Donne nella Resistenza

I Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai combattenti della Libertà nascono a Milano, intorno alla metà di novembre del 1943, ad opera di cinque donne – Giovanna Barcellona, Ada Gobetti, Lina Merlin, Rina Picolato e Lina Fibbi – che rappresentano alcuni dei partiti componenti il CLN. Le donne cattoliche non aderiscono ufficialmente, ma sono attivissime nei vari comitati locali. Nell’Atto costitutivo le aderenti ai Gruppi si autodefiniscono “compagne di combattimento”.
Atti del Convegno “Noi compagne di combattimento”. I Gruppi di Difesa della Donna (1943-1945), Torino, 14 novembre 2015, ANPI

[…] Mentre la guerra di liberazione volge al suo epilogo vittorioso, la nostra cronaca sarebbe incompleta se tacessimo della funzione avuta da una brigata che non combatté eppure partecipò a tutti i combattimenti, fu presente sempre, ovunque operò senza rumorosi spari, ma la sua azione fu altrettanto efficace e necessaria che quella delle armi più perfezionate: si tratta delle partigiane infermiere, staffette, informatrici.

La Resistenza, per quanto grande potesse essere il coraggio degli uomini, non sarebbe stata possibile senza le donne; la loro funzione è stata meno appariscente, ma non meno essenziale. Né vi è alcun confronto possibile con la partecipazione delle donne alle lotte del risorgimento e alle guerre per l’indipendenza nazionale. Si trattò allora, fatta eccezione per le giornate insurrezionali cittadine e delle rivolte popolari, di poche elette, di fulgidi esempi ma non di fenomeno di massa.

«Caratteristica fondamentale della resistenza femminile che fu uno degli elementi più vitali della guerra di liberazione è proprio questo suo carattere collettivo, quasi anonimo, questo suo avere per protagoniste non alcune creature eccezionali, ma vaste masse appartenenti ai più diversi strati della popolazione, questo suo nascere non dalla volontà di poche, ma dalla iniziativa spontanea di molte» (1).

I primi corrieri e informatori partigiani furono le donne. Inizialmente portavano assieme agli aiuti in viveri e indumenti le notizie da casa e le informazioni sui movimenti del nemico. Ben presto questo lavoro spontaneo venne organizzato, ed ogni distaccamento si creò le proprie staffette, che si specializzarono nel fare la spola tra i centri abitati e i comandi delle unità partigiane.

Le staffette costituirono un ingranaggio importante della complessa macchina dell’esercito partigiano. Senza i collegamenti assicurati dalle staffette le direttive sarebbero rimaste lettera morta, gli aiuti, gli ordini, le informazioni non sarebbero arrivati nelle diverse zone. Delicato e duro, quasi sempre pericoloso era il loro lavoro; anche quando non attraversavano le linee durante il combattimento, sotto il fuoco del nemico, dovevano con materiale pericoloso, talvolta ingombrante, salire per le scoscese pendici dei monti, attraversare torrenti, percorrere centinaia di chilometri in bicicletta o in camion, spesso a piedi, non di rado sotto la pioggia e l’infuriare del vento. Pigiata in un treno, serrata tra le assi sconnesse di un carro bestiame, la staffetta trascorreva lunghe ore, costretta sovente a passare a notte ne e stazioni o in aperta campagna sfidando i pericoli dei bombardamenti e del tedesco in agguato.

Spesso dovevano precedere i fascisti che salivano, per avvertire in tempo i nostri, e talvolta restavano coinvolte nel rastrellamento. Dopo i combattimenti non sempre i partigiani in ritirata potevano trascinarsi dietro i colpiti gravemente. Se c’era un ferito da nascondere rimaneva la staffetta a vegliarlo, a prestargli le cure necessarie, a cercargli il medico, a organizzare il suo ricovero in clinica.
Non di rado, dopo la battaglia, la staffetta restava sul posto nel paese occupato, per conoscere le mosse del nemico e far pervenire le informazioni ai comandi partigiani. Durante le marce di trasferimento erano all’avanguardia: quando l’unità partigiana arrivava in prossimità di un centro abitato, la staffetta per prima entrava in paese per sincerarsi se vi fossero forze nemiche e quante, se fosse possibile o meno alla colonna partigiana proseguire.
Durante le soste di pernottamento e di riposo le staffette andavano nell’abitato in cerca di viveri, di medicinali e di quant’altro occorreva. Infaticabili, sempre in moto notte e giorno per stabilire un collegamento, ricercare informazioni, portare un ordine, trasmettere una direttiva; spesso nella piccola busta che la staffetta nascondeva in seno vi era la salvezza, la vita o la morte di centinaia di uomini.

Numerose staffette caddero in combattimento o nell’adempimento delle loro pericolose missioni. Tra le altre: Giuseppina Canna a Premosello il 29 agosto del 1944, Erminia Casinghino a Varallo il 24 aprile del 1945, Ermelinda Cerruti a Feriolo di Baveno il 19 novembre 1944, Alda Genolle a Cavaglio d’Agogna il 4 aprile 1945, Rossana Re a Orio Mosso il 4 ottobre 1944, Cleonice Tommasetti a Fondotoce il 20 giugno 1944, Fiorina Gottico a Varallo Pombia il 26 aprile 1945, Veronica Ottone a Gravellona Toce il l° novembre 1944, Maria Mariotti il 16 maggio 1944 a Novara, Anna Rossetti il 22 febbraio 1945, Maria Luisa Minardi, Maria Ubezio.

Le formazioni valsesiane e dell’Ossola ebbero come principali collaboratrici e «staffette»: Teresa Mondini, addetta ai servizi di collegamento; le sorelle Dina, Lina e Tersilia Mambrini di Borgosesia; le sorelle Maria e Wanda Manfredi di Valduggia; le sorelle Wanda ed Emiliuccia Canna di Borgosesia; le sorelle Vitto, Jucci e Rosetta Caula di Varallo Sesia (infermiere ed anche combattenti); le sorelle Caterina, Angela e Maria Zanotti di Valduggia; la mamma di Angelo Zanotti e quella di Giacomino Barbaglia; Stellina Vecchio, del Comando generale delle brigate «Garibaldi»; la maestrina di Rimasco, Biancaneve di Boleto, la Mariuccia di Varallo Pombia, la Bianca di Montrigone, la Fina Rizzio e sua figlia Maria di Praveri, Maria Riolio di Lebbia, la Mariuccia di Cellio e Lilliana Fantini di Borgomanero, Maria Teresa di Maggiora, le figlie Rasario e la mamma Comoli di Raschetto, la Lina di Varallo Sesia e molte altre (2).
Particolarmente preziosa, inoltre, fu l’opera di Mariolina e Marcella Balconi, instancabili e coraggiose ispettrici sanitarie del Comando generale delle brigate Garibaldi.

