Diventerò il capo delle Brigate Nere

Una pagina del Diario del Distaccamento di Sanremo (IM) della XXXII^ Brigata Nera Padoan. Documento in Archivio di Stato di Genova. Copia di Paolo Bianchi di Sanremo.

Espressione della deriva vitalistico-irrazionalista ed eversiva da cui il PFR è trascinato è la costituzione, il 26 luglio 1944, delle Brigate Nere, di cui fanno obbligatoriamente parte tutti gli iscritti al partito dai diciotto ai sessant’anni. L’idea di Pavolini, loro massimo fautore, è contrapporre alle formazioni partigiane unità fasciste anch’esse basate sul volontarismo e fortemente motivate, nella logica di arrivare ad uno scontro tra opposte ideologie fattesi, ciascuna, milizia armata. Il partito cessa in tal modo di avere un ben definito ruolo politico. L’efficacia delle Brigate Nere non sarà particolarmente significativa dal punto di vista militare, ma le formazioni dei “briganti neri” rimasero famose nella memoria delle popolazioni per la violenza repressiva sui civili che esercitavano e di cui menavano vanto; da un lato, infatti, la loro nascita indica come il PFR rinunci ad ogni velleità di essere la guida di uno Stato propriamente detto, dall’altro esprima un virulento radicalismo repressivo diretto tanto nei confronti della Resistenza vera e propria quanto della popolazione civile, ormai definitivamente ricompresa nella categoria dei “traditori”. Proprio per questo, anche quando, ormai, i massimi rappresentanti tedeschi presso la RSI (l’ambasciatore Rudolf von Rahn ed il generale della SS Karl Wolff) compresero che la fine era imminente e solo rimandata e si fecero propugnatori di una politica di “pacificazione” interna che mirava a guadagnare tempo, mentre cercavano di intavolare trattative con gli alleati in vista di una resa la meno onerosa possibile, l’atteggiamento del gruppo dirigente fascista repubblicano stretto intorno a Benito Mussolini si fece vieppiù intransigente, contrariamente a quanto, anche autorevolmente, è stato in passato sostenuto. Nelle ultime, tragiche, settimane di vita della RSI, più che il “furor teutonicus”, gli italiani dovettero temere il “furor” fascista e mussoliniano.
Brunello Mantelli, L’Italia fascista. 1922-1945, Fenice 2000, 1995

Le BN, infatti, assunsero i lineamenti dell’ennesimo corpo di polizia arrivando a creare i propri uffici politici <121 per monitorare la popolazione e le attività sovversive, entrando spesso in contrasto con i reparti di pubblica sicurezza accusati dai brigatisti di convivenza e d’intesa con la Resistenza. Inoltre, grazie alla stessa regolamentazione interna dell’unità, ai membri del Corpo delle Camicie Nere venne offerta la possibilità, più o meno implicita, di rimanere sostanzialmente impuniti: l’eventuale giustizia sarebbe stata amministrata, infatti, dagli stessi camerati del reo.
In definitiva, la creazione delle BN fu esempio di un processo inverso a quello avvenuto per il Fascismo dopo il suo arrivo al potere nel 1922 quando da movimento e partito armato si era trasformato in gruppo politico disarmato delegando l’uso delle armi e il metodo squadristico alla Milizia <122.
In totale furono formate 48 Brigate tra Mobili e Provinciali che unite al personale del Comando Generale e dei Servizi avrebbero dovuto raggiungere il totale di cinquantamila uomini. Questo organico non fu però mai raggiunto in quanto l’arruolamento presso le singole BN fu molto più basso rispetto alle mille unità previste. Le Brigate Nere nacquero con l’intenzione di essere l’élite, il soldato politico tedoforo del nuovo fascismo, e per una determinata componente repubblicana un loro numero limitato poteva essere sinonimo di qualità e fede politica, strumento di separazione tra gli iscritti combattenti e non. Accanto ai militanti più politicizzati iniziarono fin da subito a manifestarsi ras locali e gerarchi desiderosi di circondarsi di un gran seguito così da mostrare il proprio carisma e la propria autorità. Iniziò allora una vera e propria battaglia per l’accaparramento degli uomini: grazie alla grossa disponibilità economica offerta alle BN <123 si iniziarono ad offrire cifre molto elevate e condizioni più vantaggiose ai militari di altri reparti promettendo inoltre la possibilità di rimanere schierati nella propria zona di residenza. Tale fenomeno si diffuse in tutta la Repubblica e dal momento che, che per raggiungere organici il più possibile numerosi, furono arruolati ben presto anche minori e giovani di solo quattordici anni <124, elementi di scarso valore politico, comuni criminali, grassatori ed individui desiderosi solo di arricchirsi. Così, il criterio di arruolamento, basato in realtà più sui numeri che sulla qualità dei militi, divenne un elemento di forte discussione all’interno della Repubblica.
