E dalla rete “Nemo”…

Una via di Parma
Fonte: Mapio.net

Qualche anno fa, nell’ambito delle mie ricerche sui collegamenti tra Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia ed il Comitato di Liberazione Nazionale triestino, mi sono imbattuta in una struttura piuttosto misteriosa: la “rete” o “missioneNemo, per conto della quale sembrava essere giunto a Trieste il capitano di corvetta Luigi Podestà, che ebbe dei contatti piuttosto stretti con il commissario Collotti dell’Ispettorato Speciale e con i dirigenti della SS, e che definire ambigui è quantomeno riduttivo.
Volendo saperne di più su questa struttura ho iniziato a fare delle ricerche, dapprima su alcuni testi, poi in rete, poi ancora, vista la scarsità di informazioni disponibili, ho contattato alcuni ricercatori di mia conoscenza (che ringrazio per avermi dedicato parte del loro tempo), però l’unica risposta positiva l’ho avuta da Giuseppe Casarrubea, che mi ha inviato copia di un documento in suo possesso.
Informazioni su questa Nemo ne ho trovate in un testo di Peter Tompkins, di gran lunga il più informato in materia, che dopo averla definita “misteriosa” aggiunge che era una “missione britannica che faceva capo al SIS”; qualche cenno ne fa Roberto Spazzali, che invece la definisce “una struttura dipendente dai servizi segreti statunitensi che aveva a Trieste qualche elemento isolato”; Marco Fini e Franco Giannantoni scrivono che “compito” della “missione informativa del Regno del Sud Nemo (…) era di tenere i contatti tra gli inglesi e la Resistenza italiana”; alcuni spunti interessanti li troviamo in due articoli di Franco Morini, infine un’altra (a prima vista insospettabile) fonte di notizie su Nemo è la Sentenza ordinanza redatta dal Giudice istruttore Carlo Mastelloni relativamente all’inchiesta su Argo.
Coincidenza curiosa: pochi mesi dopo, nella primavera del 2011 la casa editrice Mursia ha pubblicato un libro dedicato proprio alla “Missione Nemo” (“operativa al di qua della linea gotica dal 18 marzo 1944 al 2 maggio 1945”).
Contiene, oltre alle memorie di Francesco Gnecchi Ruscone, (che della “rete” fece parte), anche molte pagine di inquadramento storico (che si rifanno in genere a testi oggi difficilmente reperibili) e documenti della “rete” stessa.
Dopo averlo letto sono andata a consultare i documenti originali, conservati presso l’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito, nella sezione del SIM dove ho trovato moltissimi dati che il libro non riporta ma che mi sono sembrati fondamentali per inquadrare meglio questa “missione”.
Claudia Cernigoi, Alla ricerca di Nemo. Una spy- story non solo italiana su La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo, supplemento al n. 303, Trieste, 2013

Altro esempio è quello che ci viene fornito dalla trattativa più nota della guerra in Italia <129>. Tramite il capitano Mallaby, un ufficiale britannico catturato dai tedeschi e poi rilasciato <130>, il Comandante delle SS in Italia, Wolff, si era messo in contatto con gli Alleati per arrivare ad un accordo di ampio respiro. Alla componente tecnica di ogni armistizio, la cessazione delle reciproche ostilità, affiancava una dimensione spiccatamente politica, suggerendo ad Alexander di «[…] fermare il lancio [di rifornimenti] ai gruppi comunisti». Se il SACMED avesse aderito «egli avrebbe permesso agli altri gruppi partigiani di passare liberamente attraverso le linee verso sud». Il tedesco «[…] sapeva che la Germania aveva perso la guerra ed aveva paura che i tedeschi divenissero comunisti» <131>. La richiesta venne ripetuta da Berna il 13 aprile <132>, ma sulla linea dell’ostilità espressa da Holland nel febbraio precedente <133>, lo SOE decise di lasciare al solo OSS la «responsabilità per questi negoziati» verso cui non era favorevole <134>.
Ovviamente non mancavano sostenitori degli accordi, ma queste posizioni erano espressione dello SOE di ufficio. V300 ad esempio affermava, con il pieno appoggio di Berna, che «[…] la ritirata tedesca probabilmente non sarebbe stata seriamente disturbata dall’azione dei partigiani». Lo stesso «l’aiuto militare» che essi avrebbero potuto assicurare «sarebbe [stato] trascurabile». Piuttosto andava tenuto conto delle «conseguenze economiche e sociali di salvare o perdere gli impianti» <135>. Ma il frangente era diverso, la guerra stava volgendo al termine ed il contenuto degli accordi cambiato. Non si trattava più di tregue localizzate, quanto di accordi molto più concreti circa le modalità del ritiro. Ed in effetti l’unico intervento significativo delle missioni fu durante la resa definitiva tedesca, un compito che rientrava nella serie di attribuzioni alla Special Force durante la fase Rankin <136>.
130 Troviamo il rapporto della sua vicenda in HS 6/873 del 11-3-45, Mallaby-?, Report on operation Edeton blue; il suo interrogatorio in HS 6/873 del 12-4-45, anonimo, Interrogation report on Cpt. Mallaby; R. THORNTON HEWITT, In ricordo di Dick Mallaby, in AA.VV., N. 1 Special Force…cit., p. 297 e ss, descrive le vicende della missione.
131 HS 6/874 del 10-3-45, Berne-?.
132 HS 6/874 del 13-4-45, Berne-?.
133 HS 6/844 del 31-5-45, Holland-?, Envelope Blue; [C. A. HOLLAND, La missione Toffee…cit., p. 287, «il Comando tedesco fece giungere a Mauri […] una proposta che prevedeva la concessione di una sorta di lasciapassare […] in cambio dell’astensione di questo da atti di distruzione. Molto correttamente Mauri mi informò ed io, in considerazione dell’ormai inesistente capacità offensiva della Luftwaffe in Italia, anticipai n parere negativo, che fu poi ribadito della decisioni del Comando unico e del Comando alleato».]
134 HS 6/873 del 13-3-45, London-?; A. DULLES, The secret surrender…cit., p. 190 e ss.
135 HS 6/776 26 del 22-3-45, Berne-?.
136 HS 6/839 del 5-7-45, Readhead-?. Sebbene nel passato c’erano già state delle proposte di resa dei partigiani, il maggiore comunicava ai tedeschi che con la morte di Hitler, essi avevano «una scusa per cambiare la propria posizione».