Il comando garibaldino biellese si servì essenzialmente dell’opera di Lilliana Rossetti per il collegamento con il comando zona e col comando regionale; di Bianca Diodati, Vinca Berti, Anna Cinanni e Alba Ferrari per il collegamento con il Comando generale delle brigate «Garibaldi», che aveva sede a Milano; di Nella Zaninetti, Aurora Rossetti, Giovanna Vannucci, Teresina Comini, Rita Gallo, Nara Bertotti, Luisa Giacchini, Ughetta Bozzalla, Mercedes Falla, Bruna Giva, Maria Lastella, Eva Anselmetti, Bettina Zanotti, Ortensia Nicolò, Maddalena Curtis, Amata Casale, Silvia Berbero, Scintilla Robbioli, Maria Teresa Curnic, Alba Boschetto per i collegamenti con le diverse unità della V e della XII divisione, Lina Antonietti assicurava il collegamento con il CLN e le autorità cittadine. Va pure ricordata Caterina Negro, la vecchia «zia» dei partigiani, che malgrado la sua età avanzata non risparmiò energie per aiutare in ogni modo i patrioti che trovavano nella sua casa ospitale ristoro, collegamento e recapito. Alba Spina ed Ergenite Gili, tra le più attive e audaci, prestarono la loro opera prima nelle formazioni partigiane biellesi, e poi passarono a disposizione del comando militare regionale.

È impossibile citare e ricordare i nomi di tutte. Abbiamo avuto bisogno dell’aiuto di centinaia e centinaia di loro, della loro iniziativa, delle loro cure e del loro coraggio. Ai partigiani e ai combattenti sono state date delle medaglie, agli intriganti anche, alle donne della Resistenza poco o nulla. Ma coloro che le hanno conosciute porteranno sempre nei loro cuori il ricordo di ciò che sono state; alle staffette, alle infermiere, a tutte le donne partigiane va l’affetto imperituro dei garibaldini.

Note:

1) Ada Marchesini Gobetti, Donne piemontesi nella lotta di liberazione, Torino.

2) Chiediamo venia al gran numero di quelle pur valorose e meritevoli i cui nomi ci sono sfuggiti.

Pietro Secchia, da Secchia, Moscatelli, Il Monterosa è sceso a Milano, G. Einaudi Editore, Torino, 1958

