Ebrei stranieri in Italia ed ebrei italiani all’inizio della seconda guerra mondiale

Fonte: Archivio 68 Sondrio

La condizione dei profughi ebrei dopo il giugno del ’40
La situazione generale del movimento degli “ebrei stranieri” dopo l’entrata in guerra dell’Italia si fece sempre più difficile. Dalla frontiera con la Germania e dai territori occupati dai nazisti non arrivò praticamente più nessuno, per cui questa via di salvezza dalla Shoah si chiuse col giugno del ’40. Gli ebrei che entrarono in Italia dopo questa data sono gli stranieri che il governo italiano decise di trasferire in Italia (o nelle zone annesse all’Italia) da altri territori posti sotto il controllo italiano, di solito per internarli. Si tratta di circa 4.000 persone provenienti, tra il luglio del ’41 e il settembre del ’43, dalla Jugoslavia, dall’Albania, da Rodi e dalla Libia 4. Ad essi vanno aggiunti circa 1.500 ebrei italiani rimpatriati dal resto d’Europa in Italia per sottrarli alla deportazione tedesca ad est 5. Per quanto riguarda le partenze degli ebrei dall’Italia, esse furono sempre consentite dal regime, mentre la Germania le vietò a partire dall’ottobre del ’41. La partenza dall’Italia era consentita anche agli internati, che erano quindi autorizzati a lasciare i campi per brevi assenze volte ad organizzare il viaggio, sottoposti comunque alla sorveglianza della polizia. Ma tutti i paesi neutrali europei avevano chiuso le frontiere; gli altri seguivano il sistema delle quote e a metà del ’40 il turno per i visti negli USA toccava a chi ne aveva fatto richiesta due anni prima; fra il giugno e il settembre del ’41 Stati Uniti, Cuba e Brasile smisero di concedere visti 6, mentre le condizioni per accedere ad altri paesi latinoamericani divennero assai restrittive; anche Shangai iniziò a porre condizioni economiche per l’ingresso. I pochi che avevano il visto dovevano poi fare i conti col problema dei trasporti, visto che l’unico porto europeo rimasto aperto alla navigazione transoceanica era Lisbona, che poteva essere raggiunta per via aerea o con un viaggio in nave per la Spagna, proseguendo poi in treno fino in Portogallo, oppure in treno da Torino per Lisbona. Alla necessità di avere i visti di transito per raggiungere il Portogallo si sommavano difficoltà di ogni genere, per cui secondo Klaus Voigt solo la metà di quei pochi che erano riusciti ad ottenere il visto di immigrazione riuscirono effettivamente a porsi in salvo. Il numero totale delle partenze è stimato da Voigt in 700 “ebrei stranieri”. Circa 120 (fra cui i citati 70 che fruirono del “Progetto Brasile”) furono quelli che partirono grazie all’aiuto dell’Opera san Raffaele di Roma e del comitato di aiuto ai bisognosi dei quaccheri (che era stato nel maggio del ’40 autorizzato ad operare a Roma) 7. Per i Lichtner, ai fini di un’ipotetica partenza restava soltanto l’ipotesi di aggregarsi ai pochi che riuscirono a partire nei mesi successivi, con l’aereo o col treno, per Lisbona e da lì per il Brasile. Questa possibilità rimase in piedi ancora per un solo anno e molto probabilmente c’era anche da rispettare la precedenza di chi aveva fatto domanda di adesione al “Progetto” in precedenza o che disponesse della somma da versare al governo brasiliano.
Bloccati in Italia, il pericolo più grande che si correva in quel momento, essendo un “ebreo straniero”, era quello di essere internato.
L’internamento in massa degli “ebrei stranieri”, infatti, costituiva ormai una misura sostitutiva all’allontanamento, che quindi cessò di rappresentare un pericolo imminente. Né risulta che la Germania abbia avanzato richiesta di estradizione o di consegna di profughi ebrei residenti nel territorio metropolitano italiano, neanche dopo la conferenza di Wansee del gennaio 1942 che diede il via all’organizzazione della “soluzione finale”. La Germania intendeva infatti procedere con prudenza, su questo terreno, nei confronti dell’alleato italiano, muovendo dapprima dalla questione dei profughi e degli ebrei residenti nelle zone d’occupazione italiana 8. Ma il decreto di espulsione degli “ebrei
stranieri” era ancora formalmente in vigore ed il nuovo atteggiamento dei tedeschi, che non si opponevano più ai rimpatri, ma cercavano invece di favorire la consegna a loro degli ebrei, creava dei forti pericoli per i profughi in Italia. A ciò si aggiunse la revoca della cittadinanza tedesca comminata dai nazisti a tutti i profughi ebrei nel novembre del ’41, che li ridusse allo stato di apolidi.
La pressione del Ministero dell’Interno sugli ebrei non internati Fino alla metà del ’42, per coloro, come i Lichtner, che erano sfuggiti all’internamento (anche se questo privilegio restava solo una condizione di fatto sempre revocabile), si trattava di attendere il corso degli eventi bellici cercando di cavarsela al meglio nel luogo della propria residenza italiana. Sempre sottoposti a sorveglianza, questa sopravvivenza era anche condizionata dall’atteggiamento non benevolo delle autorità centrali italiane, che a diverse riprese diedero impulso alle prefetture per dei controlli e delle vessazioni che facessero sentire agli ebrei residenti la pressione politica del regime. Nel gennaio del ’41 Buffarini Guidi inoltrò una circolare di questo genere ai prefetti, assai dura, che definiva gli ebrei «ottusi» e «costituzionalmente avversi ad ogni sentimento nazionale», invitando ad internare i più sospetti 9.
