Diffidenze iniziali dei partigiani garibaldini in Valtellina

Morbegno (SO). Fonte: Wikipedia

Il carattere del movimento garibaldino in Valtellina è essenzialmente militante. A differenza dei dirigenti partigiani in alta valle, i quali come vedremo svilupparono il loro movimento intessendo relazioni alla pari con altre istituzioni politiche ed economiche della Resistenza e con gli alleati, i comandanti in bassa valle mirarono al potenziamento del movimento garibaldino dall’interno, conferendogli una struttura organica e complessa e allargandone gradualmente la zona di competenza. Di qui l’intenso lavoro organizzativo, militare e politico, svolto tra maggio e ottobre del 1944. Di qui anche il modo in cui si rapportarono con le formazioni autonome in bassa valle e la caparbietà con cui vollero ridurle alle loro dipendenze.
Il carattere militante del movimento era sostenuto da un forte sentimento di superiorità democratica e antifascista. Per i comandanti in bassa valle il movimento garibaldino non era un’opzione antifascista fra le altre, che assieme alle altre contribuisse alla costituzione della nuova Italia del dopoguerra. Per essi il movimento era già in sé l’intera opzione democratica e antifascista, la più vera, l’unica che potesse condurre al rinnovamento radicale del Paese. E ciò proprio in virtù del suo carattere militante, del suo non lasciarsi impastoiare in rapporti paritari con altri movimenti, meno democraticamente qualificati.
Questo senso di superiorità antifascista e democratica fu la cultura politica del movimento. Una cultura spontanea e immediata, che solo in alcuni casi era sottoposta ad un approfondimento critico e il più delle volte era semplicemente acquisita, respirata. Una cultura che non era fatta solo di antifascismo e democrazia, ma implicava appunto la superiorità del movimento garibaldino come l’unico strumento adatto per attuarli. In questo contesto, il comunismo ebbe la sua parte. L’attività dei commissari fu spesso propaganda comunista, il PCI manteneva un certo controllo sulle formazioni attraverso i nuclei di partito, i comunisti godevano di uno status privilegiato. Tuttavia occorre specificare meglio il senso di questo comunismo. Una indicazione la troviamo nel già citato “Incontro dei capi e dei commissari della 40^”. In quell’occasione il commissario politico della I divisione, Primo, disse: “per me il comunismo, per me era una divisione dei beni, ma forse non sapevo neanche bene come. […] Io facevo il tornitore in quel momento lì. Perciò capivo benissimo […] che quello che prendevo era appena sufficiente per mangiare. Non avevo altre cose. Non ho mai studiato, non ho mai potuto studiare. Niente potevo fare. Perché il fascismo aveva detto che, sembra di essere nel Medioevo, no? Tu fai il tornitore e farai sempre il tornitore, no? Perciò io non avevo altra alternativa e non avevo altro da perdere” <154.
Questa idea di comunismo come mera rivendicazione, dopo vent’anni di fascismo e decenni di emarginazione politica e sociale poteva ben identificarsi con l’antifascismo e la democrazia tout court. Quando noi oggi, dopo aver visto l’intero corso del XX secolo e del socialismo reale, parliamo di comunismo nella Resistenza, dobbiamo renderci conto che la nostra prospettiva è assai diversa da quella dei giovani militanti di allora. Per essi antifascismo, democrazia, comunismo e movimento garibaldino potevano ben fondersi in una unità virtualmente indistinta. Per essi il riconoscimento dell’esistenza di forze democratiche e antifasciste, ma non garibaldine e non comuniste poteva essere alquanto problematico. Di qui la tendenza a tacciare di filofascismo tutti coloro che non si allineavano alle direttive dei comandi garibaldini.
Perché fosse possibile concepire l’esistenza di forze autenticamente democratiche ma non comuniste e la necessità di collaborare con loro nella politica di unità nazionale, era necessaria una cultura politica assai più critica e matura. Tale cultura era certamente presente nel Comando di Raggruppamento di Lecco. Uomini come Ario, Odo e Neri lavorarono indefessamente per infondere nel movimento garibaldino in bassa valle la logica della mediazione dei conflitti e della collaborazione con tutte le forze antifasciste. Ma la posizione del Raggruppamento faticò a farsi strada. Ci vollero le crisi di ottobre e la paura che il PCI venisse completamente marginalizzato nella Resistenza valtellinese per convincere momentaneamente i comandanti garibaldini dell’autorità del Raggruppamento e della giustezza del suo punto di vista.
