Dopo la Liberazione Genova accoglie imbandierata e festante l’arrivo delle truppe alleate

[…] L’insurrezione generale genovese partì per iniziativa del Comando SAP il tardo pomeriggio del 23 aprile nel ponente cittadino, prima ancora che fosse stato diramato l’ordine ufficiale del CLN, giunto alle prime ore del 24 aprile, dopo una riunione notturna con il Comando militare regionale tenutasi presso l’Istituto San Nicola sotto la presidenza di Paolo Emilio Taviani. Un manifesto rivolto al popolo genovese invitava “le forze sane della nazione, le forze dell’antifascismo militante, le SAP, i nostri giovani partigiani che da mesi anelano a questo momento di riscossa e di vittoria” a sollevarsi per conquistare il potere e instaurare “l’ordine democratico alle dipendenze del CLN”.
Il 24 aprile infuriarono i combattimenti in una città in cui alcune zone risultavano ormai liberate dalle forze partigiane, altre restavano ancora saldamente in mano tedesca e altre ancora erano oggetto di aspra contesa. L’azione concertata, secondo le direttive del “Piano A”, delle SAP cittadine e delle brigate volanti Balilla e Severino, coadiuvate dalle formazioni di montagna, stava dando i suoi frutti, circondando e isolando sempre più i presidi tedeschi non ancora arresisi. Pressoché assenti, in quei cruciali frangenti, i fascisti, che a dispetto delle roboanti dichiarazioni di lotta estrema non imbracciarono le armi per sventare l’insurrezione partigiana: tranne un pugnace reparto della X Mas, asserragliato in porto e arresosi il 26 aprile, i circa 1500 uomini della Brigata Nera “Silvio Parodi” e della Guardia nazionale repubblicana, con alla testa il commissario straordinario Luigi Sangermano e il federale Livio Faloppa, avevano già lasciato la citta la sera del 23 aprile, aggregandosi a una colonna tedesca – sarebbe stata l’ultima a riuscire a partire – diretta verso nord.
Quale la condotta del generale Günther Meinhold in queste circostanze? A capo dal marzo 1944 del comando di Genova, con una competenza territoriale che spaziava dal passo del Turchino alla cittadina di Levanto, il generale della Wehrmacht nelle settimane precedenti aveva avviato, in gran segreto, contatti con il partigiano Carmine Alfredo Romanzi, futuro Magnifico Rettore dell’Università di Genova, al fine di prospettare al CLN un possibile accordo. Consapevole della sconfitta ormai inevitabile per la Germania, Meinhold proponeva alla Resistenza un patto ritenuto vantaggioso per entrambe le parti in causa: i tedeschi avrebbero rinunciato a mettere in atto, in ottemperanza agli ordini di Hitler, le paventate distruzioni degli impianti e strutture cittadine se le forze della Resistenza si fossero impegnate a non ostacolare la ritirata dell’esercito verso la pianura padana. Un do ut des che venne però seccamente respinto dal CLN, fermo nel rifiutare ogni patteggiamento e nell’intimare al generale tedesco la resa senza condizioni.
Resa che venne firmata alle ore 19.30 del 25 aprile a villa Migone, residenza privata del cardinal Pietro Boetto situata nel quartiere di San Fruttuoso: assistito dal capitano Asmus e dall’interprete Joseph Pohl, suicidatosi all’alba del giorno successivo, Meinhold appose la storica firma al cospetto di Remo Scappini, presidente del CLN e dirigente comunista, dell’avvocato Errico Martino, rappresentante del partito liberale, del maggiore Mauro Aloni, comandante della Piazza di Genova e del console tedesco Von Etzdorf, accompagnato da Giovanni Savoretti, membro del CLN; partecipò all’incontro, su esplicita richiesta del generale, anche Carmine Alfredo Romanzi. “Popolo genovese, esulta! È finalmente giunta l’ora tanto attesa della liberazione!”, avrebbe annunciato alla radio, il mattino del 26 aprile, un emozionato Taviani.
Rifiutavano ancora di deporre le armi i reparti della Kriegsmarine al comando del capitano di vascello Max Berninghaus che, presenti in porto, a Nervi e nelle batterie di Monte Moro sulle alture del levante cittadino, erano decisi a resistere ad oltranza, forti delle loro posizioni strategiche: anche loro si sarebbero infine arresi, il 28 aprile, agli americani, ormai giunti in città […]
Paolo Battifora (Coordinatore scientifico Ilsrec), La Resistenza in Liguria e la liberazione di Genova, Ilsrec, 15 aprile 2020

Accanto al Comitato di Liberazione centrale una pleiade di Comitati di comune, di delegazione, di rione, di azienda, sorse, a poco a poco, attraverso i lunghi mesi della cospirazione. I partiti svolgevano un’opera di fattiva propaganda, di ricerca di fondi, di assistenza alle vittime politiche.