[NOTE]
121 Gagliani, Brigate nere, cit., pg. 197.
122 Gagliani, Brigate nere, cit., p. 10.
123 Soltanto nel periodo Luglio-Ottobre 1944 furono assegnate alle brigate nere un totale di più di 309 milioni di lire, Ivi, pg. 167. Alla BN di Lucca, oggetto di questa tesi, furono stanziati 4 milioni di lire; considerando che i militi realmente mobilitati da questa brigata furono poco più di 130 possiamo renderci conto della grande disponibilità finanziaria che si ritrovò a gestire il suo comandante.
124 Gagliani, Brigate nere, cit., pg. 168.
Edoardo Longo, I Neri di Mussolini. Repubblica Sociale e violenza fascista in Lucchesia, 1943-1944, Tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2017-2018

Le “squadre d’azione”. 1943
“Snudate i vostri pugnali, affilateli e teneteli a portata di mano. Sono sacrosanti e benedetti: hanno la forma della croce, segno della lotta del bene contro il male, simbolo di vittoria. La loro lama è monito ai traditori ed incitamento ai dubbiosi. Manda dei vindici bagliori: bagliori di un’alba nuova, di un’alba di luce e di giustizia…”. Così scrive, il 20 dicembre 1943, sul periodico fascista Diana Repubblicana un reggiano di fuoco, Armando Wender, che diventerà prima il comandante della XXX Brigata Nera “Amos Maramotti” e poi il vice-capo della III B.N. Mobile “Attilio Pappalardo”. Adesso non è ancora niente, soltanto uno dei tanti componenti le squadre d’azione sorte spontaneamente un po’ dappertutto nell’Italia centro-settentrionale dopo l’annuncio dell’armistizio con gli anglo-americani. È niente, ma dice cose ancora più feroci: “Per ognuno dei nostri che verrà colpito, dovranno pagare dieci, cento, mille altri. Tutto il sangue imbastardito dei prezzolati sicari, dei cinici assassini, degli abbietti e spregevoli mandanti, che continuano a lottare ed agire nelle tenebre, non basta a ripagare una sola goccia del purissimo, adamantino sangue dei nostri martiri… Li schiacceremo come si schiacciano i vermi…”
Wender è uno di quelli che, nel marasma generale, invece della montagna come i ribelli, ha scelto, tra il compiacimento dei tedeschi, la camicia nera con il teschio sul petto. Più gente va in giro a seminare terrore – dicono i nazisti – più tranquilla starà la popolazione italiana. I primi squadristi sono gente che “gioca libera”:  hanno addosso l’occhio delle SS, ma fanno ciò che vogliono. E allora questi uomini con una predilezione per i colori e la liturgia funebre cominciano a spadroneggiare eseguendo arresti, perquisizioni, rastrellamenti, colpi di mano, fucilazioni. Le porte delle carceri sono state aperte, l’arrivo dei corrigendi rinchiusi nei riformatori e di coloro che, avendo conti con la giustizia, si sono trovati all’improvviso liberi purché impugnino un fucile è accolto con piacere in molte città. A Milano è la “Muti” a dettar subito legge, e si costituisce immediatamente in gruppo autonomo (ma verso chi?) per agire in modo più spregiudicato: darà filo da torcere agli stessi fascisti, ma lo racconteremo più avanti.
È come se, per un colpo di bacchetta magica, l’Italia del Centro-Nord occupata dalla Wehrmacht e dalle SS fosse tornata agli Anni Venti. Manganelli, canti della Rivoluzione, violenza. E poi manifesti, coprifuoco, minacce di morte a chi ha armi nascoste o non si presenta ai centri di arruolamento.
[…] I fasci hanno dei “commissari” che si son dati da soli la carica o dei “triumvirati federali”, ed i capi d’oggi quasi sempre non corrispondono ai gerarchi di ieri. Parecchi sono autentici avventurieri, ed intorno ad essi coagulano le squadre d’azione. Chi le comanda? Maggiori, capitani, tenenti colonnelli che non sono mai stati ufficiali, ma che tali si sono proclamati nel marasma generale, adottando uniformi varie con distintivi d’ogni genere, come nelle formazioni dei miliziani. E nessuno, è logico, neanche i tedeschi, ha il modo di controllare coi documenti la verità. E così i caporali diventano colonnelli, i sergenti capitani, senza alcuna preparazione tecnica e morale.