[…] Spesso la tortura è solo un pretesto, l’interesse dei fascisti repubblicani non è rivolto a conseguire informazioni, già ottenute dalla lettura di documenti compromettenti ritrovati, ma sopratutto da quelle figure di difficile interpretazione morale e storica, i “traditori”. A volte la tortura punta all’eliminazione del prigioniero e anche quando la condanna a morte è già decisa, prima della fucilazione i fascisti torturano ugualmente i prigionieri, oppure li umiliano. Ma più spesso è usata per alimentare e dilatare la paura, il terrore negli avversari, e più in generale nella popolazione accusata sempre di connivenza. Le urla non potevano non essere sentite nelle case accanto o da chi passava per la strada, ancor più nei paesi. Non occorreva, infatti, che vi fosse un edificio adatto: il 15 settembre 1944 Cavion Elena fu arrestata a Torrebelvicino dalla Tagliamento del colonnello Zuccari e portata in una casa del paese adibita a prigione dalla legione dove fu interrogata per quattro volte in un giorno. Ogni interrogatorio durava due ore “durante il quale fu percossa a sangue sino a svenire. Per farla rinvenire quei seviziatori le pungevano le braccia con un grosso ago”.
La tortura cominciò ad essere utilizzata a Vicenza sicuramente dal luglio 1944 (forse anche prima) a Palazzo del Littorio sede della Federazione prima, e della Brigata Nera poi nella quale, al momento della sua istituzione, erano confluiti tutti i componenti della Compagnia della morte. Il 24 luglio 1944 Elisa Marostegan e Clara Tabia furono picchiate con lo scudiscio, con pugni e calci; furono inseriti i fiammiferi accesi fra i denti e fra le dita dei piedi. “Verso le donne, [è stato usato] il ferro da stiro, qualcuno ebbe la stessa natura scottata e i casi di violenza non sono rari. Oggi stesso la signorina Lovato Anna, da San Quirico di Valdagno, fu seviziata da un ufficiale tedesco e poi portata in carcere”. L’uso della tortura era in qualche modo trapelato, probabilmente attraverso la richiesta di aiuto dell’esponente comunista Romeo Dalla Pozza al vescovo, mons. Zinato. Nel settembre del 1944 il procuratore di stato Alfonso Borelli con l’aiuto delle perizie mediche del dottor Nello De Megni riuscì a far allontanare dalla brigata nera gli elementi più violenti. Nel febbraio del 1945 ancora una volta, le indagini del procuratore Borelli portarono alla raccolta di numerose denunce (oltre un centinaio) da parte di coloro, uomini e donne, che erano stati torturati o seviziati, ognuna delle quali accompagnata dalla perizia medica. L’inchiesta ebbe come esito l’internamento a Brescia nella fortezza militare di cinque ufficiali della Guardia Nazionale Repubblicana, anche se poi non vennero ritenute probanti le prove a loro carico.
Storicamente la separazione tra guerra e femminilità non è mai stata netta. Le donne hanno lavorato sostenendo la guerra, ne hanno tollerato la violenza per rassegnazione, ma anche per convinzione e sempre hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli, mariti, fratelli, compagni. In mezzo a sofferenze e rinunce, dalla guerra nascono nuove forme di autoaffermazione: singole donne possono trovarsi, per scelta, necessità o caso, a trasmettere informazioni e fare sabotaggi, a guidare un’azione armata, salvare e uccidere, torturare e proteggere, alimentando con il proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute abitualmente attraverso l’uomo. “A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredità storica hanno finora immunizzato le donne dall’orgoglio di condividere esperienze fondate su categorie da cui nella normalità sono state escluse, per esempio gloria, onore, virtù civile, come non hanno loro impedito di combattere con vecchie e nuove armi”.
Nel Vicentino, all’indomani della liberazione, partigiane, staffette e patriote della brigata “Stella” furono inquadrate nel battaglione “Amelia” dal nome di battaglia di Cornelia Lovato, caduta il 28 aprile 1945. Flora Cocco “Lea” e Wilma Marchi “Nadia”, entrambe picchiate e torturate dalla b.n. di Valdagno e detenute in carcere per alcuni mesi, furono nominate rispettivamente comandante e commissario politico. Se la nomina fu sulla carta e a posteriori, essa rispecchiava comunque una realtà di fatto. Un consistente numero di donne aveva aderito alla resistenza in tutta la valle dell’Agno. Erano divise in gruppi e “ogni garibaldina” sono parole scritte nel suo diario da Wilma Marchi “ha il proprio compito da svolgere. Alcune confezionano calze, altre raccolgono lana e indumenti vari, medicinali, viveri ecc. ecc.; altre fanno la spola dal paese alle più alte contrade di montagna con sacchi di pane; altre ancora fanno le staffette da un distaccamento all’altro”. Wilma scrive che il giornale “Noi Donne” era letto con entusiasmo e passato con cura di gruppo in gruppo e che alle riunioni, che si tenevano ora nei boschi, ora nei fienili o nelle alte contrade, oltre 40 garibaldine accorrevano volentieri, a volte portando ai compagni qualche sorpresa (un dolce, una bottiglia di vino, un pacchetto di sigarette, etc.). Fra le donne che avevano aderito alla resistenza un certo numero viveva presso i comandi di brigata. Emilia Bertinato, staffetta della brigata Stella, mi ha raccontato nell’intervista che: “C’erano tre-quattro donne partigiane fisse, la sorella di Giglio, Anita, per me una grande amica, aveva il mitra in spalla, [ma poi c’erano] la Serena, la Maria, l’Agata, fisse là. Anche la Liliana stava fissa. Dormivano sulla tezza, là c’era il fieno. Portavano i pantaloni e il giubetto rosso fatto dalle sarte, chissà a loro cosa sembrava, di andare chissà dove. Ce n’erano tante, non solo loro, molte da Montecchio”. Qualcuna di loro era innamorata ed era salita in montagna per vivere la sua stagione d’amore, ma Emilia ci tiene a sottolineare che erano poche, per lo più “C’era l’ambizione, il coraggio di un’idea …”.
Alcune delle donne partigiane presenti nei distaccamenti possedevano un’arma e la usavano. La partigiana Tamara deve nascondersi in un campo di granoturco durante il rastrellamento della Piana di Valdagno del settembre 1944 e deve sorvegliare Maria Boschetti che nonostante la sua conversione è sospettata di voler fuggire. Tamara è armata di pistola ed è decisa ad usarla. “La Tamara …” mi dice Emilia “se c’era un partigiano bravo, quello era proprio lei”. La più combattiva è comunque Camerra Luigina, “Anita”, sorella di quattro fratelli partigiani. “Mia sorella” mi ha detto nell’intervista il fratello Giglio “era come un uomo con il suo mitra per traverso. Mia sorella sparava e ne ha anche colpiti. Ha partecipato anche lei armata al disarmo della Marina”. Durante il rastrellamento della Piana, il 9 settembre 1944 fu catturata dal battaglione russo di Marano, assieme a Ombretta (Faccin Maddalena), altra partigiana “fissa” al distaccamento. Furono portate a Thiene alle carceri e sottoposte a diversi interrogatori, poi trasferite a San Biagio. Furono liberate verso i primi di novembre 1944 e dovettero nascondersi fino alla Liberazione, ma nei documenti ritroviamo Anita il 28 aprile 1945 a Tezze di Arzignano, quando con il fratello Inferno va armata a “rinforzare le file” del btg. Brill. Ombretta, invece, prese parte con i partigiani all’occupazione di Valdagno.
Per le donne che avevano compiuto una scelta di campo si presentò il secolare dilemma fra la rivendicazione dell’eguaglianza e l’affermazione della diversità, che sembrava riassumersi, nella situazione di emergenza, nell’uso o meno delle armi. Lo sparare sui nemici è visto come una sfida vinta nei confronti dei propri compagni, ma anche come alternativa consapevole. Vi sono state per contro donne che si rifiutarono di sparare e di uccidere per propria e convinta scelta. Le testimonianze in questo senso sono numerose. Curavano i feriti, portavano ai combattenti armi, plastico e munizioni, ma non sparavano mai. Queste donne sono convinte che la vita di per sé non è un valore assoluto e si rifiutano di sopprimere di propria mano quella altrui e alle ragioni della lotta politica e armata non intendono sacrificare quelle della pietà. Luigina Castagna, partigiana del btg. Romeo, mi racconta che un giorno i partigiani le dissero: “Questa pistola te la regaliamo per ricordo”. “Io invece dopo l’ ho regalata a un partigiano che era senza armi, non ho mai pensato di tenerla per difendermi perché odio le armi. Non ho mai sparato un colpo in vita mia. A Campo Davanti i partigiani volevano insegnarmi a sparare ora che avevo anch’io la mia pistola, ma io fui decisa nonostante le loro insistenze. No, le armi mai, sparare mai. Penso che per un uomo fosse più semplice essendo stato abituato già sotto le armi, infatti penso che adesso sia più semplice per una donna prendere in mano una pistola, troviamo le donne poliziotto, soldato…forse hanno più dimestichezza di una volta”. Il problema è presente anche fra le ausiliarie fasciste, alle quali il regolamento non consentiva di portare armi, all’uso delle quali dovevano addestrarsi solo per legittima difesa. Un’ausiliaria, poco prima della sua fucilazione a Torino il 30 aprile 1945, scrive nella sua ultima lettera datata ancora con l’era fascista: “So di non aver sparso sangue: questo mi tranquillizza in questi ultimi istanti”.