Mireno Berrettini, Le Missioni dello Special Operations Executive e la Resistenza Italiana, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Pistoia, QF, 2007, n° 3

Non era mancata nei giorni immediatamente successivi alla fine della guerra una pagina illuminante che la diceva lunga sul ruolo che avrebbe avuto l’Oss nella storia d’Italia.
Alcuni marò della X Mas di Junio Valerio Borghese, fatti prigionieri nell’Italia del Nord, ed ex-agenti segreti del Governo del Sud, erano stati trasferiti a Villa Rosmini di Blevio sul lago di Como per frequentare un corso accelerato per croupier da utilizzare al casinò di Campione d’Italia, prossimo alla riapertura dopo anni di paralisi.
L’interesse mai sopito degli Alleati e degli gnomi italo-svizzeri per il ‘tavolo verde’, si era realizzato, garante dell’operazione quel Felice De Baggis, sodale dell’agente Jones, poi sindaco dell’énclave dal 1951 per un ininterrotto trentennio.
Nelle stesse ore gli Alleati avevano aperto la caccia a Mussolini. Lo avrebbero voluto vivo per affidarlo alle Nazioni Unite, come prevedeva la clausola n. 29 del Lungo armistizio del 29 settembre 1943 firmato a Malta sulla corazzata ‘Nelson’ da Eisenhower e Badoglio, ma era loro sfuggito malgrado il massiccio impegno dei servizi segreti di Emilio Daddario e Max Corvo. Erano stati bruciati sul tempo dalla ‘missione’ del Cvl-Clnai di Walter Audisio e Aldo Lampredi. Ma questa è un’altra storia. Franco Giannantoni in paginauno, 10 giugno 2010

Trieste: Canal Grande
Fonte: Mapio.net

[…] Il che significa che fu la politica nazionalista e discriminatoria del CLN giuliano a rovinare i rapporti tra gli antifascisti delle diverse etnie e tendenze ideologiche.
Il CLN giuliano e la Rete Nemo.
Fu proprio in seguito a queste posizioni settarie che il CLN di Trieste rimase di fatto isolato fino all’inizio di dicembre, quando fu “riagganciato” al CLNAI da agenti della Rete Nemo (la missione congiunta del SIM del Regno del Sud e dei servizi britannici comandata dal capitano di corvetta Enrico Elia Nemo, dal quale prese nome <55>), che avrebbe sviluppato anche una “maglia per la zona di Trieste” <56>. Questa “maglia” potrebbe identificarsi nella missione del SIM di cui sarebbe stato “vice capo” l’agente triestino di Nemo Giuliano Girardelli Giardino, che in un documento ne elenca i “collaboratori principali (ma non indica il “capo”): colonnello Mario Ponzo, maggiore Giuseppe Trebbi, sottotenente Armando Lauri, nocchiero Maniscalco; “il capo Bergera”; capitano Massimo Marassi, ed i civili Lucio Profeti, Camillo Girardelli, Giusto Muratti. A questa missione avrebbe dato “volontaria, disinteressata collaborazione” Marcello Spaccini, che avrà un ruolo molto importante nel CLN al momento dell’insurrezione <57>.
Ai primi di dicembre giunsero a Trieste gli emissari della Rete Nemo Riccardo De Haag Fausto e l’ex cappellano militare don Paolino Beltrame Quattrocchi Fulvo, il quale scrive: “dopo avere accompagnato a destinazione una missione informativa giunta da Roma, composta dal comandante Podestà e da altro ufficiale di marina presiedemmo entrambi, per tre giorni, le sedute del CLN triestino, raggiungendo conclusioni di particolare importanza” <58>.
Del capitano di fregata Luigi Podestà <59> una relazione jugoslava scrive che “si trovava a Trieste dalla fine del ’43 o dal principio del ’44 in servizio di spionaggio da Grado a Capodistria per conto delle Nazioni Unite” <60>. Ma in un documento conservato nell’archivio di Nemo, sotto l’indicazione “Podestà Luigi, Puccini, missione Corn”, si legge l’annotazione manoscritta “non si sa nulla!” <61>.
Podestà data la propria partenza da Milano (dove fu finanziato dall’industriale Alberto Pirelli) per Trieste (assieme a De Haag ed al suo collaboratore Attilio Marchini) il 4/12/44 <62>, il che coincide con le dichiarazioni di don Paolino (che però Podestà non nomina), mentre il comandante Nemo scrive di avere inviato in novembre (non in dicembre) 1944 “una missione a Trieste di cui faceva (sic) parte il suddetto don Paolino, il cap. Riccardo De Haag ed altri due ufficiali inviati espressamente dal Sud” <63>.
[…] Va detto infine che nei faldoni relativi a Nemo sono conservati diversi documenti sulla situazione etnica e politica della Venezia Giulia, ma del solo Partito d’Azione, che, come ricordiamo, si era attivato in senso nazionalista: a questo scopo furono inviate alla Special Force anche le analisi di Schiffrer sulla composizione etnica della Venezia Giulia che abbiamo precedentemente citato <78>.
E nonostante le intenzioni di collaborazione esposte nell’“ordine del giorno”, nel gennaio 1945 veniva diffuso, a cura del CLN giuliano, un volantino nel quale si accusano i comunisti di voler “farsi complici” di un “terzo imperialismo”, quello “che vorrebbe persuadere il popolo triestino a rinnegare la sua patria italiana per consegnarlo ad una federazione jugoslava” <79>.
Tutto ciò non fa che confermare le parole di Girardelli riguardo lo scopo delle riunioni in casa di Ponzo, cioè “l’Italianità di Trieste ed il pericolo Comunista su di essa incombente”; un Comitato non finalizzato alla liberazione dal nazifascismo, ma creato esclusivamente in funzione anti-jugoslava e per la lotta al comunismo.
54 Le citazioni sono tratte dal documento conservato nell’archivio IRSMLT n. 286. Nel dopoguerra Soncini svolse attività giornalistica, fu per molti anni presidente regionale dell’Ordine dei giornalisti, e dirigente della Federazione Volontari della Libertà.
55 Sulla Rete Nemo si vedano Francesco Gnecchi Ruscone, “Missione Nemo”, Mursia 2011 e C. Cernigoi, “Alla ricerca di Nemo”, Trieste 2013, reperibile in http://www.diecifebbraio.info/2013/06/alla-ricerca-di-nemo-una-spy-story-non-solo-italiana-2/ .