Nel caso dei Lichtner, questa direttiva produsse delle conseguenze importanti, vale a dire che la questura, dopo aver esperito un’inchiesta a loro carico, ammonì Friederike Lichtner ad astenersi dall’esercitare l’attività di insegnante privata, perché vietata agli ebrei. E sappiamo che questo lavoro era la fonte principale di sopravvivenza della famiglia. L’ingiunzione era dunque pesante e le autorità locali, che in effetti agirono sempre in seguito a sollecitazioni del Ministero e che quindi non risultano animate da autonomi impulsi razzisti, si rivelarono però degli esecutori zelanti delle direttive ministeriali. Borgongini Duca inoltrò una nota al Ministero dell’Interno chiedendo di revocare
o attenuare i provvedimenti a carico di Friederike Lichtner. La lettera è contenuta in copia nel fascicolo dei Lichtner:
<17 marzo 1941 Anno XIX
Il Ministero dell’Interno ha ordinato alle autorità di Pescara una nuova inchiesta circa il Sig. Gustavo Lichtner e la sua famiglia. Il 16 febbraio, la signora Frieda Lichtner è stata chiamata in Questura e le è stato proibito di impartire lezioni di lingua, che rappresenta, per loro, l’unico mezzo per vivere. Il fiduciario tedesco a Pescara avrebbe concesso di riprendere questa modesta occupazione.
Si prega vivamente la Direzione di Polizia a voler concedere, a sua volta, l’autorizzazione a continuare ad impartire lezioni di lingua a Pescara.
Timbro: Nunziatura Apostolica d’Italia> 10
I Lichtner erano ormai dei protetti del Nunzio, ma l’alto intervento non fu questa volta coronato da successo poiché la volontà politica era proprio quella di condurre una pressione sugli «elementi locali ebraici». La risposta del capo della polizia fu laconica, ma cortese:
<In relazione alle vostre premure sono spiacente di dovervi comunicare che a norma delle vigenti disposizioni non è possibile autorizzare la Signora Frieda Lichtner a continuare ad impartire lezioni di lingua a Pescara, dato che la stessa risulta appartenere alla razza ebraica> 11.
Non venne per questo meno la fiducia dei Lichtner nel conforto delle autorità religiose, forse l’unico appiglio rimasto di fronte ad un corso degli eventi sempre più severo per loro; e l’Archivio arcivescovile di Chieti ci restituisce l’ultimo documento ivi conservato relativo a Friederike Lichtner; sono gli auguri per la Pasqua del ’41 inviati a Venturi:
<In nome Gesu Christo!
Eccelenza,
Vi prego di voler accettare i miei devotissimi auguri per la Santa Pasqua.
Con infiniti ringraziamenti
Vostra humile serva Frieda Lichtner
Pescara, via G. D’Annunzio 63
Pasqua 1941> 12
Come risulta dal nuovo indirizzo contenuto nel biglietto d’auguri, i Lichtner si erano intanto trasferiti al di là del fiume, nella Pescara “storica” ed avevano affittato un appartamento ubicato a Palazzo Perenich, uno dei bei palazzi privati in stile eclettico e neorinascimentale costruiti sul finire dell’Ottocento, all’epoca suddiviso in appartamenti affittati a famiglie di media e piccola borghesia.
Quella dell’inizio del ’41 non fu l’unica stretta sugli ebrei ancora liberi: nei mesi successivi Demorazza non abbandonò mai la presa sugli ebrei presenti in Italia e fece continuamente sentire la sua pressione con molteplici circolari e proposte vessatorie che giunsero all’ipotesi, sottoposta direttamente a Mussolini, di introdurre la stella gialla obbligatoria; inoltre divieti di ogni genere, pressioni per l’emigrazione, proposte d’internamento, studi e relazioni sul “problema ebraico” si accavallarono e furono il frutto dell’attività della Direzione generale guidata da Le Pera 13.
4 Cfr. K. Voigt, Il rifugio precario, cit., vol. II, p. 30-44.
5 Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei negli anni del fascismo: vicende, identità, persecuzione, in Storia d’Italia, Annali xi, Gli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 1703.
6 Cfr. S. Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1947). Contributo alla storia della “Delasem”, Carucci, Roma 1983, p. 67.
7 Cfr. K. Voigt, Il rifugio precario, cit., vol. ii, pp. 44-51.
8 Cfr. ivi, pp. 372ss.
9 Circolare del 14 gennaio del MI a Demorazza, alla DGPS ed ai prefetti del Regno, in acs, ps, Massime R9 (Razzismo), b. 183.
10 ACS, PS, A4-bis, b. 216.
11 Lettera del 21 marzo 1941 del Capo della Polizia al Nunzio Apostolico Mons. Francesco Borgongini Duca. Ivi. Nel fascicolo è contenuta un’altra parte della minuta che aggiungeva le scuse per l’impossibilità di assecondare “le premure” di Borgongini Duca ed i saluti deferenti di Senise: «Spiacente di non potere venire incontro alle vostre premure a favore della detta signora mi è gradita l’occasione, Eccellenza, per confermarvi l’espressione del mio devoto ossequio». Ivi.
12 AACH, Venturi, Documenti e corrispondenza relativi a persone internate (1937-1944) b. 123 fasc. 3722 (ora b. 2 classe 2-3).
13 Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., pp. 349ss.
Giuseppe Perri, Il caso Lichtner: gli ebrei stranieri, il fascismo e la guerra, Jaca Book, 2010, pp. 214-218