La natura militante del loro impegno nel movimento e il senso di superiorità democratica dovettero essere all’origine dell’astrattezza del comportamento dei comandanti garibaldini nei rapporti con la popolazione, forse più che la loro provenienza dai centri urbani lombardi. Essi cioè prescindevano da una valutazione concreta delle condizioni della popolazione, dalle loro effettive possibilità economiche, dalla capacità di sopportare il peso delle requisizioni e delle rappresaglie. “Basta fare il comunista solo coi comunisti […] un vero comunista deve saper dirigere le masse” <155, scrisse Ario in un documento citato e centrò il bersaglio: fu la convinzione di appartenere ad una cerchia di uomini moralmente superiori – i comunisti tra i comunisti – investiti di un compito speciale, più che la mancanza di relazioni affettive col luogo, a spingere alcuni garibaldini a richiedere dalla popolazione assai più di quanto potesse dare e con metodi meno che commendevoli.
A ciò si aggiunse la mancanza in bassa valle di un ceto politico antifascista che potesse mediare tra la popolazione e i partigiani <156. Se si eccettua il caso del CLN di Morbegno, non ci fu tra Colico e Sondrio un solo organismo politico clandestino in grado di farsi portavoce delle istanze della popolazione taglieggiata e presentarle ai comandi garibaldini. I CLN e le GPC furono costituite solo tra l’ottobre e il novembre del 1944 appunto per cercare di recuperare il rapporto ormai deteriorato con la popolazione e non sembra che abbiano funzionato molto. In realtà l’unica zona in cui le GPC ebbero un ruolo significativo fu tra Castione e Postalesio nel febbraio-marzo del 1945. Queste GPC funzionarono perché costituite e sostenute da Ennio Pillitteri capo del servizio informazioni e intendenza della Brigata Rinaldi e molto servirono a mantenere buoni rapporti fra partigiani e popolazione. Quando invece lo stesso movimento garibaldino non si preoccupò di sostenere tali organi popolari, il rapporto tra comandi partigiani e popolazione fu senza mediazioni e la popolazione si trovò alla mercé dei taglieggiatori. In questo vuoto politico si colloca l’opera di Giumelli. Egli fu e rimase sempre nella sua vita estraneo alla politica e ad ogni partito. Ma la sua insistenza nel criticare la natura politica delle decisioni dei comandi garibaldini per poco non ne fece l’eroe della Resistenza anticomunista. Probabilmente egli non se ne avvide e certamente tale ruolo non gli sarebbe andato a genio. Tuttavia, il pericolo fu chiaramente percepito dai partigiani comunisti della 55^ che rivolsero ad Ario la preghiera di ricomporre la scissione di fine ottobre, perché al partito sarebbero rimasti non più di trenta uomini. Anche in questa occasione la politica di collaborazione antifascista del Raggruppamento salvò il movimento garibaldino dalle conseguenze della sua cultura politica militante.
Il particolare carattere del movimento garibaldino conferì una speciale funzione agli organigrammi delle formazioni. La ripartizione delle forze partigiane in divisioni, brigate, battaglioni e distaccamenti e la composizione dei relativi quadri dirigenti non ebbe in effetti una notevole funzione operativa. Le denominazioni, gli incarichi, le suddivisioni cambiavano talmente in fretta da rendere assai dubbia la loro funzione militare. Chi spigolasse tra i documenti delle brigate Garibaldi, si accorgerebbe che le formazioni vengono chiamate con un vecchio nome anche dopo la loro trasformazione in unità operative diverse. I fronti nord e sud tornano dopo la costituzione delle brigate Matteotti e Rosselli, le brigate vengono fatte e disfatte con una facilità impressionante. A volte gli stessi comandi garibaldini rimanevano confusi ed erano costretti a chiedere spiegazioni: “pregasi compiacersi comunicare quale sia il numero distintivo della Brigata Hissel […] La richiesta di precisazione è motivata dal fatto che in prcedenza fu designata col numero 53, in prosieguo di tempo fu designata col numero 86” <157. In realtà nella maggior parte dei casi le azioni militari venivano decise autonomamente dai vari distaccamenti e l’opera di coordinamento dei comandi superiori era alquanto debole. Lo stato dei collegamenti fu sempre pessimo e l’assenteismo dei comandanti superiori presso i distaccamenti notevolissimo. In realtà, questi organigrammi non avevano funzioni operative, ma gestionali, organizzative: erano il mezzo con cui si esprimeva il carattere militante del movimento, con cui il movimento si rinsaldava e garantiva la sua organicità. Svolgevano una funzione di potenziamento interno, non di proiezione all’esterno della forza di attacco delle divisioni. In bassa valle, infatti, i comandanti furono sempre più vicini ai loro superiori che ai loro uomini. Le eccezioni, come Baruffi, Ettore e Giumelli furono perseguite e combattute, perché minavano l’unità del movimento che proprio dagli organigrammi era garantita.
[NOTE]
154 Incontro dei capi e dei commissari della 40^, doc. cit.
155 Relazione alla Delegazione Comando, 4/11/1944, doc. cit
156 E’ una osservazione di Giulio Spini in Incontro dei capi e dei commissari della 40^, doc. cit.
157 Il Comando Raggruppamento al Comando regionale e al Comando II divisione Garibaldi, 18/9/44, Musei Civici di Lecco, Fondo Resistenza, faldone 5.
Gian Paolo Ghirardini, Società e Resistenza in Valtellina, Tesi di laurea, Università degli Studi di Bologna, Anno accademico 2007-2008

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