Le iscrizioni al nuovo partito fascista repubblicano di coloro che erano membri del Partito Nazionale Fascista si chiudono il 1° dicembre. <2
C’è una grossa riluttanza dei “vecchi” ad entrare nella nuova organizzazione sorta all’ombra delle baionette tedesche. Chi non lo fa perde, per disposizione di Alessandro Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano, la qualifica di “squadrista” e tutti i privilegi economici e morali collegati al titolo; chi invece lo fa diventa ipso facto “squadrista” della seconda ora e confluisce, in buona parte, giovane o vecchio, nelle “squadre d’azione”, le quali agiscono su base locale, senza collegamenti, in mezzo ad un caos notevole.
La prima uniforme: la tuta blu da operaio
Pavolini se ne preoccupa e il 5 novembre 1943 spedisce a tutti un ordine preciso per costituire “squadre federali di polizia”, cioè per dare una parvenza d’ordine a tutto quel bailamme. È, come dicevamo, il lugubre linguaggio degli Anni Venti, alla sua ultima reincarnazione.
[…] “dispongo – per ordine del Duce e d’intesa col Ministro dell’Interno – che si proceda a costituire le SQUADRE FEDERALI DI POLIZIA [ed a trasformare in questo senso le formazioni squadriste attuali]”. L’armamento individuale deve consistere, di regola, nel moschetto mitragliatore e nelle bombe a mano. Il deposito delle altre armi è nella Casa del Fascio, dove le Squadre hanno la loro sede. L’uniforme è la Camicia nera, la tuta blu scura da operaio, il bracciale con la scritta POLIZIA FEDERALE. L’uso dell’uniforme è ordinato dal comandante. Comandante delle squadre è, provincialmente, il Commissario Federale o il Segretario del Fascio capoluogo; nazionalmente, il Segretario del Partito. Comandante della singola squadra è il Segretario del Fascio o un fascista da lui comandato. Non esistono altri gradi né galloni di nessuna specie. Non esistono stipendi (salvo i casi d’impiego continuativo in determinati lunghi periodi) né uffici.
“Lo squadrista che prenda iniziativa non autorizzata, che alieni la propria arma o manchi al cameratismo, alla fedeltà, alla disciplina viene deferito ai Tribunali Straordinari ed è passibile di condanna a morte”.
[…] I giovani di leva, gli elementi comunque atti al servizio nel Corpo delle Camicie Nere o negli altri corpi e specialità delle Forze Armate, possono comunque appartenere alle Squadre soltanto “pro-tempore” e in attesa di arruolamento”. <3
Una specie di milizia più o meno proletaria sull’esempio immutabile dei Paesi dittatoriali
[…] Pavolini tenta di metter su, con i nuovi fascisti, sgusciando nelle pieghe lasciate aperte dalla sorveglianza tedesca, una specie di polizia propria che operi autonomamente, senza bisogno di permessi speciali. Ma l’esperimento non funziona che per trenta giorni. Il 5 dicembre 1943 il segretario del partito è costretto a diramare un’altra circolare controfirmata dal capo della sua segreteria politica, Olo Nunzi, e ad informare che, conformemente agli ordini del Duce, con la costituzione della Guardia Nazionale Repubblicana, è venuto a cessare il motivo per cui si ricostituirono le squadre del Partito, successivamente trasformate in squadre di polizia federale. Tali squadre sono pertanto sciolte” <4 . Ma il mese successivo, nella prima decade del gennaio 1944, arriva un contr’ordine. Per volontà di Mussolini (come sottolinea un’altra circolare di Pavolini) presso ogni Federazione viene costituito un ”Centro arruolamento volontari per il combattimento”, del quale devono far parte tutti i fascisti repubblicani tra i 17 e i 37 anni di età. I più anziani sono destinati alla G.N.R. <5
[…] È un fanatico. “Lo squadrismo è stato la primavera della nostra vita”, ha gridato il 14 novembre 1943 al congresso di Verona in Castelvecchio, cioè all’assemblea costituente del fascismo all’ombra delle baionette tedesche, “e chi è stato squadrista una volta lo è sempre!” <7 .
È amicissimo dei nazisti. Già verso la fine degli Anni Trenta elogiava appassionatamente Hitler, “l’oscuro milite… che si contrappone in toto così alla democrazia repubblicana come al marxismo comunista, così all’internazionalismo ebraico come a certi reliquati feudali del prussianesimo: a tutto un mondo tramontante e a tutto un mondo mal neonato”; un uomo ‘solo, diverso fin nello stile mentale; diverso fino in quel suo volto inquieto e inconfondibilmente moderno, dai pensosi occhi d’orfano, d’artigiano e d’autodidatta, apparizione nuova e sorprendente in mezzo alle facce lardose e sfocate della dirigenza democratica e a quelle sigillate, d’acciaio, del prussianesimo tradizionale e vetusto’. <8
E odia, invece, a morte Renato Ricci, squadrista, carrarese, anche lui un bersagliere, il capo dell’Opera Nazionale Balilla che ora comanda la Guardia Nazionale Repubblicana.