56 Relazione di Elia d.d. 30/8/45 in Peter Tompkins, “L’altra Resistenza”, Il saggiatore 2005, p. 379 e seguenti.
57 Il documento di Girardelli e la “nota di ringraziamento” a Spaccini sono citati nella Sentenza ordinanza n. 318/87 A. G.I., Procura di Venezia del giudice istruttore Carlo Mastelloni relativa al misterioso “incidente” occorso all’aereo Argo 16, in uso alla struttura Gladio, p. 1725, 1726. L’ingegnere Spaccini, romano, fu inviato a Trieste nel corso del conflitto come dirigente delle Ferrovie, ma era anche agente della Sezione Calderini (la sezione “offensiva” del SIM); fu sindaco di Trieste dal 1968 al 1978. Mastelloni aggiunge che Spaccini fu “successivamente impiegato come elemento di riferimento per le attività dell’Ufficio Zone di Confine nella Venezia Giulia quale organizzatore colà delle strutture anticomuniste” (S.O. n. 318/87, cit. p. 1725)
58 “Relazione sul nucleo di Parma della Missione Nemo”, in F. Gnecchi Ruscone, op. cit., p. 163.
59 Nel 1928 Podestà aveva pubblicato a proprie spese il testo teosofico “L’Uno”, così definito dal suo amico, lo scrittore ed inventore veneziano Giorgio Cicogna (che dopo avere frequentato l’Accademia militare di Livorno ed avere combattuto nella prima guerra mondiale come comandante di un mas abbandonò la Marina per dedicarsi a studi scientifici ed alla scrittura di testi fantascientifici e morì nel 1932 nell’esplosione del suo laboratorio dove cercava di realizzare un motore a reazione): “un volumetto che forse è meglio non vada tra le mani di troppa gente; per il grosso pubblico ci sono i brodetti della teosofia e i minestroni degli occultisti”.
60 “Elementi a disposizione del Tribunale Militare di guerra Jugoslavo (CLN)”, da “informazioni avute il 13 nov. dall’avv. Colonna”, in Arhiv Slovenje (AS 1584, zks ae 139). L’avvocato Ettore Colonna era Sostituto Procuratore generale della Corte Straordinaria d’Assise di Trieste, istituita dal GMA per giudicare i crimini commessi durante la guerra.
61 AUSSME, b. 50, n. 46.695.
62 “Relazione del Capitano di Fregata Luigi Podestà sulla sua missione nell’Italia del Nord (5 settembre 1944 – 3 maggio 1945) e sulla sua deportazione in Jugoslavia (3 maggio 1945 – 9 luglio 1947)”, in Archivio IRSMLT, n. 867.
63 “Missione Nemo”, op. cit., p. 226.
78 In AUSSME, buste 90 e 91.
79 Il volantino è pubblicato in A. Fonda Savio, op. cit., p. 60.
Claudia Cernigoi, Le Due Resistenze di Trieste, Supplemento al n. 328 – 26/3/15 de “La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo”

Recensendo un libro che rivelerebbe – condizionale d’obbligo – talune pretese “avventure” di Don Paolino Beltrame Quattrocchi, deceduto nel 2009 alla veneranda età di quasi cent’anni, “L’Osservatore Romano” ha intitolato tale recensione: L’uomo che ispirò don Camillo. A Don Paolino, quale importante membro dell’esiziale rete spionistica anglo-badogliana “Nemo”, abbiamo dedicato vari articoli che rendono scontata la conoscenza del personaggio da parte dei lettori che hanno avuto la pazienza di seguirci. Senza dover perciò riandare al già scritto, cominceremo a dire che pur condividendo nella sostanza un certo parallelismo fra i due Don, non per questo concordiamo riguardo ai pretesi fatti narrati e anche per quanto riguarda il titolo. Iniziando da quest’ultimo – ai fatti passeremo poi – si vorrebbe far credere che Don Paolino avrebbe ispirato Guareschi “per la creazione del celebre personaggio di Don Camillo” (sic). Ciò, erroneamente ritenendo che i due si fossero conosciuti a fine a guerra, nel centro d’accoglienza della Pontificia Opera Assistenza di Pescantina (Verona), punto di ristoro per gli ex prigionieri in rimpatrio dall’estero, dove effettivamente ebbe a transitare, di ritorno dal lager, Giovannino Guareschi […] Lasciando i “se” per passare ai fatti riferiti in articolo, stupisce non poco leggere che: “Nel 1944 padre Paolino si recò personalmente a Salò, al Ministero della Guerra, ottenendo la sospensione della pena capitale per ventisei partigiani parmensi”. Il fatto accennato dal foglio vaticano, risaliva all’Aprile 1944, e non risulta che Don Paolino, molto indaffarato all’epoca a tessere la maglia parmense della rete Nemo, abbia svolto significativi ruoli circa le sospensioni di condanne capitali inflitte dal Tribunale Militare, a partigiani renitenti alla leva, sorpresi in armi in una loro base di montagna […] Tornando all'”Osservatore”, l’articolista proseguiva infilando perla dopo perla riportando che: “In altre occasioni (Don Paolino) intervenne presso il carcere di Parma a favore di alcuni condannati a morte con l’accusa di connivenza al fascismo. É il caso di Pietro Barilla che diventò suo intimo amico e nel dopoguerra finanziò molte delle sue numerosissime opere assistenziali”. Il Barilla in oggetto era appunto l’industriale dell’omonimo pastificio avviato dal padre, Riccardo, che allora dirigeva ancora l’azienda […] Per quanto se ne sa, il solo Barilla che a quel tempo rischiò effettivamente la vita, fu invece il padre del signor Pietro, Riccardo, quale vittima di sequestro da parte partigiana. Stando sempre al narrato di Pietro ad Alberoni, il padre fu rapito da individui armati, evidentemente al corrente di un suo programmato tragitto in auto nella provincia. Bloccato e prelevato alla periferia di Langhirano, fu poi condotto in zona partigiana, in Alta Val Parma. Su questo episodio, il signor Pietro stranamente omette di citare un precedente intervento di Don Paolino a favore del padre. Fatto di cui poco o nulla si sarebbe saputo se non avesse provveduto in proposito lo stesso Don Paolino tramite una lettera inviata ai famigliari di Pietro, nel frattempo deceduto, dove faceva sapere, fra altre cose, che “tra l’Agosto e il Settembre del ’44 Riccardo Barilla suo padre, venne preso in ostaggio dai partigiani. Io, già da tempo ero coinvolto negli alti vertici della Resistenza a diretto contatto con il generale Cadorna, Pietro che era al corrente delle mie ‘amicizie pericolose’ venne subito a chiedermi d’interessarmi per il riscatto di suo padre. Attraverso un carissimo amico, il Maggiore dei Carristi Max Casaburi, potei effettuare la mediazione”. Pleonastico aggiungere che anche il Maggiore Casaburi, Comandante militare clandestino della Piazza di Parma su designazione di Cadorna, era anch’egli membro della rete Nemo come luogotenente di Don Paolino […]
Franco Morini, Ulteriore capitolo dell’infinita saga “Nemo” in L’Ultima Crociata, marzo 2019

A Francesco Gnecchi Ruscone da bimbo in casa insegnarono che «ogni privilegio è un debito»: etica cavalleresca che impone un «ritornare» ciò che si è avuto e che formò il carattere del protagonista di Missione «Nemo» -. Un’Operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-45 (Mursia). Cooptato da Emilio Elia, detto Nemo, (capitano di corvetta della Regia Marina, già combattente nella I Guerra mondiale, poi nella II, quindi primo questore di Milano), doveva eseguire rilievi cartografici della linea difensiva progettata dai tedeschi a nord del Po. Elia dopo l’8 settembre ’43 agì per l’Intelligence britannica per trasmettere notizie militari, industriali e politiche. Obiettivo finale degli Alleati era «stabilizzare l’Italia del dopoguerra dal punto di vista sociale prima che politico». Cardine della ricostruzione i bacini idroelettrici, fornitori di energia alle industrie di pianura. «Nemo Op. Sand II» con «sand» (=sabbia) si riferisce allo sbarco di Elia (portato dagli Alleati) in un paesino delle Cinque Terre.