Attraverso mille vie, la voce del C.L.N. per la Liguria – che si considerava unico governo legittimo – giungeva a tutti i ceti sociali; sicché, nell’aprile, quando i tempi erano ormai maturi per l’insurrezione finale, il popolo genovese e ligure si trovava con una ben diversa preparazione di quanto non possedesse l’8 settembre. E ben diversi furono i frutti.
L’insurrezione di Genova ha riscattato l’infausto 8 settembre. Essa costituisce l’unico episodio della seconda guerra mondiale, considerata in tutti i suoi vari fronti, in cui un corpo di esercito, forte e organizzato, si è arreso dinanzi agli insorti. E’ stata, senza dubbio alcuno, l’episodio più significativo nella liberazione dell’Italia settentrionale. Gli Alleati lo hanno riconosciuto; un obiettivo esame dei fatti lo dimostra.
Genova era, ed è, una piazzaforte. Effettivi tedeschi, paragonabili a una divisione, erano stanziati nella cinta della Grande Genova e nelle im-ediate vicinanze; nel porto e a Nervi erano forti reparti della marina germanica oltre a reparti repubblichini; sulle alture: batterie di cannoni leggeri, pesanti e pesantissimi, provviste di abbondanti munizioni.
Le truppe tedesche, nell’aprile, erano ancora bene armate e, per quanto lo spirito non fosse più quello degli anni trascorsi, i loro ufficiali non concepivano neppure la possibilità di dover scendere a patti con dei borghesi e dei popolani in armi.
Invece fu questo il risultato a cui si giunse, dopo due giornate di vivacissima lotta. La sera del lunedì 23 aprile, le autorità fasciste fuggivano dalla città. Il generale germanico Meinhold faceva sapere al Cardinale Arcivescovo che le truppe tedesche avrebbero abbandonato la città e la provincia in quattro giorni, che non l’avrebbero distrutta, se non in qualche impianto bellico, purchè avessero potuto attuare indisturbati i loro movimenti.
Chiamato dal Vescovo Mons. Siri per ricevere questa comunicazione, io gli feci subito presente che il Comitato di Liberazione non avrebbe potuto accettare alcuna formula di trattative con i tedeschi, poiché troppi esempi scottanti si avevano della malafede nazista.
Comunicai ogni cosa a Martino e tosto convocammo d’urgenza il Comitato e il Comando Regionale. L’uno e l’altro erano composti di persone ricercate attivamente dalle S.S. e che vivevano da mesi alla macchia, cambiando continuamente abitazione, quando non addirittura i connotati. La formula prevista per la convocazione definitiva consisteva nell’avvertire ogni membro che era giunto il momento di aprire una busta sigillata in suo possesso, e di recarsi alla chiesa dedicata al Santo effigiato nell’immagine contenuta nella busta stessa. L’immagine era di San Nicola, e il Comitato si radunò in quel Collegio, nel quale già aveva svolto, venti mesi innanzi, alcune delle sue prime sedute cospiratorie. La riunione del Comitato ebbe inizio alle ore 21 del lunedì 23 aprile. Toccò a me – per il normale turno fra i partiti – la presidenza della seduta. Erano presenti Gabanizza, Cassiani Ingoni, Martino, Toni e Loi. Pessi ci raggiunse all’alba del 24. E sempre nel mattino del 24, si ricongiunse con noi Faralli, sfuggito alle carceri di Marassi.
La seduta – nella sera del 23 e nelle prime ore della notte fra il 23 e il 24 aprile – non fu tranquilla. A un primo esame della situazione non tutti erano concordi sulla necessità di iniziare l’azione. Non si dibattevano questioni politiche, ma soltanto questioni di opportunità tattica.
Alla fine, poco prima dell’una di notte, il Comitato decise l’azione. Il piano operativo A, predisposto per l’insurrezione cittadina dal Comando di Piazza, agli ordini del Comando Regionale, fu immediatamente posto in atto.