Ricci ha in mano un comando armato e probabilmente anche un avvenire nello sviluppo della guerra: lui no.
La sua “polizia di partito”, come abbiamo visto, è saltata, un certo tipo di squadrismo rudimentale è stato abolito e i compiti di quel genere, anche quelli d’istituto, che sono poi di controllo della massa, sono passali alla G.N.R., la formazione succeduta ai reali carabinieri. A questo punto Pavolini, che si è visto sfuggire di mano la grande occasione, stringe un accordo con Renato Ricci, suo nemico personale. Le sedi del Fascio – questo è il compromesso, destinato naturalmente a durare poco tempo – verranno sorvegliate e protette permanentemente da 20 militi (della G.N.R., N.d.R.) armati di moschetto mitragliatore, con cambi della guardia ogni 24 ore. I dirigenti dei fasci dovranno provvedere – ma ciò sarà subito smentito dalla realtà in molte parti – ad istituire, nelle singole sedi, dormitori, refettori e servizi adeguati. I capi provincia (la nuova denominazione dei prefetti) consegneranno ai fascisti repubblicani più noti una rivoltella con relativo porto d’arme (rilasciato su benestare dei tedeschi, N.d.R), mentre il partito fornirà una parte dei moschetti-mitragliatori necessari alla guardia.
“Con queste disposizioni – conclude il segretario del partito – si compie un altro importante e necessario passo innanzi sulla via della normalizzazione del Paese, resa possibile dalla graduale e sempre più integrale coincidenza tra i principi della Rivoluzione e l’ordinamento dello Stato”. <9
Come i partigiani, anche i fascisti hanno provveduto ad armarsi saccheggiando le caserme, in barba alle disposizioni dei nazisti. Ma si sentiranno sempre deboli, e quando avranno bisogno di altri moschetti o mitra dovranno presentare domanda ai comandi germanici, i quali boicotteranno in ogni modo le forniture. Pavolini è contro Ricci, Ricci cerca in ogni modo di fargli le scarpe, i tedeschi cercano di frenare ambedue i rivali e di controllarli il più possibile, così come tanno in tutte le nazioni europee occupate, dove hanno a loro disposizione formazioni di volontari, dalla Francia all’Ucraina, dal Belgio alla Norvegia, dalla Danimarca alla Jugoslavia. Il gioco è sottile, ma brutale, ed al centro di esso si trova Mussolini, posto su quel trono posticcio che durerà ormai molto poco.
Mussolini, tornato dalla Germania dopo essere stato liberato dai paracadutisti a Campo Imperatore, non ha avuto il permesso di tornare a Roma. Ha dovuto fermarsi in Romagna, nella sua Rocca delle Caminate, e quando vi è arrivato ha trovato ad attenderlo – per protezione e sorveglianza – un reparto di SS che gli ha presentato le armi. Poi, i tedeschi gli hanno scelto un posto tranquillo a Nord, sul Lago di Garda, fuori da ogni tentazione, e da quel luogo egli adesso tenta di tessere, ma invano, la sua tela autonoma.
[…] Pavolini ha inventato agli inizi del 1944 una nuova forma di richiamo alle armi o, meglio, alle bandiere: i “centri di arruolamento per volontari al combattimento” piazzati presso le Federazioni locali dei fasci repubblicani, fino a Grosseto, L’Aquila, Terni, Roma, Rieti ed Ascoli Piceno, e persino in Germania (segreteria Fasci repubblicani, posta da campo 733) ed a Trieste, dove i nazisti la fanno da padroni.