Le scelte di Francesco, in linea con la sua famiglia di soldati, nascono improntate ad onore ma con pragmatismo.
[…] Con lo stesso pragmatismo Francesco, ventenne studente del Politecnico, si lascia cooptare da Nemo perché, caduto Mussolini, ritiene «il problema maggiore portare l’Italia fuori dalla guerra». Parte in bici per la missione con due libri: Kim di Kipling e Introduzione all’Architettura moderna di Sartoris. Dopo un anno di attività, torturato dalle SS germaniche di Padova, non fa il nome di nessuno dei compagni. Riscattato con un pagamento in monete d’oro, commenta: «Gli eroici nibelunghi, prima del fugone finale, sono diventati un’anonima sequestri».
In corollario alla missione, è mandato a recuperare 40 casse di documenti segreti dell’Archivio di Stato, trafugate dai tedeschi, tra cui viene ritrovata la collezione numismatica di Vittorio Emanuele III. Nel suo raccontare, ciò che più piace, è il proporsi senza enfasi. Di sé e dei suoi compagni dice: «In noi un po’ di Sandokan e Don Chisciotte, di Primula Rossa e Gianburrasca, dovevamo fare quello che ci pareva giusto e farne un buon lavoro».
Nella premessa Marino Viganò, diplomato in Scienze politiche alla Cattolica di Milano, dottore di ricerca in Storia militare a Padova, sottolinea: «In Inghilterra Harry Hinsley tra il 1979 e il ’90 pubblicò in cinque volumi la storia dell’Intelligence, mentre la storiografia italiana ad ora non ha avuto quasi accesso alle carte del Sim (Servizio Informazioni Militare). Per raccontare «Missione Nemo» ha scelto Gnecchi Ruscone perché ne lesse l’autobiografia in inglese, del ’99: Quando essere italiani era difficile. Così difficile raggiungere le carte del Sim che lo storico Gianfranco Bianchi riferisce sulla «Nemo» (Per la Storia, Vita e Pensiero, 1989) in 10 righe «autocompiaciute» (secondo Viganò) per la scoperta. Bianchi è stato giornalista per 50 anni, storico del Fascismo di cui raccolse documenti dalla caduta di Mussolini. Grande educatore di coscienze di giovani, fondò con Apollonio la Scuola della Comunicazioni Sociali, con sede prima a Bergamo poi alla Cattolica.
Nell’appendice documentaria, redatta da Viganò con Susanna Sala Massari, colpisce il fiume di denaro (finanziamenti della missione) da gruppi industriali e banche, italiani ed esteri. Nell’elenco nominativo dei quasi 200 collaboratori, anche don Paolino Beltrame Quattrocchi e Suor Giovanna.
Redazione, Missione «Nemo», un eroe contro i nazisti, il Giornale.it, 7 maggio 2011

Parma: Archivio di Stato
Fonte: Mapio.net

[…] L’intesa tra SIM-Marina e «Missione Nemo» (aprile 1944)
Il contributo offerto da Padre Paolino a favore del SIM-Marina (intelligence) si amplia ulteriormente quando questo organismo arriva a realizzare un’intesa con i membri della «Missione Nemo».[25] Il 1° aprile del 1944 la struttura di intelligence di Parma, collegata al SIM-Marina, si integra con la «Missione Nemo». Ciò avviene a Parma, in un incontro tra il Capitano di Corvetta Emilio Elia [26] (della «Nemo») e Padre Paolino (del SIM-Marina).[27]
Per comprendere tale dinamica è utile fornire qualche dato sulla «Missione». Fu istituita dall’«Office of Strategic Services» (O.S.S., intelligence USA). Si sviluppa dal marzo del 1944 arrivando a inserire propri membri in punti strategici della Repubblica Sociale Italiana, nei CLN di Milano e Trieste, nel CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia).
Il responsabile è il Capitano Elia. Questi, nella notte del 18 marzo 1944, con un «Mas»[28] è sbarcato a Punta Corona, nelle Cinque Terre (vicino a Monterosso). Abile nei movimenti, valido nella scelta dei collaboratori, imposta sei ramificazioni operative (importanti quelle di Parma e di Milano). Si cerca in pratica di raccogliere informazioni (militari, industriali e politiche), sorvegliare i movimenti dei nazifascisti, comunicare in cifra notizie vitali e urgenti, dare aiuto ai fuggitivi, preparare e consegnare documenti falsi. Ciò viene realizzato d’intesa anche con il «Secret Intelligence Service» (S.I.S.) britannico.