Fra le quattro e le cinque del mattino si udirono nella città le prime fucilate. Poi – come quando una miccia raggiunge un carico di esplosivo – l’insurrezione divampò. Alle dieci del mattino del 24 aprile il Palazzo del Comune, i Telefoni, la Questura, le Carceri di Marassi erano in mano del popolo in rivolta. Le squadre di azione patriottica (SAP), che si prevedevano forti di circa 3000 uomini, erano diventate improvvisamente di 5, 1SAP,O, 20 mila uomini. Ai predisposti quattro comandi di settore – Sestri Ponente, Val Polcevera, Genova Centro, Albaro Nervi – era un continuo affluire di nuove squadre che, lì per lì, si costituivano con le armi tolte ai fascisti e ai militari dell’esercito repubblichino. Tutto il popolo genovese si era armato: vecchi, adulti, ragazzi.
Genova acquistava coscienza della sua fierezza, e compiva gesta che, dall’età di Balilla, le sue strade, i suoi vicoli più non conoscevano.
Dei fascisti, ormai, non c’era più neppure l’ombra; nessuno, proprio nessuno, aveva avuto il coraggio di opporre la benchè minima resistenza; ma, se i fascisti erano spariti, non erano spariti i tedeschi, che si mostravano disposti all’estrema resistenza, pur di mettere in atto ordinatamente, secondo i loro piani, il ripiegamento.
Paolo Emilio Taviani, Breve storia dell’insurrezione di Genova, OPI, Roma, 1968

Ansioso di vedere come stanno le cose fuori esco contro il parere di mia madre e la prima persona che incontro è l’amico Luigi, che mi racconta che di mattina presto è venuto Fiore a casa sua con altri due insorti a chiedergli dove avevamo nascosto le armi e che lui gli ha mostrato dov’era sotterrato il nostro cassone. Meravigliati del buono stato delle armi e delle munizioni le hanno portate sulla piazzetta davanti alla bottega della Candida, dove le hanno distribuite insieme alle altre ai volontari che volevano andare a combattere i tedeschi e i fascisti. Come faceva Fiore a sapere che c’erano delle armi nascoste? Luigi credeva che glielo avessi detto io. Vado subito a vedere cosa succede sulla piazzetta, ma non trovo traccia né di armi né di insorti. Ci sono solo alcuni anziani che mi dicono che all’alba si combatteva ancora in diversi luoghi della città, ma che di tedeschi liberi ce n’erano rimasti pochi.
Intanto in piazza San Sebastiano la gente chiacchiera più liberamente: «In Darsena la Decima Mas resiste ancora.» «I tedeschi sul monte Moro dispongono di batterie con cannoni.» «Una divisione corazzata tedesca proveniente dalla Toscana sta per entrare in Liguria.» «Tutte balle! – replicano altri – in città i patrioti li stanno tirando fuori uno alla volta dai tombini delle fogne.» Ed io fiducioso, vedo che almeno l’osteria ha riaperto anche se le botteghe sono ancora chiuse.
Sulla via Piacenza i camion militari che erano stati dei tedeschi passano pieni di giovani che cantano e sventolano le bandiere italiane senza lo stemma sabaudo. Prima di mezzogiorno cessano anche gli spari in lontananza. Nella bottega in paese è arrivato il pane e questa è la prova migliore di ripresa della normalità. Vorrei contribuire anch’io, ma non so da dove cominciare. Sento dire che nell’Officina del Gas Gavette si è instaurato il Comando del Fronte di Liberazione Nazionale. Vado a vedere e trovo molta gente che vuole raccontare, testimoniare, dire la sua. E lì nella gran calca vengono portate le donne che hanno fatto l’amore collaborazionista con i tedeschi. Per svergognarle gli vengono tagliati i capelli con dei grossi forbicioni mentre loro stanno zitte, ferme, a testa bassa. Luigi, il matto di Preli, stamattina è andato lui stesso a prelevare in casa sua sorella Ada credendo che fosse stata una di quelle e la spinge sotto tra le prime. E mentre ferve la febbre delle tosature e la folla fa un baccano assordante, vedendo quelle donne umiliate e incapaci o impossibilitate a difendersi non me la sento di applaudire.
[…] Dopo la Liberazione Genova accoglie imbandierata e festante l’arrivo delle truppe alleate. In via XX Settembre un’interminabile colonna di mezzi motorizzati sfila tra due ali di gente che saluta i liberatori. In via Fiume i carri armati, enormi e pesanti, divelgono con i cingoli i lastroni di pietra del selciato e incutono soggezione, ma fanno bella mostra della propria potenza. Per i cittadini è facile avvicinare i militari, bianchi e di colore, e parlare amichevolmente con loro. I camion GMC – tripla trazione, vericello anteriore e posteriore, dieci ruote ciascuno, più quelle di scorta, battistrada robusto e massiccio, cassone piccolo, solido e coperto, stella bianca cerchiata sul cofano – danno l’impressione di poter affrontare senza impantanarsi qualsiasi terreno in qualsiasi condizione fino in capo al mondo. Allora ricordo quando la guerra era appena cominciata e sui muri della città i manifesti inneggiavano: «Tutto e tutti per la vittoria!» e noi ragazzi, dàgli, a cercare tra i rifiuti vecchie scarpe di gomma da vendere a Foglia, lo stracciaio, che ce le pagava trenta centesimi al chilo. Se avessimo dovuto noi gommare un GMC, ci sarebbero volute migliaia di quelle suole.
