Dopo la sconfitta subita nel 1955 dalla Fiom alla Fiat

Il valore simbolico del risultato negativo alla FIAT di Torino nel 1955 segnò indelebilmente il movimento operaio nella sua interezza e divenne uno spartiacque per la storia del sindacato che, proprio a seguito delle sconfitte elettorali in diverse aziende del nord, iniziò una graduale apertura all’analisi critica del progresso tecnico e organizzativo.
La riflessione venne portata avanti da personaggi come Silvio Leonardi, Bruno Trentin, Vittorio Foa, Fabrizio Onofri, Mario Spinella, Sergio Garavini, Ruggero Spesso e rispondeva all’arretratezza dell’analisi della condizione operaia percepita soprattutto presso le confederazioni piemontesi e lombarde, nell’epicentro della crisi.
Accanto alle accuse di brogli elettorali che rivolse nei confronti della dirigenza FIAT, il segretario della CGIL Di Vittorio fu costretto a riconoscere la carenza di analisi dei processi economici da parte del sindacato: «bisognava capire come il mondo del lavoro potesse e dovesse reagire autonomamente a un attacco che in certa misura era naturale» <222. Di fronte alle trasformazioni il sindacato aveva risposto con argomentazioni deboli e imprecise: «era mancata al sindacato la capacità di analizzare i cambiamenti che stavano intervenendo nel mondo del lavoro, nell’organizzazione tecnica delle fabbriche, nelle politiche padronali nei confronti dei dipendenti» <223.
Secondo Vittorio Foa il problema era legato alla incapacità del sindacato di relazionarsi con la base operaia in considerazione del fatto che dopo le massicce ristrutturazioni era emerso un soggetto operaio nuovo e ancora sconosciuto: «è vero che le elezioni si svolgevano in un clima di intimidazione, ma il voto comunque era segreto. Era ormai chiaro che il padrone aveva conquistato un’area importante di consenso: di qui bisognava ripartire per la ripresa» <224. La ripresa doveva per forza passare per una rilettura della società e della fabbrica con codici nuovi e questo implicò anche, secondo quanto afferma Aris Accornero, il progressivo indebolimento dell’influenza degli intellettuali umanisti sulle organizzazioni dei lavoratori <225.
Fu lo stesso marxismo ortodosso ad entrare in crisi, e la svolta del 1955-56 gli permise di confrontarsi con nuovi strumenti di lettura e interpretazione, in particolare nel sindacato. Il dibattito che si aprì, era il riflesso di un cambiamento delle prospettive internazionali allorché «dopo il XX Congresso la superiorità del sistema socialista cessa di dipendere dall’affermazione, assiomatica, della “necessaria” crisi del capitalismo […] e diventa necessario, per la prima volta dopo molti anni, tentarne un’analisi» <226.
La FIOM investita dal dibattito sul progresso tecnologico, fu costretta a rimettersi in discussione e ad accettare un ripensamento delle proprie posizioni in merito alle lotte sui tempi. Giovanni Contini ha notato l’ambivalenza dei risultati scaturiti da questo dibattito, che liquidarono il controllo sindacale sul cottimo considerato superato dalla tecnologia: «la massiccia pressione ideologica del determinismo tecnocratico […] si scioglie nell’accettazione, in blocco, di tutte le novità che i padroni hanno introdotto in fabbrica» <227.
Che il sindacato non avesse risolto le contraddizioni è opinione anche di Bertucelli che afferma come negli anni Cinquanta «uscendo dall’ideologia “stagnazionistica” e “crollista” […] permane ancora […] la convinzione che esista un’oggettività della tecnica tale da consentire, comunque, un progresso, lineare e largamente socializzabile» <228. Bertucelli è convinto che la visione dei dirigenti sindacali rimaneva slegata dalla fabbrica, discorso che seppe raccogliere Leonardi: «l’ambivalenza che si riscontra nei confronti della tecnologia sembra essere in buona parte un portato culturale autonomo e derivante dall’esperienza pratica del lavoro: la macchina infatti, può vanificare o espropriare la professionalità operaia quando è inserita in un quadro di automazione spinta, oppure può risultare uno strumento utile quando, al contrario, permette di risparmiare fatica fisica ed esaltare il mestiere del lavoratore» <229.
Foa invece ha descritto questo momento inserendolo in una lettura di lungo periodo che vedeva il 1955 inserirsi in quel grande processo di mutamenti che dal dopoguerra aveva progressivamente mutato il sindacato: «la nuova linea che viene avanti fra il 1955 e il 1960 e che trovò il suo punto più alto fra il 1969 e il 1973, è nota come linea del controllo perché poneva la classe operaia come soggetto del proprio destino così nella produzione come nella vita sociale» <230.
Come segretario della FIOM Foa sosteneva a Modena, nel 1955, la necessità di costruire un conflitto partendo da un piano diverso, costruito su basi scientifiche: «nelle condizioni nuove di sviluppo tecnico dei monopoli e di profonde lacerazioni e contraddizioni interne, la nostra lotta deve diventare più qualificata, più articolata; noi dobbiamo portare la lotta nelle fabbriche» <231. Il dirigente torinese riconsiderava il percorso sindacale alla luce del progresso tecnico e chiedeva alla struttura di adeguarvisi: «oggi, con la realizzazione tecnica più avanzata, con la disciplina delle macchine e con quella della discriminazione, quell’ora di lavoro diventa assai più carica di contenuto lavorativo di un’ora di ieri. E noi dobbiamo discutere di quello che diamo al padrone, non ci basta discutere coi contratti nazionali o anche coi contratti aziendali quello che prendiamo come salario» <232.