Li coordina un Ispettorato nazionale diretto dal dr. Giulio Gai con sede a Maderno (Brescia), posta da campo 704. Il centro di Treviso è comandato dal ten.col. Tullio Pillonetto, quello di Livorno dal ten. Renato Giovannelli, quello di Genova prima dal ten. col. Giovanni Carrara e poi da Livio Faloppa, quello d’Imperia dal capitano Francesco Lanteri, quello di Firenze dal ten. Renato Calvani, e via dicendo. Il partito ha preparato una serie di blocchi che contengono 100 fogli di viaggio gratuiti in ferrovia (e con la riduzione del 50 per cento sulle autolinee e ferrovie secondarie): su di essi ogni centro scrive le generalità dei volontari e li smista alle località (in prevalenza Vercelli, Verona, La Spezia, Parma, che hanno attrezzature adeguate) dove essi verranno sottoposti a visita medica e incorporati. I fogli di viaggio sono preparati con molta cura, ed in un angolo hanno una scritta in tedesco, nella quale non si fa alcun accenno al fascismo, ma che contiene, naturalmente, un errore di lingua: Heeres-Freiwilliger, der in dienstliche Auftrag reisi. Die deutschen militàrischen Stellen werden gebeten, in umgehindert passieren zu lassen und ihm in Notfall Schutz u. Hilfe zu gewàhren (Volontario dell’esercito che viaggia per ragioni di servizio. Le unità militari tedesche vengono pregate di lasciarlo passare liberamente e, in caso di necessità, di assicurargli protezione e aiuto). In alcune città l’accettazione e lo smistamento avvengono celermente, come a Genova, in altre tutto come al solito va a rilento. <12  Il 6 marzo 1944 Pavolini, che insegue sempre il sogno d’un “esercito personale”, manda un secco telegramma a tutti i capi provincia per sapere il numero preciso dei volontari nelle formazioni fasciste, “compresi gli elementi aderenti alle compagnie della morte”. Vuole che siano specificati per grado: ufficiali, sottufficiali e truppa, e che la loro idoneità fisica sia stata accertata dopo una rigorosa visita medica. <13 È una specie di censimento delle sue forze che il segretario del partito, il quale sta meditando la ricostituzione del proprio apparato armato, vuole concludere con la massima urgenza. Chiede che le notizie gli siano comunicate per telegrafo, per telefono o per corriere speciale, ma la cosa deve essere difficile perché le risposte richieste non giungono. Ed allora, sette giorni dopo, interviene Mussolini, da lui sollecitato, il quale domanda perentoriamente: “Datemi notizie su situazione Centri federali arruolamento e compagnie della morte. Siete invitati ad occuparvi energicamente della questione”. <14
È un momento di acuta crisi nella repubblica di Salò. Gli angloamericani sono sbarcati ad Anzio, in quella provincia di Littoria che è l’orgoglio dei fascisti essendo riusciti un tempo a prosciugare le Paludi Pontine. Mussolini ha chiesto l’invio al fronte di reparti italiani, ha avuto colloqui burrascosi con i nazisti, i quali non vogliono in campo militare la collaborazione di unità italiane, sulla cui capacità e fedeltà non credono neanche per un attimo.
[…] Preoccupato per tutto quanto sta succedendo e per le eventuali conseguenze psicologiche della caduta della capitale sulla parte dell’Italia ancora in mano ai fascisti, ma anche cogliendo al balzo la nuova occasione, Pavolini dirama il 4 giugno 1944 a tutti i commissari federali (i quali, a loro volta, avvertono i questori) un ordine segreto: “Mettere subito e precauzionalmente in stato d’allarme i fasci, sorvegliare attentamente la situazione”. “Bisogna fare della caduta di Roma” dice il segretario del partito “il motivo drammatico dello spirito di riscossa e di rivincita. Evitare sui giornali ogni minimizzazione, che sarebbe idiota, affiggere il proclama del Duce o provvedere con striscioni analogamente intonati. In quelle città in cui ciò riesca possibile, opportuno e ambientalmente sentilo, il partito può prendere l’iniziativa di pubbliche dimostrazioni, possibilmente con partecipazione di forze armate e con espressioni di solidarietà e cameralismo alleato”.
Ma subito dopo avverte senza mezzi termini:”Nelle settimane venture sono prevedibili, per parte di tutti i vili, i consueti passi per tagliare la corda, per mettere l’altro piede nell’altra staffa, per ritornare agli abbracci universali di settembrina memoria. Anche qui sorveglianza e occhi aperti… intransigenza contro i traditori e i nemici, massima solidarietà tra tutti i camerati, rimandando a miglior tempo le discussioni inutili”. <16
Pavolini, e non soltanto lui, teme (come avverrà) un nuovo flusso di diserzioni nell’esercito di Salò e si precipita in Toscana visitando le camicie nere di Firenze, Grosseto, Siena, Arezzo e delle altre provincie minacciate dall’avanzata alleata e con grossi sforzi, superando molte difficoltà, organizza il trasferimento al Nord di chi vuole combattere e scuote l’ambiente che traballa. Lo stesso fa il vice-segretario del partito, Giuseppe Pizzirani, radunando i federali dell’Alta Italia ed illustrando loro i piani per la resistenza e la “resurrezione”. Sette giorni dopo il primo ordine segreto, cioè l’il giugno 1944, Pavolini ne dirama un secondo disponendo che “i fascisti repubblicani non inclusi nelle Forze Armate siano tutti dotati di porto d’armi”, cioè di un documento che deve essere convalidato dai tedeschi. È un atto formale e burocratico, che è meglio sbrigare subito perché “in caso d’emergenza” i fascisti potranno “essere mobilitati, dotati di armi e impiegati in compiti di ordine pubblico”.