I soldati che sfilano in via XX Settembre sono l’immagine viva dell’ideologia vincente. Quelli di colore hanno il sorriso generoso, la stretta di mano cordiale, sono privi di arroganza marziale, offrono gomma da masticare e suscitano simpatia.
Ma con la fine della guerra non finiscono tutte le disgrazie che aveva provocato. Per alcune settimane vicino ai binari del treno merci al di là del torrente Bisagno all’alba si rinvengono cadaveri di persone ammazzate durante la notte. Non si sa da chi, sono state portate lì già morte. Io, che non avevo mai visto un morto, vado a vedere per non dimenticare. Vicino a un cadavere c’è della gente che ne commenta e discute vivacemente l’identità.
Qualcuno sostiene che i morti cambiano fisionomia. Una donna, che era venuta a vedere se il cadavere era suo figlio non lo aveva riconosciuto, ma c’è chi sostiene che era proprio lui. Ed io guardo allibito quel viso gonfio, bluastro, massacrato di botte e capisco che so ancora ben poco della morte, di questo mondo e di quanto possono essere atroci l’odio e la vendetta.
Lungo la Diga Forranea un dirigibile della marina americana perlustra larghi tratti di mare, localizza le mine e le fa brillare per aprire l’entrata nel Porto. Dalla superficie del mare si alza ogni tanto una colonna d’acqua alta parecchie decine di metri. Quelli che se ne intendono di pesca con gli esplosivi dicono che dove scoppia una mina ci sono molti pesci morti, soprattutto le orate, ma che è pericoloso andare a recuperarli. Finita l’operazione delle mine gli americani procedono a scaricare sulla spiaggia della Foce viveri e materiali vari dai liberty ancorati in rada.
Nelle botteghe riappare il pane bianco, talmente bianco che qualcuno dice che per risparmiare è stata mischiata farina di riso a quella di grano. Altri dicono che non è giusto che dall’America si porti la farina già pronta e che per rilanciare l’economia dovrebbero portarci il grano da macinare, creare lavoro e permettere la riattivazione dei nostri mercati. Ed io, che avevo dimenticato il sapore del pane bianco e ignoro i problemi dell’economia, mangio i panini con perfetta ingordigia. Con lo Stato assente lacerato dagli eventi bellici, nel giro di qualche settimana centinaia di cittadini organizzano il contrabbando, si avvicinano ai liberty ancorati al largo con ogni sorta di natanti e paiono tante vespe che ronzano attorno al nido. Il contrabbando di sigarette americane assumerà proporzioni gigantesche e si protrarrà negli anni. L’apprendimento dell’inglese diventa essenziale nelle contrattazioni e per vie diverse anche noi ragazzi impariamo a dire all right, Philip Morris, Pall Mall, Lucky Strike, how much? good business, bad business e così via. Anch’io per sottrarre la famiglia alla miseria nera che l’attanaglia vorrei andare a bordo a comprare le sigarette, ma come fare? Sono senza soldi, senza barca e senza amici che ce l’hanno, e ho una madre che non vuole neppure sentirne parlare.
Gli americani sono ben nutriti e levigati. Lungo la costa da San Nazzaro al Lido d’Albaro fanno il bagno nell’acqua limpida e calma del mare come fossero in vacanza nelle isole del Pacifico e fanno invidia a noi ragazzi che non possiamo permetterci l’entrata negli stabilimenti balneari e ci accontentiamo di guardarli e di raccogliere le cicche delle loro sigarette. Ormai se ne trovano molte, belle e lunghe, di tabacco biondo, morbido, mai visto prima. Io che non fumo, offro il tabacco per pochi soldi ai fumatori incalliti di Preli, che fumano ogni sorta di porcherie e soffrono moltissimo del razionamento delle sigarette. Ma il mio misero traffico non ha successo perché i miei clienti trovano il tabacco americano leggero, dolce, profumato e senza gusto rispetto al nostro trinciato forte cui sono abituati.
Umberto Lavezzari, La mia Liguria: 1930-1958, Carmen Lavezzari e Filef, Filef Italo-Australian Publications, Sydney, 2018