Come sottolinea Jean Bethke Elshtein nel suo studio sulla donna e la guerra, non possiamo dire che le donne posseggano alcuna innata inibizione circa il combattimento e lo spargimento di sangue. Le rivoluzioni e le insurrezioni hanno ripetutamente impiegato le donne in ruoli di combattimento, forse perché le forze rivoluzionarie sono per definizione meno formali e meno condizionate dalla tradizione che non gli eserciti degli stati nazionali. La donna violenta è figura insolita perché evocatrice di paure ancestrali come quella della donna castrante, della donna che non può essere costretta nei limiti del suo ruolo di sposa e di madre. Eppure non mancano esempi di donne bellicose capaci di crudeltà efferate incompatibili, almeno così preferiamo credere, con l’istinto materno femminile.
Nel Polesine nell’estate del 1944 operò la IIa Compagnia, detta O.P. (ordine pubblico) della G.N.R., comandata dal cap. Giorgio Zamboni di Bologna e composta da circa 150 di individui chiamati “pisani” perché provenienti quasi tutti dalle varie città della Toscana. Fra i componenti vi era anche Anna Maria Cattani, in arte “Donna Paola”, la cui ferocia emersa dalle carte processuali reca turbamento alla coscienza. Il 12 aprile 1946 Regina Costa dichiarò al P.M. della Corte d’Assise straordinaria di Rovigo di essere stata torturata da Donna Paola: “Le torture consistettero in schiaffi, contemporaneamente trafittura con aghi sulle unghie di tutte e due le mani, strappo dei capelli e infine mi appoggiò il mitra al petto intimandomi di parlare altrimenti avrebbe sparato. I due militi Grieco e Zani mi tenevano ferma per le braccia: caddi svenuta …”. Peruzzi Plinio depose in tribunale il 4 aprile 1946 di aver assistito alla morte di Espero Boccato della Brigata garibaldina “M. Martello”: “Vidi nettamente quando Donna Paola infisse il pugnale nel petto del Boccato. Preciso: io ero distante circa 100 metri dal posto in cui si trovava il Boccato e mi recavo verso quel posto, accompagnato da un milite, quando sentii una prima scarica di moschetteria; continuai a camminare e alla distanza di circa 30 metri sentii un altro solo colpo d’arma da fuoco. Quando giunsi in vista del Boccato steso a terra, vidi che egli faceva qualche movimento ancora con la testa ed era tutto sanguinante. Vicino al Boccato c’era Donna Paola e il Doni; gli altri militi con il Visentin erano pure di presso, ma a pochi metri. Fu allora che Donna Paola conficcò il pugnale sul petto del Boccato e notai come ella roteò il pugnale nel petto. Poi lo trasse fuori e giocherellò con esso. Aveva tutto il braccio sanguinante …”. Subito dopo la Cattani entrò in casa di una donna della corte Peruzzi, Giovanna Bianchi, che al processo riferì: “Si presentò alla porta una giovane donna, da me non conosciuta e vestita con blusa bianca, sottana grigia, con una cintura alla vita. Portava tra le mani un pugnale sporco di sangue, come pure aveva sporche le mani. Mi chiese un bicchiere d’acqua che io diedi. Ricevuta l’acqua se ne andò senza nulla dire, come nulla io ebbi il coraggio di chiederle. Prima di bere l’acqua, la giovane in parola ebbe cura di porre il pugnale fra la cintura e la vita …”.
Inoltre le donne non furono più immuni degli uomini da quelle orge di vendetta che si manifestarono in tutta l’Europa, subito dopo la liberazione dalla feroce occupazione nazista. Marguerite Duras descrive il brutale interrogatorio di un informatore ad opera della stessa autrice – che nel racconto prende il nome di Thérèse – e di molti suoi compagni di resistenza [Il dolore, Milano 1995]. L’uomo che era in loro balia venne denudato, insultato e poi picchiato a sangue, ma è Thérèse che conduce l’interrogatorio: “Ci danno dentro sempre più forte. Non c’è problema. Sono infaticabili. Picchiano sempre meglio, con più calma. Più pestano, più lui sanguina, più è chiaro che bisogna picchiare, che è vero, che è giusto. Dai colpi sorgono le immagini. Thérèse è trasparente, magicamente attraversata da immagini. Un uomo contro un muro cade. Un altro ancora. Ne cadono a non finire”. “Thérèse sono io”, scrisse quarant’anni anni più tardi Marguerite Duras, “Quella che tortura l’informatore sono io … Vi do colei che tortura insieme agli altri testi. Imparate a leggere: sono testi sacri”. E Thérèse è la giustizia: la rapida giustizia dell’occhio per occhio, della tortura e della “liquidazione”.
Il legame tra violenza e l’essere donna turba e disturba la partecipazione femminile ad azioni armate. Per molto tempo l’immagine dell’uomo “guerriero” ha costituito l’identità maschile o, comunque, la meta ideale, mentre la “donna combattente” è figura desueta, tanto più se la donna decide di combattere per una causa che non sia il semplice seguire l’uomo che ama. Come se per la donna fosse estraneo l’amore per la giustizia e per l’umanità in quanto portata per sua natura all’amore per i singoli uomini e donne.
Il filosofo bulgaro T. Todorov [Di fronte all’estremo, Milano 1992], analizza quelli che egli chiama gli “atti di virtù quotidiana”, come la dignità, l’altruismo, l’attività dello spirito, virtù adatte ai tempi di pace, ma che “non sono fuori luogo in tempo di guerra e di sventura”. Todorov considera l’altruismo l’atteggiamento materno per eccellenza e si pone quindi una serie di domande d’ordine più generale: asserendo che l’altruismo è l’atteggiamento materno per eccellenza, vuol dire che esso è più “femminile” che “maschile”? E se le cose stanno così, si tratta di una predeterminazione biologica? Di una tradizione sociale? E ci dobbiamo rallegrare di questa ripartizione delle virtù secondo i sessi oppure la dobbiamo deplorare?
Egli trova la spiegazione del diverso comportamento degli uomini e delle donne nei ruoli tradizionalmente a loro attribuiti dalla nostra società. Poiché le donne sono le sole a portare in seno i figli e ad allattarli, a partire da questa base psicologica che estende su un’intera vita le conseguenze di un anno e mezzo o di nove mesi (o di niente, nel caso di donne senza figli), si è stabilita una ripartizione dei ruoli. Avendo generato (o anche senza averlo fatto), le donne si vedono affidare la custodia dei figli, dei genitori, del marito. Nonostante da alcuni decenni la situazione legale delle donne si sia evoluta nella direzione di una maggiore uguaglianza, e alcune loro incombenze vengano assunte dalla collettività (asili nido, mense, case di riposo), la forza della tradizione continua comunque a farsi sentire. Torna alla mente il forte interrogativo posto da Etty Hillesum, ebrea olandese morta ad Auschwitz, ma di cui si è conservata la testimonianza: “… fino a che punto cioè si tratti di una tradizione di secoli, da cui la donna si debba affrancare, oppure di una qualità talmente essenziale che una donna farebbe violenza a se stessa se desse il proprio amore a tutta l’umanità invece che a un unico uomo”. Etty è tentata dalla prima risposta, anche se nella vita metterà in pratica la seconda: “Forse la vera, sostanziale emancipazione femminile deve ancora cominciare. Non siamo ancora diventate vere persone, siamo donnicciole. … Dobbiamo ancora nascere come persone, la donna ha questo grande compito davanti a sé ….” [E. Hillesum, Lettere, Milano 1990].
Sonia Residori, Il “Guerriero Giusto” e l’ “Anima Bella”: l’identità femminile durante il secondo conflitto mondiale, articolo pubblicato in Donne guerra e violenza. Atti del convegno. Vicenza 26 novembre 2005, a cura del Centro Documentazione e Studi “Presenza Donna”

