramite «l’esaltazione narcisistica dell’individuo nell’atto del consumo, il “tempo liberoˮ e le attività ricreative» (Ibidem).
Questi aspetti, allo stesso tempo, avevano aperto la strada all’acquisizione da parte degli operai di una maggiore consapevolezza critica della loro condizione. Per i lavoratori – sempre più liberi da vecchi valori e tradizioni e stimolati, «per mezzo dell’accesso al consumo mercantile, alla “sicurezza socialeˮ, all’esercizio dei diritti politici, alla cultura scolastica e all’informazione» (Ivi: 49), a costruirsi un’identità autonoma – si erano create le premesse per la formazione di nuovi legami di solidarietà «più adatti alla comprensione critica e alla lotta contro il nuovo universo solipsistico» (Ivi: 50).
Giunti alla fine degli anni Sessanta i lavoratori, dunque, non sembrano più disposti ad accettare una condizione esistenziale e lavorativa altamente frustante, che mortificava le aspettive di vita di ciascuno.
Un ruolo importante in questa direzione era stato giocato anche dallo sviluppo delle politiche sociali degli anni ’50-’60. <138
Se il maggiore benessere e le migliori condizioni di esistenza da esse garantite erano andati a vantaggio, in un primo tempo, dello stesso sviluppo industriale – visto il forte sostegno dato al consumo – alla lunga l’uscita delle masse dalla condizione di secolare inferiorità e ignoranza e la progressiva presa di coscienza dei propri diritti aveva reso ancora più intollerabili le condizioni “disumanizzantiˮ del lavoro alla catena di montaggio, costringendo alla revisione delle modalità di gestione interna delle fabbriche fordiste.
La contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro da parte dei movimenti operai e dei loro organismi di rappresentanza aveva trovato un ulteriore sostegno in numerosi studi di carattere sociologico che, proprio in questi anni, stavano mostrando gli effetti negativi prodotti dal lavoro alla catena di montaggio sul fisico e sul morale degli individui. <139
Come sostiene Negrelli (2005: 18), «la sociologia del lavoro si sviluppa dunque in gran parte dei paesi industrializzati, accompagnando proprio questo diffuso movimento di contestazione antitaylorista di natura sociale, sindacale e della ricerca empirica che di fatto porta a conclusione l’esperienza del lavoro fordista». <140
[NOTE]
138 Ritter (2001:175) ricorda come in questo periodo, di fronte al riconoscimento del diritto di ognuno alla sussistenza, il «postulato centrale del moderno Stato industrializzato occidentale» fosse diventato il mantenimento di «un sistema di prestazioni sociali che mir[asse] alla conservazione del tenore di vita e non solo alla mera garanzia dei minimi vitali» (Ritter 2001: 175).
139 Tra le più importanti indagini empiriche di sociologia del lavoro negli anni ’50-’60 ricordiamo, tra le tante, quelle di Walker, Guest (1952) e di Blauner (1964).
140 Abbiamo già visto e vedremo più avanti come in realtà non si possa parlare di una vera e propria fine del fordismo, ma di una realtà oscillante tra continuità e contrasto.
Francesca Dinetti, Trasformazioni del lavoro e forme di vita nel XX secolo. I nuovi paradigmi del lavoro nel passaggio dal fordismo al postfordismo fino al lavoro contemporaneo, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013

Se gli osservatori esterni e la stessa direzione aziendale della Fiat furono colti di sorpresa dall’«esplosione delle lotte», per chi aveva vissuto nel clima di fabbrica della fine degli anni Sessanta – commentava Enrico Auteri, responsabile del personale e dell’organizzazione del gruppo Fiat – l’«autunno caldo» non costituì una «novità», ma solo un «problema» che si ripresentava con «intensità rinnovata» rispetto al passato recente <1.
Del resto, non solo in Italia, o in Francia, dove gli operai, dopo la mobilitazione del Maggio, avevano ottenuto un soddisfacente accordo sindacale, ma, come ha osservato Piero Craveri, in tutta Europa il biennio ’68-’70 fu caratterizzato da «virulente ondate di conflittualità sindacale» <2. L’aumento generalizzato della conflittualità era il riflesso delle politiche deflazionistiche finalizzate ad attenuare la spinta inflazionistica determinata dal «surriscaldamento» dell’economia statunitense nella seconda metà degli anni Sessanta, diretta conseguenza degli effetti combinati della guerra in Vietnam e della Great Society, il programma di riforme sociali delle amministrazioni democratiche <3. In tutte le società industriali avanzate, in Europa come negli Stati Uniti, l’intensificazione dei ritmi imposti dai processi di ristrutturazione seguiti alla crisi del 1964 aveva generato manifestazioni di insofferenza verso l’organizzazione tayloristica del lavoro, spesso guidate da strutture sindacali di base e alimentate dall’estensione di scioperi spontanei <4.
Secondo Luigi Falossi, ex sindacalista della FIOM, il 1969 invece è stato «prioritariamente operaio e italiano»: «non che altri paesi europei siano assenti ma, fatta salva l’Italia, essi erano principalmente debitori del ’68 studentesco più che possessori di un proprio progetto indirizzato anche sull’avvenire. Finito il movimento degli studenti sono finite anche le lotte operaie» <5.
In Italia, le tensioni che percorrevano da mesi il mondo della fabbrica esplosero il 1 settembre 1969 in «un’atmosfera incandescente» <6, con uno sciopero partito dalla Officina 32 di Mirafiori – il reparto in cui era «scattata la scintilla» <7 – in completa autonomia dal sindacato <8: iniziava allora quella eccezionale fase di conflittualità industriale che è stata definita «autunno caldo».
[NOTE]
1 Testimonianza di Enrico Auteri a Giuseppe Berta in G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa cit., p. 147. Anche Cesare Annibaldi, ex direttore centrale della FIAT, ha detto che le agitazioni dei lavoratori provocarono uno shock nel mondo industriale: «il mondo industriale l’ha vissuto come un fatto imprevisto, una specie di shock. E’ vero che c’erano stati tanti segnali colti anche all’interno del mondo industriale, ma erano stati vissuti in maniera assolutamente marginale. Sostanzialmente, l’insieme del mondo industriale non si aspettava una reazione di questo genere», testimonianza di Cesare Annibaldi in C. Ghezzi (a cura di), Autunno caldo, quarant’anni dopo, Ediesse, Roma 2010, p. 85
2 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 361
3 Ivi, pp. 361-362
4 M. L. Righi, Gli anni dell’azione diretta (1963-1972), in Storia del sindacato in Italia nel ‘900 diretta da A. Pepe, vol. IV, L. Bertucelli, A. Pepe, M. L. Righi (a cura di), Il sindacato nella società industriale, Ediesse, Roma 2008, p. 108
5 L. Falossi, Premessa a P. Causarano, L. Falossi, P. Giovannini (a cura di), Il 1969 e dintorni cit., p. 13. Pur tenendo presente il livello internazionale in cui si colloca, anche Marcello Flores e Francesco Petrini sottolineano la specificità del caso italiano, ivi, pp. 29-36 e pp. 57-70
6 D. Novelli, Gli operai dell’Officina 32, in Osservatorio economico edizione speciale, L’autunno operaio è cominciato, in «Rinascita», 12 settembre 1969
7 Ibidem
8 Cfr. D. Giachetti, M. Scavino, La FIAT in mano agli operai. L’autunno caldo del 1969, BFS, Pisa 1999, p. 59 e sgg.
Valentina Casini, Op. cit.