La situazione è veramente drammatica, sembra, all’improvviso, che il Po possa essere raggiunto dagli anglo-americani. Quasi tutti i ponti sul grande fiume sono stati distrutti dai bombardieri alleati, tra la pianura lombarda e le provincie emiliane si è creata una frattura che conta.
C’è un momento in cui i partigiani sembrano non avere più alcun timore dei presidi fascisti: agiscono senza coperture, ormai la G.N.R. non regge più.
È il grande momento atteso da Pavolini. I giornali dei fasci repubblicani sparsi un po’ dappertutto hanno ricevuto da lui l’imbeccata e sottolineano l’urgenza di provvedimenti.
Il bollente reggiano Armando Wender che abbiamo citato all’inizio scrive su Diana Repubblicana di giugno che “la misura è al colmo. Troppo abbiamo pazientato, troppo abbiamo sopportato… non ci sentiamo in grado di continuare a predicare bontà, generosità, umanità, dato che domani stesso, forse, non ci sarebbe più coerenza tra le nostre azioni e le nostre parole: né di ordinare e di pretendere calma, disciplina e inazione da parte dei fascisti, per il semplice fatto che questi sono in ebollizione, si dimenano, si agitano e fatalmente molti di essi esploderebbero, cercando di comprendere lo sfogo naturale ed umano che sfocia dal loro cuore esacerbato, dal loro animo esasperato… Basta, quindi, con le parole, occorre reagire, reagire in qualsiasi modo, ma reagire… Alla violenza, noi che non ci sentiamo così serafici, così mistici, così santi da porgere a chi ci colpisce anche l’altra guancia, risponderemo con la violenza. Legalmente o illegalmente, poco importa”. <17
Pavolini implora i tedeschi: “Aiutatemi!”
Pavolini non si ferma qui e cavalca la tigre con estrema spregiudicatezza. Scrive a Mussolini (18 giugno), forzando la realtà, che tutti hanno abbandonato i loro posti. “Chi ha retto alla situazione – dice – sono stati i fascisti, e soltanto i fascisti”. <18 Poi va dai tedeschi (l’SS-Ober-gruppenfuhrer Karl Wolff e l’ambasciatore nazista Rahn) che gli sono amici ed hanno fiducia in lui, ed espone il suo progetto di creare le Brigate Nere.
“Gli italiani non temono il combattimento – spiega – quelli che sono fedeli al Duce lo sono per davvero. Non amano, però, essere chiusi in caserma, inquadrati, irreggimentati, dover sottostare all’addestramento, portar vistose e pesanti divise. Il movimento partigiano ha successo perché il combattente nelle file partigiane ha l’impressione di essere un uomo libero. Egli è fiero del suo operato, perché agisce indipendentemente e sviluppa l’azione secondo la sua personalità e individualità. Bisogna, quindi, creare un movimento antipartigiano sulle stesse basi e con le stesse caratteristiche. Io ne prenderò la direzione [ad un certo punto vi fu persino il tentativo del gen. Archimede Mischi, proveniente dalla milizia e capo di S.M. delle Forze Armate di Salò, di mettersi alla testa dei nuovi reparti neri, N.d.R.]. Diventerò il capo delle Brigate Nere e, affinché non ci siano azioni disordinate o parallele, mi atterrò alle direttive che riceverò dal generale Wolff. Le spese saranno a carico del governo di Salò. I tedeschi ci debbono, però, dare le armi”. <19
I tedeschi, abituati a cose consimili accadute in Francia, in Norvegia, in Olanda ed in tante nazioni europee da essi occupate, non respingono quel progetto dell’ex-bersagliere toscano e dànno il loro assenso.