Molte donne erano state attive nella Resistenza; a loro erano stati affidati tutti i compiti ausiliari e le partigiane avevano vissuto in prima persona la partecipazione alla guerra, assumendo responsabilità e affermando tesi di emancipazione politica. Complessivamente, secondo dati ufficiali non completi, l’Italia ebbe settantamila donne appartenenti ai Gruppi di Difesa, trentacinquemila partigiane, di cui più di seicento fucilate, e dodici decorate dalla Commissione di guerra con medaglia d’oro. Ad alcune di queste donne fu riconosciuto un grado militare. A Maria Rinaldi fu affidato il comando di duemila uomini nei giorni dell’insurrezione armata del 1945 nel modenese e per le funzioni di comando svolte le fu riconosciuto il grado di capitano.
Valentina Delle Cave, Mulier sed Miles, Tesi di laurea, Seconda Università degli Studi di Napoli, Anno Accademico 2010-2011

L’asse del lavoro si è quindi andato focalizzando sull’indagine del rapporto donne/guerra totale analizzato attraverso l’esperienza vissuta da alcune donne residenti in località e piccole comunità della montagna modenese che dal 18 giugno al 30 luglio 1944 sono state parte della “Repubblica di Montefiorino”.
Gli interrogativi cui si è tentato di dare una risposta sono stati diversi: quale è stato l’impatto della guerra; se e come si sono modificati le condizioni di vita, il rapporto con le cose e le interrelazioni fra le persone; quanto l’eccezionalità dell’evento bellico ha influito sul vissuto quotidiano; quali sono state le “strategie” sviluppate per poter fare fronte alla guerra; quali i rapporti instaurati, vissuti o subiti, nei confronti di tedeschi, fascisti e partigiani; quale l’incidenza che l’esperienza della “Repubblica” ha avuto concretamente nella quotidianità delle intervistate. Le risposte sono state molteplici e molto differenti (da donna a donna): si è quindi dispiegato agli occhi di chi scrive un ampio ventaglio di posizioni che, pur basandosi su un campione numerico circoscritto di testimonianze, è necessario tenere presente per conservare la memoria della pluralità delle storie. Va, poi, considerato che la quasi totalità delle donne intervistate era occupata negli anni 1939-1945 nel settore agricolo e questo sostrato comune è per noi importante perché ci offre la possibilità di analizzare i cambiamenti o l’assenza dei medesimi, mettendo a confronto storie di vita che si dipanano partendo da una realtà, se non proprio identica, molto simile.
È infatti proprio il contesto, economico, culturale e socio-politico, a rivelarsi un elemento fondamentale per seguire i diversi percorsi di questo microcosmo contadino al femminile.
Territorio e contesto socio-economico
La realtà socio-economica della montagna era caratterizzata da un viscerale rapporto con la terra che si tramandava di generazione in generazione e che si concretizzava in una economia agricola di sostentamento, in molti casi semi-primitiva. L’assetto fondiario era costituito, in prevalenza, da una microproprietà, dove il possesso della terra, in questa specifica situazione, finiva per essere una “finzione”: i poderi erano di dimensioni ridottissime e si aggiravano sui 4-5 ettari comprensivi anche di incolti produttivi e aree boschive, elementi che si configuravano, più che altro, come un fattore di consolidamento della miseria. Erano presenti anche mezzadri e in numero minore fittavoli.
Monica Casini, La montagna in guerra: ai margini della repubblica partigiana di Montefiorino in Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, (a cura di Dianella Gagliani, Elda Guerra, Laura Mariani, Fiorenza Tarozzi), Quaderni di discipline storiche, 13, Università di Bologna, ISBN 88-491-1481-8, CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna, 2000, Volume pubblicato con un contributo del Dipartimento di Discipline storiche e del Comitato regionale per le celebrazioni del 50° anniversario della Resistenza e della Liberazione – Emilia-Romagna