La missione a Roma (febbraio 1945)
Nel febbraio del 1945, Padre Paolino riceve un incarico dal comandante in capo del Corpo Volontari della Libertà, Generale Raffaele Cadorna [29] (con il «placet» del Cardinal Schuster). Deve raggiungere Roma insieme a De Haag e consegnare a Umberto II delle relazioni, oltre a fornire a voce aggiornamenti sui tentativi in atto per arrivare a un «cessate il fuoco» tra Alleati ed esercito tedesco posizionato in Italia.
Su questa vicenda esiste oggi una discreta conoscenza. La prima relazione (datata 26 febbraio 1945) riguarda Esercito nazionale e comando unico del CVL. La seconda (del 27 febbraio 1945) fa riferimento alla questione di Trieste (rischio di perdere l’italianità). La terza (27 febbraio 1945, Polizia) comprende questioni di ordine pubblico. La quarta (27 febbraio 1945) affronta il tema dei Tribunali insurrezionali (progetto mirato a giudicare rapidamente i colpevoli di crimini evitando un loro riutilizzo nella pubblica amministrazione). Ci sono poi anche due allegati che riguardano il sistema di distribuzione dei fondi CLNAI, e la questione del Comandante unico.
Ma un punto chiave rimane l’argomento riferito a voce: le trattative con i Tedeschi per far cessare la guerra in Italia. Al riguardo è utile un cenno.
1) La situazione bellica del tempo impedisce contatti diretti tra chi opera clandestinamente al Nord (nella Repubblica Sociale Italiana) e chi agisce nei territori liberati dagli Alleati. Il Governo dell’Italia libera ha urgenza di comprendere varie situazioni, dagli orientamenti della Resistenza (divisa tra più correnti ideologiche) alle questioni dell’Italia Orientale (dissidi nel Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste tra la posizione italiana e quella slava)[30] fino alle questioni legate alla tutela degli impianti industriali.
2) Ma il problema più grave è un altro: esistono in quel momento diverse iniziative mirate a far cessare il conflitto in Italia. Per arrivare a questo necessita un accordo tra Tedeschi e Alleati.[31] Il percorso seguito si rivela problematico perché più interlocutori diventano negoziatori, perché permangono valutazioni diverse tra gli Alleati[32], perché tra i Tedeschi c’è disaccordo[33], perché le iniziali richieste tedesche – così come sono formulate – trovano dinieghi. Si vuole comunque arrivare a un risultato. La strada definitiva sarà l’accordo tra Karl Wolff[34] (Generale Tedesco, SS) e il Comitato di Liberazione Nazionale, un’intesa mediata da Allen Welsh Dulles[35] (O.S.S. Svizzera) e dal Cardinal Schuster.
Per l’esito positivo della missione a Roma Umberto II conferisce a Padre Paolino una medaglia d’argento al valor militare.
25 F. Gnocchi Ruscone, Missione «Nemo». Un’operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-1945, Mursia, Milano 2011.
26 Emilio Elia (1899-1974). Ingegnere di Torino. Capitano di Corvetta della Regia Marina. Nome in codice di missione: Ingegner Bruno. Già combattente nella Prima Guerra Mondiale, poi nella Seconda. Primo questore di Milano dopo la Liberazione.
27 Con riferimento alla «Nemo» si può ricordare che Padre Paolino risulta inserito nella missione «Barley» ma il suo campo di azione fu comunque molto vasto.
28 Motoscafo armato silurante.
29 Raffaele Cadorna (1889-1973).
30 Esisteva il pericolo di un’occupazione da parte dei partigiani di Tito.
31 Piano A: ritiro. Piano B: capitolazione.
32 I comandi militari alleati, ad esempio, vedono con preoccupazione un possibile rientro in Germania delle divisioni tedesche dislocate in Italia.
33 Il capo delle SS in Italia è per la trattativa, i comandi dell’esercito tedesco no.
34 Karl Wolff (1900-1984).
35 Allen Welsh Dulles (1893-1969).
Pier Luigi Guiducci, Uno 007 insospettato: Padre Paolino Beltrame O.S.B. (1909–2008), ottobre 2019 in Storico.org

Parma: Piazza Garibaldi
Fonte: Wikipedia

Il documento 1/97 pubblicato a cura della FNCRSI, contiene una ampia analisi con relativa critica alla genesi involutiva che ha influenzato più o meno tutta l’area neofascista a partire dalla sconfitta del ’45. La premessa a tale documento recita testualmente che: «Fondato per continuare la RSI, il MSI divenne presto strumento dell’antifascismo. Venuta meno tale funzione lo strumento è stato messo da parte. Chi, come noi, prese parte alle prime riunioni e ai primi “giornali parlati” tende a respingere l’ipotesi (ancorché verosimile, ma priva di concreta dimostrabilità) che il MSI sia sorto dalla iniziativa promossa dal Viminale al fine di incanalare in un alveo prestabilito la diaspora dei “repubblichini” sbandati e pericolosi».
A questo proposito avviene che, nel battere strade periferiche di storia locale, siamo inciampati del tutto casualmente in sentieri imprevisti che a percorrerli portano dritto nella selva (davvero oscura) da cui ha tratto origine l’ex-MSI. Ciò a premessa che l’intreccio della ricerca effettuata non parte da tesi precostituite ma è piuttosto il frutto, diciamo pure selvatico, di una pianta incontrata, casualmente, nel campo delle ricerche sul fascismo e neofascismo a Parma. Qui abbiamo colto il capo di alcuni fili dell’intreccio, anche perché molti tra i fondatori occulti o palesi del MSI come Augusto Turati, Romualdi e perfino Almirante, sono nati o hanno costruito le basi della loro carriera politica nella zona di Parma.
Nel passare all’esposizione dei rari fatti riscontrati, si deve necessariamente partire al largo per cogliere l’esatta essenza dei personaggi e le loro trame. A partire dal più importante, cioè Romualdi, il quale, da direttore della “Gazzetta di Parma”, divenne nell’autunno del ’44 il vice di Pavolini. Per quanto riguarda strettamente la sua permanenza a Parma, vi è da dire che Romualdi si dimostrò fin dall’inizio un «duro e puro» del nuovo corso repubblicano. Si comincia dalla prima rappresaglia effettuata nel febbraio ’44, che, contro il parere del Federale Carbognani, da lui viene attivata facendo intervenire una squadra di fascisti dalla vicina Reggio Emilia. (1) Il federale Carbognani, per protesta contro la rappresaglia che non condivideva, si dimetterà dalla carica per arruolarsi fra le truppe combattenti della RSI lasciando che in tal modo Romualdi ne approfitti per prendere il suo posto nella carica di Commissario federale.