Ottenuto il viatico dei nazisti, i quali naturalmente informano con una nota da Verona della sezione III A del Comando della Polizia di Sicurezza e del Sicherheitsdienst in Italia tutti i loro gangli vitali (An alle Aussenkommandos und Aussenposten, an alle Abteilungen und Referate im Hause zur Kenntnis), Pavolini, da quell’astuto falco che è, perfeziona la manovra con un ultimo atto, fondamentale e necessario agli effetti della legalità: il “sì” di Mussolini. Che glielo dà, senza tanto tergiversare, firmando in proposito la mattina del 21 giugno una circolare segreta: “Data la situazione che è dominata da un solo, decisivo, supremo fattore, quello delle armi e del combattimento – dice il documento del Duce che annuncia il nuovo Corpo ausiliario delle Camicie Nere composto dalle [vecchie, N.d.R.] squadre d’azione -, davanti al quale tutti gli altri sono di assai minore importanza, decido che, a datare dal 1° luglio, si passi dall’attuale struttura politica del Partito ad un organismo di tipo esclusivamente militare… Data la natura dell’organismo ed i suoi scopi, il comando sarà affidato ai capi politici locali. Non ci saranno gradi, ma soltanto funzioni di comando. Il Corpo sarà sottoposto a disciplina militare e al Codice militare del tempo di guerra. Il Corpo sarà impiegato agli ordini dei capi delle provincie, i quali sono responsabili dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini contro i sicari ed i gruppi di complici del nemico” <20
II 25 giugno Pavolini, che sta prendendo tutti in contropiede, dirama dal suo Quartier Generale di Maderno una propria circolare, anch’essa segreta, ai delegati regionali, ai capi delle provincie ed ai commissari federali, dando direttive più precise e rapide. La circolare si compone di 8 punti e, la diamo in riassunto, dispone che “i commissari federali, con l’aiuto dei delegati regionali e provinciali, devono subito e con la massima premura adoperarsi per il prelevamento di tutte le armi e munizioni dei carabinieri (sofort weitgehendet fùr die Einziehung aller Waffen und Munition der Carabinieri), così come degli altri Corpi Armati che le depongono o in qualche modo in questo momento non appaiono sicuri”.
“Le squadre d’azione che arrivano dalle zone occupate hanno propri comandanti (per la maggior parte i loro commissari federali originari) e si riorganizzano in Brigate… nella provincia nella quale hanno trovato sistemazione”. “L’amministrazione federale è autorizzata a distribuire ai componenti delle squadre che ne abbiano bisogno e prestino servizio lo stesso soldo… della G.N.R.”
Pavolini, che si è scelto come ufficiale addetto il fiorentino Puccio Pucci, già segretario generale e poi commissario del CONI, precisa poi che non sono permesse le requisizioni, gli arresti o le altre iniziative di polizia, nel senso più profondo della parola. “Nelle azioni contro i ribelli non si fanno prigionieri” (In den Aktionen gegen die Rebellen werden keine Gefangenen gemacht). Eventuali misure disciplinari contro le camicie nere non devono essere prese alla presenza di estranei; perciò i comandanti devono esigere “fedeltà assoluta e cieca disciplina”. Entro il 30 giugno ogni comandante di B.N. deve inviargli al Quartier Generale per mezzo di corriere un rapporto che specifichi: numero delle squadre addestrate, dei combattenti già armati e ancora da armare, notizie sulle armi, munizioni, automezzi ed altri dati importanti. “Il Corpo non ha né un ‘centro’ né una ‘periferia’. L’ufficio dello Stato Maggiore è situato presso il Quartier Generale, cui va rivolta ogni richiesta… e non ha sede fissa, perché si può spostare ovunque sia necessario”. <21
Il decreto che istituisce le B.N.
Il giorno dopo, il 26 giugno, Mussolini che si è incontrato con il Maresciallo Graziani, ministro delle Forze Armate, con il quale ha avuto un colloquio burrascoso, firma il decreto che istituisce le Brigate Nere. Ma per un atto di deferenza, prima che esso venga fatto conoscere pubblicamente, scrive al Maresciallo, nemico acerrimo di Pavolini e delle camicie nere, che sinceramente disprezza, una lettera riservata.
“Caro Graziani – gli dice – l’organizzazione del movimento contro il banditismo cui avete accennato ieri sera deve avere un carattere che colpisca la psicologia della popolazione e sollevi l’entusiasmo nelle nostre file unificate. Deve essere la marcia della Repubblica Sociale Italiana contro la Vandea; deve irradiarsi a mano a mano in tutte le provincie e ripulirle radicalmente”. <22
Il decreto che dà origine alle Brigate Nere – cioè al Partito che si arma – porta il numero 446 e si compone di tredici articoli.
[NOTE]
2. Archivio di Stato, Como – Prefettura 111.
3. Archivio di Stato, Como – Scarsellati 3.
4. Archivio di Stato, Como – Scarsellati 4.
5. Guerrino Franzini, Storia della Resistenza reggiana, ANPI, Reggio Emilia, 1980, pag. 67.
6. Giampaolo Pansa, L’esercito di Salò, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, Milano, 1968, pag. 150; Edgardo Baldi-Aldo Cerchiari, Enciclopedia Moderna Italiana, Sonzogno, Milano, 1937-38.
7. Frederick K. William Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Einaudi, Torino, 1963, pag. 618.
8. Italia- Germania, Maggio XVI, Roma, Ulpiano editrice, 1939 (presso la Wiener Library di Londra).
9. Archivio di Stato, Como-Scarsellati 3.
10. Archivio di Stato, Como – Gabinetto, varie, 107.
11. Tempo nostro, Pistoia, gennaio-aprile 1944, Anno III, n. 1-2, collezione Antonio Vinaccia, Pistoia.
12. Collezione Sergio Coradeschi, Milano.
13. Archivio di Stato, Como – Scarsellati 4.
14. idem.