La presenza femminile nella Resistenza ha indubbiamente una storia complessa ed estesa, caratterizzata da diversi percorsi, da molteplici esperienze personali e collettive. Vi è però un punto di riferimento indiscusso: nei territori occupati dall’esercito nazista fu presente ed attiva una organizzazione femminile precisa, con una sua genesi, un suo atto costitutivo e una sua struttura, che vide crescere il numero delle aderenti e dei risultati, che dovette confrontarsi con le esigenze cospirative e con l’inasprirsi del conflitto civile.
Nel novembre 1943, a Milano, alcune donne provenienti da tre diversi partiti del Cln decisero infatti di gettare le basi per una organizzazione femminile di massa, con il proposito di coadiuvare l’azione spontanea di tutte coloro che individualmente si erano avvicinate all’attività delle prime formazioni partigiane: nacquero così i «Gruppi di Difesa della Donna e per l’Assistenza ai Combattenti della Libertà», abbreviati spesso come G.D.D., con un atto costitutivo che sarebbe diventato un manifesto di riferimento per ogni nuovo nucleo in formazione1. L’intuizione era chiara: la componente femminile della società aveva la possibilità di mettere in moto l’opposizione non armata al regime fascista e all’occupazione nazista, conosceva a fondo le sofferenze portate dalla guerra ed avrebbe avuto bisogno di organizzare una rete di contatto e tutela efficace per usare al meglio le proprie potenzialità. Non c’era azione di supporto e collaborazione attiva con la Resistenza partigiana che non necessitasse di una coordinazione efficiente per poter garantire protezione, sostegno e continuità. Le donne costituivano l’anima della vita civile in tempo di guerra ed era indispensabile pertanto creare una struttura trasversale, di massa, che andasse al di là dei partiti e che raccogliesse le energie antifasciste mantenendole unite in alleanze operative.
Nel giro di pochi mesi l’organizzazione si estese, l’intuizione iniziale si fece via via più concreta, dapprima nella formazione di nuovi Gruppi tra le operaie nelle fabbriche (a Milano, a Torino, a Genova) per poi diramarsi capillarmente fino a raggiungere realtà rurali e a costruire una rete di azione molto varia e radicata, dall’agosto 1944 riconosciuta dal Cln quale «organizzazione unitaria di massa che agisce nel quadro delle proprie direttive» <2 nonché «la sola organizzazione femminile in lotta contro il nazi-fascismo» <3. Al primo congresso nazionale dell’Unione Donne Italiane, il 20 ottobre 1945, Lucia Corti nel suo rapporto poteva affermare che alla vigilia dell’insurrezione le attiviste dei Gruppi di Difesa nei territori occupati avevano raggiunto le 40.000 presenze, senza contare che «oltre alle organizzate altre migliaia si stringono attorno ai Gruppi di Difesa, prestano la loro opera, si preparano ad entrare con la propria volontà ed esperienza nella vita e nella lotta» <4.
[…] «Fin dal novembre scorso», spiegava nel giugno 1944 il Comitato nazionale dei Gruppi in comunicazione con il Cln Alta Italia, «nell’Italia occupata dai nazifascisti, donne di partiti e di correnti religiose diverse si raccolsero per dare vita ad una organizzazione intesa a promuovere e sviluppare il contributo della donna alla guerra di liberazione nazionale» <7.
Nella denominazione di questo movimento “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà” si riassumono gli essenziali obiettivi immediati di esso: organizzare la donna per le conquiste dei propri diritti, come donna e come italiana, nel quadro della lotta che tutto il popolo conduce per la liberazione della patria <8.
Alla diffusione del manifesto costitutivo, firmato nel novembre 1943, seguì necessariamente l’obiettivo immediato di favorire la formazione di gruppi territoriali, collegati al comitato centrale, e di prendere contatto con un numero quanto più esteso di donne per coinvolgerle nel movimento. Si può supporre che una prima rete si sia strutturata principalmente attorno a relazioni personali, di conoscenza e fiducia, dovendo contare sull’impegno di quelle militanti dei partiti antifascisti che vollero scommettere sulla costituzione di una realtà femminile e trasversale. L’attività a cui le donne erano chiamate a dedicarsi erano molteplici, tutte indispensabili nell’opera di collaborazione effettiva con le forze partigiane, ovvero «assistenza; corsi sanitari e organizzazione di posti di pronto soccorso; raccolta di materiale sanitario, indumenti, generi alimentari, denari, cancelleria, ecc.» <9. Oltre a ciò, indicava la segreteria provinciale milanese nella riunione del gennaio 1944, i Gruppi di Difesa si occupavano di assistere le famiglie dei partigiani e di inviare nelle formazioni nuovi volontari, partecipando anche attivamente ai Gap. Un giornale periodico, «Noi Donne», era segnalato come foglio di riferimento dell’organizzazione, benché le aderenti si occupassero anche della più estesa diffusione di manifesti e volantini. Si dichiarava inoltre la partecipazione a «manifestazioni e dimostrazioni» <10 in collaborazione con un’altra realtà politicamente trasversale della Resistenza antifascista, il Fronte della Gioventù <11. Fin dall’inizio, come già s’evidenziava nello stesso manifesto costitutivo, muovevano le promotrici una volontà di azione che affiancasse un duplice obiettivo, quello programmatico di collaborazione effettiva con la guerra partigiana, e quello più marcatamente politico, di «mobilitazione di forze in tutti i ceti e strati sociali» e di «rivendicazioni propriamente femminili» <12; tra queste vi erano «il voto, la partecipazione politica e civile, l’equiparazione delle retribuzioni salariali per uguale lavoro nei confronti degli uomini» <13. I due piani risultavano pertanto pienamente e consapevolmente intrecciati, entrambi segnalati dalle primissime comunicazioni: l’uno riguardante il rapporto con tutta la Resistenza organizzata, l’altro rivolto nello specifico alla mobilitazione femminile, nelle sue rivendicazioni peculiari e nel suo percorso di emancipazione.
Mentre si costituivano i primi Gruppi operativi, si fece innanzitutto necessario coinvolgere le donne e indicare per quali ragioni proprio a loro era affidata la responsabilità della lotta di liberazione, quali azioni proprio le donne potevano e dovevano praticare per ostacolare l’occupazione nazista e accelerare la fine della guerra. L’analisi dei comunicati circolanti su manifesti e volantini offre la possibilità di individuare gli elementi di comunicazione messi in atto dai Gruppi per far conoscere a una collettività femminile estesa le possibilità di azione e di miglioramento offerte dalla prospettiva di una solidarietà tra donne. Le attiviste dei Gruppi si incaricavano di riprodurre e distribuire la propria propaganda, che aveva il doppio scopo di coinvolgere la popolazione a favore della lotta di liberazione (tramite campagne di solidarietà ai partigiani, boicottaggio della produzione e del lavoro, agitazioni annonarie contro le requisizioni naziste) e di avvicinare nuove donne alla scelta di entrare a fare parte dei Gruppi. I volantini in circolazione facevano appello alle condizioni di vita, con riferimenti diretti al luogo di appartenenza o alla situazione sociale e lavorativa. Gli argomenti di richiamo erano quelli della vita quotidiana in tempo di guerra: sia nelle edizioni locali di «Noi donne», che nei volantini distribuiti dalla rete clandestina, la descrizione delle difficoltà quotidiane e delle privazioni imposte dalla guerra e dall’occupazione nazista era condizione indispensabile di interlocuzione, era il principio di ogni dialogo e di ogni coinvolgimento. Le donne italiane avevano sentito tutto il peso del conflitto in corso «per i lutti, le case distrutte, i sacrifici e le raddoppiate fatiche», recitava infatti il primo manifesto costitutivo: e proprio per questa ragione non era più possibile «rimanere inerti in questo grave momento»14. Proprio per il loro essere presenti nelle città e nelle campagne, con i mariti e i figli lontani o costretti a nascondersi, proprio in virtù del compito quotidiano di dover provvedere materialmente al nutrimento della famiglia e dei più piccoli, la posizione delle donne nei confronti dell’esercito occupante poteva essere decisiva per le sorti della guerra <15.
A partire dall’estate del 1944, mentre il fronte si spostava verso nord e cresceva l’illusione di una rapida conclusione del conflitto, i Gruppi di Difesa assunsero – grazie al riconoscimento ufficiale del Clnai, che rivolse l’appello «a tutti i partiti che lo compongono di chiamare le proprie aderenti a collaborare e ad aderire ai Gruppi di Difesa della Donna» <16 – il ruolo di entità di riferimento per tutta la resistenza civile condotta dalle donne, rafforzando ed espandendo la propria presenza territoriale e costituendosi in rapporto al fronte antifascista quale interlocutore indispensabile. Necessario quindi assumere una struttura organizzativa più complessa <17, capace di accogliere e organizzare un movimento in forte crescita, il cui numero di aderenti, come provano i rapporti ufficiali, aumentava ogni settimana <18. Se all’esecutivo centrale era affidata la rappresentanza dei diversi partiti (con la presenza anche di una “senza partito”), nelle segreterie regionali si promuoveva invece il confronto tra le dirigenti dei distinti comitati di lavoro, ovvero: «Organizzazione; Stampa; Assistenza; Assistenza sanitaria; Centro studi; Ispettrici regionali». Secondo una struttura piramidale in cui convergevano la rappresentanza partitica e quella territoriale, alle segreterie regionali facevano riferimento i comitati provinciali, dove confluivano le responsabili delle diverse aree di lavoro oltre a quelle dei «piccoli centri» (necessariamente non soggetti a una gerarchizzazione rigida delle mansioni e delle rappresentanze politiche), fino ad arrivare, a livello territoriale più ridotto, alle responsabili di zona e di vallata.
[NOTE]
1 Le firmatarie dell’atto costitutivo sono Giovanna Barcellona, Giulietta Fibbi e Rina Picolato, del Partito Comunista; Laura Conti e Lina Merlin, socialiste; Elena Dreher e Ada Gobetti, del Partito d’Azione. Il testo del manifesto, largamente diffuso tra le aderenti e pertanto conservato in copia in numerosi archivi, è riprodotto integralmente in I Gruppi di Difesa della Donna 1943 – 1945, prefazione di Anna Bravo, Roma, Archivio Centrale Unione Donne Italiane, 1995, pp. 49 – 50.
2 Archivio Fondazione Gramsci Emilia Romagna (Iger), Fondo Triumvirato Insurrezionale Emilia Romagna, sezione Direttive, busta 1, fascicolo 9; Il Comitato Nazionale dei «Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai Combattenti della Libertà» alle direzioni provinciali, 25 agosto 1944.
3 Ibidem.
4 Archivio Centrale Unione Donne in Italia, busta 1, fascicolo 1, sottofascicolo 149; Rapporto di Lucia Corti al I Congresso nazionale dell’Udi, 20 ottobre 1945. Riprodotto integralmente in I Gruppi di Difesa della Donna, cit., pp. 129 – 134.
7 Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (Insmli), Fondo Clnai, busta 14, fascicolo 37; Il Comitato nazionale dei Gruppi di Difesa della Donna al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, 18 giugno 1944.
8 Ibidem.
9 Archivio Centrale Unione Donne in Italia, busta 1, fascicolo 1, sottofascicolo 2. Riunione della Segreteria provinciale dei Gruppi di Difesa della Donna, Milano, 1 gennaio 1944. Riprodotto integralmente in I Gruppi di Difesa della Donna, cit., pp. 50 – 51.
10 Ibidem.
11 Il Fronte della Gioventù, realtà attiva principalmente nella vita civile che riuniva giovani e studenti (universitari e medi) antifascisti in collaborazione con le formazioni partigiane, ha avuto una relativamente scarsa eco negli studi dedicati alla Resistenza. Si tratta però dell’unica organizzazione, oltre ai Gruppi di Difesa della Donna, che avesse come fattore di coesione una appartenenza di carattere anagrafico e sociale (in questo caso l’età) e non partitica, oltre ad essere l’unica attiva nella Resistenza che comprendesse fin dalla sua genesi una piena partecipazione di uomini e donne nel medesimo ambito. Per una analisi dell’organizzazione, si veda P. De Lazzari, Storia del Fronte della Gioventù nella Resistenza, 1943 – 45, Milano, Mursia, 1996.
12 Archivio Centrale Unione Donne in Italia, busta 1, fascicolo 1, sottofascicolo 2. Riunione della Segreteria provinciale dei Gruppi di Difesa della Donna, Milano, 1 gennaio 1944.
13 Ibidem.
14 Atto costitutivo. Programma d’azione dei Gruppi di Difesa della Donna, in I Gruppi di Difesa della Donna, cit., pp. 49-50.
15 Lo indicavano, con chiarezza e lucidità, le donne attive nel foglio torinese «La Difesa della Lavoratrice»: «Perché è la donna che deve pensare a fare i conti con i ritardi nelle distribuzioni dei generi tesserati. È la donna che, casalinga o lavoratrice, sa di dover procurare a tutti i costi la legna e il carbone per proteggere i figli dal freddo. È la donna che, di fronte alla miseria ed alle sofferenze dei suoi cari, acquista una combattività nuova. E non è solo l’operaia della fabbrica che è chiamata dalle necessità di vita alla lotta: la massaia, l’impiegata, la professionista, sentono egualmente la mancanza dei generi alimentari, la mancanza o l’insufficienza del riscaldamento»; Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (Istoreto), Fondo Vito D’Amico, busta A DV 5, fascicolo 33; Protesta e azione, «La Difesa della Lavoratrice», n. 3, 31 dicembre 1944. Sull’esperienza di questo periodico clandestino d’ispirazione socialista (esplicito il riferimento al giornale omonimo fondato da Anna Kuliscioff nel 1912), organo dei Gruppi di Difesa della Donna di Torino, rimando alle memorie di una delle fondatrici, Bianca Guidetti Serra: Bianca la Rossa, Torino, Einaudi, 2009, pp. 31 – 36.
16 Iger, Fondo Triumvirato Insurrezionale Emilia Romagna, sezione Direttive, busta 1, fascicolo 9; Il Comitato Nazionale dei “Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai Combattenti della Libertà” alle direzioni provinciali, 25 agosto 1944.
17 Utilissima a questo proposito l’analisi della proposta di statuto diffusa nell’estate 1944 dai Gruppi piemontesi: Istoreto, Fondo Anna Marullo, busta A. Ma. 1, fascicolo 5; Statuto dei Gruppi di Difesa della Donna, il Centro Studi dei Gruppi di Difesa della Donna alla Segreteria regionale, circa agosto 1944.
18 Dichiaravano, ad esempio, i Gruppi milanesi nel novembre 1944: «in aprile, dopo quattro mesi di attività, i gruppi erano diciannove, con un centinaio di aderenti; nel luglio, tre mesi dopo, i gruppi erano saliti a trenta con trecento iscritte; il 28 agosto, un mese e mezzo dopo, i gruppi sono 60 con 900 iscritte; attualmente 5 novembre i gruppi sono 116 con 2299 iscritte. A queste cifre vanno aggiunti nuovi gruppi, già esistenti, coi quali non siamo ancora collegate». Insmli, Fondo Spetrino, busta 1, fascicolo 5; Relazione del Comitato provinciale dei Gruppi di Difesa della Donna di Milano, diretta al Comitato Nazionale, 5 novembre 1944.
Laura Orlandini, Per una storia della partecipazione femminile: i Gruppi di Difesa della Donna, Fondazione Nilde Iotti