Si noti che le vittime dell’azione repressiva non erano certo antifascisti di spicco, tutt’altro; avevano solo la disgrazia di rispecchiare una certa consorteria borghese-capitalista già pesantemente bollata alcuni giorni prima in un fondo sulla “Gazzetta” di Romualdi. (2) Nonostante la chiara relazione fra l’articolo pubblicato e la scelta delle vittime designate, alla fine della guerra vennero incolpati solo il Capo provincia di Parma, Valli (poi assolto) e il federale Carbognani che nel frattempo era perito nel conflitto. Anche Romualdi venne condannato a morte in contumacia dalla Corte d’Assise Straordinaria di Parma, ma per un’altra rappresaglia, effettuata in Piazza Garibaldi l’1 settembre ’45.
A novembre, Romualdi viene nominato vice-segretario del PFR, e quindi deve lasciare la città per trasferirsi in Lombardia. Egli mantiene peraltro stretti rapporti con la città di Parma, continuando a firmare come direttore del quotidiano cittadino. A Milano, Romualdi trovò sistemazione in via Manzoni, 10 (Palazzo Crespi) insieme ad una piccola corte di parmigiani fra cui figuravano la segretaria Paola Ninci, l’autista Bertani, il Sotto Tenente della B.N. Scandaliato, il dottor Mattioli e infine il Tenente degli Alpini, Nadotti.
Il Tenente Gianni Nadotti, come venne poi accertato, era un pericoloso infiltrato del SIM badogliano. Scrive a posteriori il Nadotti in una sua relazione ufficiale sull’attività svolta in seno al SIM: «febbraio ’44 – prendo contatto con Don Paolino Beltrame quattrocchi emissario del SIM dello S.M. del R.E. per la provincia di Parma; con cartolina precetto vengo richiamato alle armi nell’E. R. (Esercito repubblicano – N.d.R.); mi rivolgo a Don Paolino dichiarandogli di essere fermamente deciso a non presentarmi e chiedendogli indicazioni per lasciare la città; Don Paolino mi esorta invece a rispondere alla chiamata essendo che potrei essere di più valido aiuto come Ufficiale dello E. R. che come civile; Don Paolino mi autorizza a prestare, con riserva mentale, giuramento di fedeltà alla RSI. ( 3 ) (…) gennaio ’45 – si presenta per me la possibilità di essere trasferito a Milano quale ufficiale di collegamento alla Direzione del PFR; sottoposta la questione al C.P. e a Don Paolino quale capo della missione “Nemo” per la maglia di Parma questi ritenendo opportuno che io occupi il nuovo posto, mi ordinano di accettare l’incarico in data 13 mi trasferisco a Milano ove mi viene affidato il Comando dell’autoparco del PFR; a Milano tramite Don Paolino entro in contatto col capo Riccardo De Haag (Mario Rossi-Fausto-Alpino) vice comandante della Piazza di Milano, vice capo rete Nemo e dopo la liberazione primo vice questore di Milano; ho la possibilità di controllare la corrispondenza del PFR e i movimenti degli esponenti del partito stesso». (3)
In realtà Nadotti spiava la corrispondenza e i movimenti degli esponenti fascisti, più ancora che dall’autoparco, per mezzo della stessa segretaria di Romualdi, Paola Ninci, con la quale convolerà a nozze proprio a Milano nei primi mesi del ’45. A fine marzo il S.D. di Parma porta un grave colpo alla rete clandestina antifascista della città; in questo contesto viene a galla anche il doppio gioco del Nadotti, che viene pertanto reclamato dalla polizia tedesca. Per Nadotti la situazione sarebbe disperata se non accorresse in suo aiuto lo stesso Romualdi, che invece di consegnarlo ai tedeschi lo fa mettere sotto la tutela del Col. Volpi della GNR. Viene, è vero, denunciato al Tribunale di Guerra, ma solo per -riportiamo testualmente- aver «tentato ripetuti contatti con esponenti del predetto comitato sedicente di “liberazione” al soldo del nemico». (sic!) (4)
A voler essere proprio cavillosi, a carico del Nadotti vi era ben altro, a cominciare dal suo incarico di uccidere alla prima occasione propizia lo stesso Romualdi. Anche se, come afferma nel suo memoriale Nino Scandaliato: «… con varie motivazioni il Nadotti riuscì sempre a convincere i suoi “amici” ad attendere momenti più propizi. Probabilmente, frequentandolo, Nadotti comprese ciò che Romualdi faceva o tentava di fare per la Patria e non si senti più l’animo di portare a termine la missione che gli era stata affidata». (5) Resta da sottolineare che in data 23 aprile ’45 il Nadotti dichiara di essersi tranquillamente «allontanato» dalla caserma della GNR che lo aveva in custodia, anche a questo fatto non pare estraneo il passaggio a Parma, proprio in quei giorni del suo ex-comandante, Romualdi.
Con tutto ciò siamo giunti alla drammatica fine della RSI, i cui termini non sono esenti dalle gravi responsabilità di Romualdi. Il 25 aprile, Romualdi incontra Mussolini in Prefettura subito dopo l’incontro-scontro all’Arcivescovado e, come lui stesso ci racconta nelle memorie postume: «… io gridai per lui l’ultimo saluto: A noi! Mi guardò con un affettuoso sorriso: “Romualdi, a domattina a Como”. Fu l’ultima volta che lo vidi». (6) L’appuntamento a Como non era certo fra le più probabili previsioni, in quanto questa tappa era piuttosto eccentrica rispetto all’unico progetto alternativo alla difesa ad oltranza di Milano, cioè il ridotto in Valtellina. A questo punto non si spiegherebbe, si fa per dire, il tempismo col quale furono allertati i vari servizi segreti nemici (OSS, SIM) dislocati in Svizzera, i quali già nella mattinata del 26 aprile avevano inviato a Como i loro agenti già muniti di regolari credenziali delle autorità alleate per trattare il passaggio dei poteri (resa) con i fascisti. (7)
Proseguiamo per tappe cronologiche. Alle prime ore del mattino parte da Milano in direzione di Como, dove giungerà circa alle 8 del mattino, la colonna di Pavolini e Romualdi composta da 5.000 Camicie Nere trasportate da circa 200 camion, fornite di armamento leggero e pesante. Mussolini e il suo ristretto seguito erano giunti da Milano diverse ore prima; ma il Capo provincia di Como -che era già passato agli ordini del CLN- lo convinse a proseguire affermando che per la sua relativa scorta la città non era affatto sicura. Sicché, quando iniziò il concentramento su Como di Pavolini e delle altre colonne il movimento nel Nord, il Duce si trovava a poche decine di chilometri, nella zona di Menaggio. Saltato l’appuntamento, Pavolini s’affanna avanti e indietro sul lago di Como, prima per rintracciare la colonna Mussolini e poi per mettere in salvo in Svizzera la sua amante. Romualdi dal canto suo preferisce rimanere a Como; per organizzare, dice, le altre forze che stavano convergendo sulla città.