15. ANPI Sondrio.
16. Archivio di Stato, Como – Scarsellati 4.
17. Istituto storico della Resistenza, Reggio Emilia.
18. Frederick K. William Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Einaudi, Torino, 1963, pag. 618
19. Eitel Friedrich Mòllhausen, La carta perdente. Memorie diplomatiche 25 luglio 1943-2 maggio 1945, Roma, Sestante, 1948, pag. 339.
20. Nationale Volksarmee – Militàrarchiv der DDR – Potsdam.
22. Giorgio Pisano, Storia delle Forze Armate della RSI, FPE, Milano, 1965, pag. 2298.
Ricciotti Lazzero, Le Brigate Nere, Rizzoli, 1983

 

Stralcio di un’articolata circolare di Pavolini…

Mentre sulle coste e nell’entroterra ligure, così come nella pianura emiliana dove l’azione nazifascista si dispiega più tardi, assumendo tra l’inverno e la primavera del 1945 la forma di spietate e ripetute rappresaglie anche di piccole dimensioni, sono le Brigate nere ad operare più spesso a fianco dei reparti tedeschi. Il 28 ottobre 1944 il duce ha emanato intanto un secondo «bando del perdono»: un generale provvedimento di amnistia per partigiani, disertori e renitenti che si presentino entro il 10 novembre ai distretti per regolare la propria posizione ed essere inquadrati nei reparti della Rsi o nei battaglioni militari del lavoro. Scemata la prospettiva di un rapido sfondamento della linea Gotica da parte degli eserciti angloamericani, confermata dal proclama diffuso dal generale Alexander il 13 novembre, il peggioramento delle condizioni climatiche e la scarsezza delle risorse alimentari impongono al movimento partigiano di abbandonare i contesti di montagna: in parte accogliendo strumentalmente le possibilità di rientro alla legalità offerte dal governo dalla Rsi e attraverso l’inquadramento nell’Organizzazione Todt anche dagli occupanti tedeschi, che in questa fase optano per una strategia conciliativa finalizzata a preservare il controllo dell’ordine pubblico; in parte attraverso una generale operazione di pianurizzazione delle unità di montagna, che ridotte e selezionate cercano ora rifugio nelle città e nelle campagne tra casolari, cascine e paludi, riorganizzando i propri attacchi verso le città e lungo le principali vie di comunicazione. La stasi invernale sembra offrire alle autorità fasciste e naziste l’occasione di una rinnovata affermazione del proprio potere nei contesti urbani e di pianura, divenuti ora lo scenario privilegiato della propria rivalsa.
Toni Rovatti, La violenza dei fascisti repubblicani. Fra collaborazionismo e guerra civile in (a cura di) Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino, Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Società editrice il Mulino, 2017

Dal momento che il collasso italiano dell’8 settembre era stato soprattutto un gravissimo crollo militare, il governo repubblicano si trovò stretto tra la necessità di cancellare la terribile macchia del cambio di campo della monarchia, della liquefazione dell’Esercito e della consegna agli alleati di una flotta ancora poderosa come quella in possesso della Regia Marina, e l’esigenza di soddisfare la richiesta tedesca di ricostruire al più presto delle Forze Armate nazionali, che potessero venire in soccorso di quelle germaniche e alleviarle in molti compiti di controllo del territorio. Di fatto il nuovo esercito risultò costituito da tre componenti diverse: in primo luogo, le milizie di partito, come la Guardia Nazionale Repubblicana e le Brigate Nere. In secondo luogo i reparti militari regolari come le quattro divisioni, Italia, Littorio, Monte Rosa e San Marco; infine i reparti speciali come la X° MAS e la Legione Italiana delle Waffen SS. L’organizzazione di tutti questi reparti rappresentò uno sforzo organizzativo, ma la mancata eterogeneità che li contraddistinse disperse l’impegno in mille rivoli e accentuò il distacco tra fascismo repubblicano e la maggioranza degli italiani <45, distacco che aumenterà quando la RSI decise di introdurre la coercizione obbligatoria per rafforzare il proprio apparato militare. Molti giovani preferirono salire in montagna piuttosto che rispondere alla chiamata di leva, contribuendo a rafforzare il movimento di resistenza antitedesco <46.
[NOTE]
45 Silvio Bertoldi, Vita e morte della Repubblica Sociale Italiana, Rizzoli, Milano, 1976.
46 Giampaolo Pansa, L’esercito di Salò, Mondadori, Milano, 1998.
Marco Bardi, La Repubblica Sociale Italiana alla Spezia tra pratiche repressive e punizione dei crimini, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2019