Foa, probabilmente, si rese conto prima di altri degli effetti delle ristrutturazioni portate avanti dalla fine degli anni Quaranta a Torino in quanto vi avevano sede le industrie a maggiore investimento di capitali, ma forse colse anche, come ipotizza Luciana Bonini, un cambiamento dell’atteggiamento padronale che sembrava «progressivamente abbandonare […] la logica ottusa della repressione aperta verso il movimento operaio, per metodi più sofisticati di integrazione» <233. Alla metà del decennio si fecero più intense le attività di propaganda e diffusione del programma delle cosiddette relazioni umane, elemento che avrebbe inevitabilmente influito sullo sviluppo dei rapporti di fabbrica. Ad un passaggio decisivo della storia industriale del paese, a conclusione della prima fase di ristrutturazione e immediatamente antecedenti al momento del boom, il sindacato era costretto ad affrontare nuove sfide.
Ancora nel 1959, nell’articolo di apertura del primo numero dei “Quaderni rossi”, alla cui esperienza nella sua fase iniziale partecipò con entusiasmo, Foa ribadiva la centralità delle problematiche sollevate dal dibattito del 1955 e l’opportunità che esse avevano aperto in quanto via d’uscita allo dogmatismo sloganistico. Tracciando un quadro della dinamica economica degli anni Cinquanta e del punto raggiunto dalle lotte sindacali in prospettiva nord-sud, Foa tracciava la mappa degli squilibri dello sviluppo, ma procedeva a smascherare il mito neocapitalistico. I destini del sindacato rimanevano legati alla sua capacità di cogliere ed interpretare con un lavoro di inchiesta le trasformazioni che avevano interessato i processi produttivi: «l’analisi della condizione operaia […] può fornirci tutti gli elementi per la costruzione della democrazia socialista, in Italia o in Europa, ma già fornisce elementi essenziali di orientamento critico e di metodo democratico. La necessità di una verifica degli obiettivi e degli strumenti della lotta politica del movimento operaio nasce come esigenza propria della stessa esperienza sindacale, come condizione per lo sviluppo delle sue stesse lotte» <234. Questo punto di vista allontanava Foa dalle posizioni di Leonardi, che avrebbe continuato fino alla fine del decennio a guardare alle Prtecipazioni Statali come al soggetto in grado di migliorare e mitigare gli effetti dell’automazione. Per Foa, che scelse di inserirsi nella prospettiva aperta da Raniero Panzieri, andava invece ribadita la legittimità del conflitto di fabbrica e l’autonomia dei processi conflittuali dal gioco dei partiti.
[NOTE]
222 S. Musso in S. Negri, Fiat 1955. Giuseppe Di Vittorio e la sconfitta della CGIL alle lezioni delle Commissioni interne, Roma, Ediesse, 2008, p. 13.
223 Ivi, p. 15.
224 V. Foa, La cultura della Cgil. Scritti e interventi 1950-1970, Torino, Einaudi, 1984, p. XII.
225 A. Accornero, La fabbrica degli intellettuali. Cultura e movimento operaio in Italia in “Il Mulino” n. 6, 1991, pp. 956-957.
226 G. Contini, Le lotte operaie contro il taglio dei tempi e la svolta nella politica rivendicativa della Fiom (1955-1956) in “Classe” n. 16, 1978, p. 23.
227 Ivi, p. 24.
228 Lorenzo Bertucelli, Nazione operaia, Futura, 1997, p. 169.
229 Ibidem. Bertucelli osserva come da parte operaia, altri fossero i pensieri legati all’automatismo: «quando […] le nuove tecnologie vengono lette dai militanti operai come uno strumento per ripristinare e riaffermare la solidità della gerarchia interna […] allora suscitano forti resistenze e opposizioni radicali […] fondate su ragioni simili sia nella memoria dei militanti operai socialcomunisti della FIOM che dei cattolici della FIM: si evidenzia così […] il radicamento di alcuni valori condivisi dell’intera comunità operaia, incentrati sull’idea dell’autonomia nell’organizzazione del proprio lavoro e sulla conservazione di livelli accettabili di “umanità” al fianco delle necessità produttive» L. Bertucelli, Nazione operaia, cit., p. 161.
230 V. Foa, La cultura, cit., p. XV.
231 V. Foa, La nuova linea delle province – Inedito conservato presso l’archivio di Modena in La cultura della Cgil, cit., p. 23.
232 Ivi, p. 24.
233 L. Bonini, Vittorio Foa protagonista e interprete della “svolta” del 1955 in “Classe” n. 16, 1978, p. 38.
234 V. Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico in “Quaderni rossi” n. 1, 1961, p. 17.
Daniele Franco, Dalla Francia all’Italia: impegno politico, inchiesta e transfers culturali alle origini della sociologia del lavoro in Italia, Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2009