Durante la giornata del 26, sia tramite il Prefetto che il vice-federale di Como, giungerebbero proposte di resa che, pare, sarebbero state riferite anche a Pavolini. Poi improvvisamente con la notte la situazione sembra divenuta incontrollabile. Erano le tre della notte del 27 aprile, quando Pavolini lasciava Como quasi solo per raggiungere Mussolini. Più o meno alla stessa ora, Romualdi incaricava il cappellano militare Don Russo e il federale di Mantova, Motta, di firmare un «accordo» con gli esponenti antifascisti a cui era stato perfino concesso di insediarsi nella Prefettura (di fatto già un passaggio d’autorità). Così mentre Mussolini attendeva con sempre meno speranze la colonna Pavolini, da parte sua Romualdi trattava la resa -perché di questo si trattava- delle forze fasciste, che dopo l’allontanamento di Pavolini dipendevano ormai solo da lui.
Sarà Mino Caudana che negli anni ’50 raccogliendo varie testimonianze sui fatti di Como, poi riportate nell’opera “Il figlio del fabbro” svelerà incidentalmente al pubblico tale coincidenza fra la partenza di Pavolini e la resa del suo vice. Romualdi, unico tra i sopravvissuti a rifiutare fino alla morte il suo contributo memorialistico, questa volta volle intervenire dalle pagine della sua rivista “l’Italiano” per rettificare quanto riportato da Caudana circa i fatti del 26-27 aprile. (8) Significativamente, nel caso in questione, fu la prima volta che Romualdi interloquiva sull’argomento, che notoriamente non era di suo gradimento. Difatti la tesi di Romualdi è che tutto quanto è successo fra Como e Dongo si deve unicamente al «mancato appuntamento» nella città di Como. Insomma la responsabilità ricadrebbe su Mussolini o meglio chi lo ha consigliato di spostarsi di qualche chilometro avanti sul lago.
«Pavolini non promise nulla di quanto non fosse vero. Se il gruppo del governo non fosse stato male consigliato ad abbandonare Como nel corso della notte, contrariamente a quanto stabilito, alle otto del mattino del 26 a Como, Mussolini avrebbe avuto a disposizione più di tremila uomini». (9) A parte che gli uomini disponibili a Como secondo la totalità delle fonti, Romualdi escluso, erano più di cinquemila, senza contare le altre colonne che ivi stavano convergendo, riportiamo a mo’ di risposta quanto scrisse in proposito lo Spampanato:
«Ripeto che l’errore più grosso si commette a Como il 26 mattina. Una colonna di 5 mila nomini, ben armati, tutti autotrasportati, con numerosi pezzi, con abbondanza di armi leggere, ancora con il morale alto, e che potrebbero profittare della situazione generale quasi tranquilla si ferma alla prima tappa invece di accelerare verso la sua destinazione. Una fermata sarebbe plausibile se a Como si rosse ancora trattenuto Mussolini. Ma Mussolini ha proseguito nella nottata, ha lasciato detto per la colonna di raggiungerlo: e del resto Pavolini e gli altri comandanti sanno che il Duce non potrebbe fare a meno di loro, messosi in marcia a sua volta con poche armi e con una esigua scorta. Se le Brigate partigiane non sono ancora in scena lo saranno da un’ora all’altra, e in quel caso diventerà difficile spostarsi, e più difficile evitare che Mussolini resti sopraffatto coi suoi pochi uomini tagliati fuori da ogni rinforzo». E aggiunge: «Ma anche ammesso che il percorso possa essere contrastato, una forte colonna -come quella di Milano- con mezzi di artiglieria, ben comandata e soprattutto decisa ad arrivare, avrebbe avuto perdite, ma si sarebbe spianata da sé la strada fino a destinazione. (…) L’alt a Como è assurdo, ma più assurdo che si prolunghi tutta la giornata del 26 e ancora oltre». (10)
Per quanto riguarda la resa, Romualdi così si giustificava: «… fu solo verso le 11 (le 23 del 26 aprile – N.d.R.) che privi di notizie e non vedendo ancor giungere nessuno (riferimento a Mussolini – N.d.R.) fui pregato dai miei collaboratori (?!) di prendere direttamente l’iniziativa per concordare una tregua, un patto, un accordo, qualcosa che riguardasse l’ordine in tutta la zona». (11) Non risulta, fra l’altro, che almeno a Como per tutta la giornata del 26 si fossero avuti problemi di ordine pubblico da parte antifascista, mentre i fascisti peccavano semmai nel senso inverso di una ingiustificabile catalessi, sia pure indotta ad arte da certi loro comandanti.
Prosegue comunque Romualdi: «Così nacque, dopo laboriose trattative svoltesi in prefettura, la famosa tregua d’armi il cui testo è pressappoco quello pubblicato da Caudana ecc …». (12) Resta magari d’aggiungere che nel testo pubblicato da Caudana come in quello dello Spampanato ed altri ancora, il termine «tregua d’armi» -posto che si fosse mai combattuto- non figurava assolutamente, essendo scritto invece a chiare lettere che si trattava di «resa a carattere militare» in mano alleata. Perciò la tregua, che in realtà impegnava solo le forze fasciste, si riferiva al periodo d’attesa -stimato in non più di quattro giorni- per darsi agli americani. Proprio in attesa di ciò i fascisti, secondo l’accordo, dovevano raggiungere la vicina Valle d’Intelvi nei pressi del confine italo-svizzero.