Non mi pare di poter presentare un “caso” specifico da affiancare a quelli emersi nel ricco dibattito su genere e Resistenza nell’area emiliana e romagnola. Tuttavia, lo studio da me condotto su storie di vita di partigiane di Massa e Carrara mi permette di stabilire una certa corrispondenza fra la tradizione politica, che in questa specifica situazione dell’alta Toscana ha radici in un contesto repubblicano, anarchico, socialista, e un certo modello di Resistenza femminile <1. Nelle storie di vita delle partigiane carraresi ciò che colpisce innanzittutto non è solo il dichiarato rapporto con le armi – molte partigiane intervistate sono donne che hanno preso parte alle azioni di banda – ma la presenza nel racconto di strategie di mascheramento, di travestimento, utilizzate per rendere le armi ancora oggi accettabili all’interno di un universo simbolico e culturale di genere <2. E nonostante tutto questo investimento per stabilire una continuità rispetto alla tradizionale funzione femminile della cura, sia le armi, strumenti eminentemente maschili, sia la sperimentazione di comportamenti, attitudini e ambiti nuovi indotti dalla vita di banda contaminano profondamente l’immagine della partigiana.
[NOTE]
1 G. BONANSEA, Immagini e simboli nei racconti di partigiane carraresi, in A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa Carrara, Massa Carrara, Provincia di Massa Carrara, 1994.
2 Si ricordi l’importante compito di collegamento con le forze alleate della V Armata svolto da Vera Vassalle per armare le formazioni partigiane tra Apuane, Lunigiana, Lucchesia, pistoiese e modenese. A questa si aggiunge l’azione di Anna Maria Gamerra, che operò nell’area livornese. Entrambe sono medaglia d’oro della Resistenza (R. VANNI, La Resistenza dalla Maremma alle Apuane, Pisa, Editrice Gaiardini, 1972). È interessante, a proposito del discorso su genere e armi, che il racconto della morte di Cristina Ardemagni, partigiana combattente della Versilia, si svolga all’insegna dell’uso dell’arma fino al momento estremo: «Quando cadde, colpita da una scheggia di mortaio, sebbene ferita a morte, continuò a manovrare la sua mitragliatrice ad acqua» (F. BERGAMINI, Per chi non crede: antifascismo e resistenza in Versilia, pubblicazione dell’ANPI, con il patrocinio dell’Istituto storico provinciale lucchese della Resistenza, 1983).
Graziella Bonansea, Frontiere della ricerca: punti di fuga tra memoria e storia in Donne, guerra, politica… op. cit.