Un quinto ed ultimo punto di quel «qualcosa che riguardasse l’ordine pubblico», per dirla con Romualdi, riguardava direttamente il Capo del Governo della RSI, per cui secondo tale accordo: «Alcune macchine avrebbero rilevato (sic!) Mussolini portando anche lui nella zona neutra di Intelvi». (13)
Ricapitoliamo gli avvenimenti essenziali:alle ore 23 del 26 aprile, Romualdi si accorda in Prefettura per la resa; alle ore 03 del 27 aprile, Pavolini parte per raggiungere Mussolini; alle ore 03 del 27 aprile, Romualdi incarica i suoi delegati di firmare la resa peraltro già concordata.
Si dovrebbe dunque ritenere che anche Pavolini fosse più o meno invischiato nella faccenda, ma il suo successivo comportamento smentirebbe tale ipotesi. Anzi, dalla dinamica degli avvenimenti, si direbbe proprio che la partenza di Pavolini sia valsa solo a sbloccare qualsiasi ritegno nel passare subito alla resa. Probabilmente il segretario del PFR o era stato ingannato ovvero nulla sapeva dei reali maneggi in corso a Como. Con tre autoblindo in circa un’ora raggiunse Mussolini a Menaggio, per condividerne la sorte fino in fondo. Considerato altresì il breve tempo in cui Pavolini riuscì a raggiungere Mussolini ci si chiede -in modo seppure accademico- quale problema avrebbe avuto l’intera colonna a coprire lo stesso percorso? C’è poi da dire che Mussolini, dopo aver ricevuto Pavolini, incaricò Vezzalini di tornare subito a Como con due delle autoblindo di scorta a Pavolini, per organizzare urgentemente una colonna di fascisti che avrebbe dovuto poi raggiungerlo. È lecito pertanto affermare che gli «accordi» intercorsi a Como non riguardavano Pavolini e contrastavano apertamente con tutte le direttive del Duce.
Ma il particolare più interessante di tutto l’intrigo riguarda l’identità -sorpresa finale!- delle persone con cui Romualdi intavolò le trattative di resa. Guarda caso, i suoi referenti alla Prefettura di Como erano rispettivamente il comandante di fregata della Regia Marina, Giovanni Dessì, incaricato per l’Alta Italia del SIM e il dottor Salvatore Guastoni del Servizio informazioni della Marina Italiana ma dipendente diretto dell’OSS americano; ai due emissari si era aggiunto il barone Sardagna, accreditato come rappresentante ufficiale del gen. Cadorna. I primi due personaggi, come già accennato, erano calati su Como dalla Svizzera già nella mattinata del 26 ed erano evidentemente stati preavvertiti che Mussolini aveva scelto quella città come base del ritiro in Valtellina del Governo della RSI. Come non sospettare che tutto fosse preordinato per l’eventuale resa, anche al fine di evitare più inquietanti incognite?
Del resto solo così si può spiegare l’assurdo incagliarsi in quel di Como, visto ormai come centro eletto di questa trama. Sarà una coincidenza, ma, per quanto riguarda l’Italia, si scopre che le forza più ideologizzate, quelle che più dovevano resistere fino all’ultimo respiro, cioè le SS tedesche da una parte e le Brigate Nere dall’altra, si arresero entrambe previo contatto e accordo con i servizi segreti nemici. Insomma Romualdi come il gen. Wolff. E bene gliene colse, dal momento che sia Wolff che Romualdi furono poi trattati con particolare riguardo, avendo essi salva non solo la vita, ma scontando solo simbolicamente una lieve pena, un trattamento di tutto riguardo rispetto ai loro più sfortunati subordinati.
In breve: dopo varie peripezie che impedirono perfino il previsto concentramento in Val d’Intelvi e portarono alla prevedibile resa senza condizioni dei fascisti concentrati a Como a partire dalla stessa mattinata del 27 aprile, vi è solo da aggiungere che, mentre i militi venivano uccisi o stipati nelle varie carceri, Romualdi riusciva ad allontanarsi in borghese dalla Prefettura di Como andandosene tranquillamente come se nulla fosse. Più tardi verrà accusato dai camerati di essersi «involato da Como con la cassa del PFR». (14) E d’altronde da qualche parte questa cassa del partito deve essere pur finita, anche se l’argomento non è mai stato troppo in auge come quello della consorella cassa del governo, finita nei meandri di Dongo.
(1) Testimonianza resa allo scrivente dall’ex-segretario del Federale di Reggio Emilia, Dante Scolari.
(2) P. Romualdi “Scovarli” in “Gazzetta di Parma” del 29 gennaio ’44 e sempre di Romualdi “Capitalismo alla sbarra” in “Gazzetta di Parma” del 20 febbraio ’44 e “Certa borghesia” in “Gazzetta di Parma” del 18 marzo ’44.
(3) Relazione autografa sull’attività svolta dal ten. Nadotti Giovanni nel periodo marzo ’44 – maggio ’45 (arch. Morini).
(4) Denuncia cr/Sc del 43° C.M.P. del 14/4/45, indirizzata al Tribunale Militare di Guerra – Sez. del 202° Comando Militare Regionale di Brescia (arch. Morini).
(5) Di questo memoriale ho ricevuto copia fotostatica dall’originale da parte del prof. Marino Viganò, già curatore delle memorie postume di Pino Romualdi edite con il titolo di “Fascismo Repubblicano”, Varese, 1992. Si deve rimarcare che, fatto strano, le memorie dello Scandaliato nel succitato libro sono state epurate proprio della parte di cui sopra senza peraltro segnalarlo al lettore (in op. cit. pag. 216).
(6) P. Romualdi “Fascismo Repubblicano”, op. cit., pag. 172.
(7) Cfr. G. Bianchi-F. Mezzetti “Mussolini, aprile ’45: l’epilogo”, Novara, ’85, pag. 34.
(8) P. Romualdi “Cronaca di due giorni”, in “l’Italiano” n° 4, aprile ’60.
(9) P. Romualdi, art. cit., in “l’Italiano”, pag. 39.
(10) B. Spampanato, “Contromemoriale”, Roma, ’52 – 3° vol. (Il segreto del Nord), pag. 134.
(11) P. Romualdi, art. cit. in “l’Italiano”, pag. 37.
(12) P. Romualdi, ibid.
(13) M. Caudana, op. cit., pag. 698
(14) P. G. Murgia, “Ritorneremo!”, Milano, ’76, pag. 281.

Franco Morini, Nome: MSI – Paternità: SIM, in AURORA n° 44 (Novembre – Dicembre 1997)