Fonte: Elena Viale, art. cit. infra

Se avete una nonna piemontese, come l’ho avuta io, forse avrete già sentito racconti di corse in bicicletta con le direttive da passare da una brigata partigiana all’altra nell’elastico della gonna. Se, più probabilmente, a un certo punto della vostra carriera scolare vi è capitato di leggere Il partigiano Johnny, ricorderete il recalcitrare del protagonista nel riconoscere pur brevissimamente l’importanza del ruolo che le donne – spesso adolescenti – svolgevano:
“Il latente anelito di Johnny al puritanesimo militare, appunto, gli fece scuoter la testa a quella vista [delle numerose ragazze che facevo parte della brigata]. […] Esse in effetti praticavano il libero amore, ma erano giovani donne, nella loro esatta stagione d’amore coincidente con una stagione di morte, amavano uomini doomed e l’amore fu molto spesso il penultimo gesto della loro destinata esistenza. Si resero utili, combatterono, fuggirono per la loro vita, conobbero strazi e orrori e terrori sopportandoli quanto gli uomini.”
La Resistenza è passata alla storia come una cosa da uomini, ma nelle file dei partigiani c’erano anche ragazze di poco meno o più di vent’anni, che oltre a contribuire in maniera importante alla lotta, hanno vissuto gli anni formativi in un ambiente – non solo politico, ma anche emotivo – particolarissimo.
Di cosa ha significato quel periodo per le donne italiane, e di come tutte le promesse maturate allora si siano poi risolte in fumo, parla Rossella Schillaci nel documentario Libere. L’ho contattata per saperne di più.
VICE: Il film è una selezione di materiale d’archivio audio e visivo, tra cui interviste ma soprattutto scene di vita – immagini che non credevo nemmeno esistere…
Rossella Schillaci: È stata Paola Olivetti, direttrice dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, a propormi di realizzare un progetto che si concentrasse sulla partecipazione delle donne. Le interviste sono state raccolte nell’arco di cinquant’anni, principalmente dall’Archivio in collaborazione con altri enti di ricerca nell’ambito di singole ricerche sulla resistenza nelle varie località. Anche il resto è principalmente dell’Archivio Nazionale della Resistenza, ma molti altri archivi, pubblici e privati (dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico all’Istituto Luce, ma sono davvero tantissimi) ci hanno fornito del materiale prezioso, fotografie, estratti da documentari d’epoca e riprese familiari in super 8.
Se il ruolo delle donne come staffette durante la lotta partigiana è piuttosto noto, il tuo documentario ha un altro focus: il fatto che questa partecipazione sia stata a tutti gli effetti anche un moto di liberazione della donna. “Ognuna l’ha fatto perché voleva sentirsi libera,” dice un’intervistata.
Sì, sentendo tutte le interviste ho notato che emergeva questo aspetto, che a mio parere non era mai stato raccontato e toglieva tanta retorica dalla narrativa sul periodo – è un periodo talmente mitologico che è difficile non renderlo retorico. Invece queste riflessioni spesso amare e ironiche riuscivano a dare una chiave di lettura nuova.
Le donne entravano nel vivo della lotta magari per motivi “contingenti”: avevano un fratello, il padre, il marito tra i partigiani -e infatti per esempio una dichiara di aver visto i propri cari ridotti in fin di vita, l’altra dice “c’era la rissa e nella rissa volevo esserci anch’io”… Ma il sottinteso comune è che fosse un anelito verso la libertà che in virtù del momento storico è venuto fuori.
Non c’era niente da perdere: erano sfollate, non studiavano, lavoravano nelle fabbriche o nelle campagne al posto degli uomini da quando avevano 13-14 anni. Si sentiva che c’era un cambiamento necessario in atto, per cui bisognava lottare. E in questo cambiamento molte dicevano di aver scoperto cos’era la politica, dopo vent’anni di dittatura e dopo che per tutta la storia era stata considerata una cosa da uomini. Insomma, hanno capito di essere assolutamente capaci di fare tutto quello che facevano gli uomini […]
Elena Viale, La storia meno nota delle donne della Resistenza. Abbiamo parlato di cosa ha significato la Resistenza per le donne che facevano da staffette, e non solo, VICE, 25 aprile 2017.