Dante Almansi, primo prefetto fascista di Caltanissetta e vice capo della polizia.
Ebbe un ruolo fondamentale nella creazione della DELASEM (Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei), un’organizzazione nata nel 1939 (ed operante fino al 1947) il cui scopo era la distribuzione di aiuti anche economici agli ebrei internati o perseguitati. Se la DELASEM potè essere creata durante il periodo delle leggi razziali fu probabilmente per le conoscenze altolocate che Almansi poteva vantare (in passato aveva lavorato con il Generale De Bono) <198.
[NOTA]
198 Un interessante articolo su Almansi è stato pubblicato dal quotidiano “La Sicilia” il 25 gennaio 2009, in occasione della Giornata della Memoria.
Davide Spada Pianezzola, Le ragioni dei Giusti. Azioni, tecniche e motivazioni dei “Giusti” italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, 1941-1945, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2013-2014

(a cura di) Gian Paolo Brizzi, Diaspore. L’Università di Bologna davanti alle leggi razziali, Clueb, Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna, 2014

[…] I principali obiettivi delle nuova fase antiebraica apertasi in Italia con lo scoppio della seconda guerra mondiale furono i seguenti:
progettato allontanamento di tutti gli ebrei dalla penisola, arresto e internamento civile di tutti gli ebrei stranieri presenti sul suolo italiano e degli ebrei italiani ritenuti pericolosi per il regime, precettazione e mobilitazione. 1- Progettato allontanamento di tutti gli ebrei dalla penisola
“Un momento cruciale della nuova politica antiebraica apertasi in Italia con lo scoppio della guerra si ebbe con l’annuncio ufficiale di un vecchio progetto fascista mirante all’espulsione generalizzata degli ebrei dalla penisola. Nell’incontro tra Arturo Bocchini e Dante Almasi avvenuto a Roma il 9 febbraio 1940 il capo della polizia comunicò al neo presidente dell’Unione delle Comunità israelitiche Italiane la decisione di Mussolini di espellere dal territorio italiano – gradualmente ma in modo definitivo – tutti quanti gli ebrei compresi quelli italiani. Quindi tra agosto e ottobre la Demorazza stese sull’argomento un dettagliato progetto accompagnato da un disegno di legge col quale si prevedeva di espellere gli ebrei entro cinque anni e di risolvere l’intricata questione delle famiglie miste (6.820 su 10.000) (….) Nel corso del 1941 il progetto venne abbandonato senza dubbio per la sua oggettiva irrealizzabilità tecnica: con l’estendersi della guerra erano divenute pressoché nulle per gli ebrei le possibilità di lasciare la penisola” cfr.“Capogreco, Carlo Spartaco. “L’INTERNAMENTO DEGLI EBREI ITALIANI NEL 1940 E IL CAMPO DI URBISAGLIA-ABBADIA DI FIASTRA.”La Rassegna Mensile Di Israel, vol. 69, no. 1, 2003, pp. 347–368.JSTOR, www.jstor.org/stable/41286514.
2- Arresto e internamento civile
Ciò che invece venne attuato immediatamente dopo la dichiarazione di guerra fu l’arresto e l’internamento in campi di concentramento o in luoghi di soggiorno obbligato sia dei cittadini ebrei stranieri che si trovavano sul territorio italiano che di circa 400 ebrei italiani.
Man mano che in Europa acquistava maggior consistenza il pericolo di un nuovo conflitto mondiale, gli stati Europei si preoccuparono di mettere a punto le norme sull’internamento degli stranieri appartenenti a paesi nemici presenti sul territorio nazionale e in grado di praticare un’attività ritenuta sovversiva o lesiva dell’integrità statale.
In Italia il regime fascista procedette in questo senso con il TITOLO V Del trattamento delle persone di nazionalità nemica e dei beni nemici, e dei rapporti economici con il nemico. CAPO I. Del trattamento delle persone di nazionalità nemica nel territorio dello Stato. gli articoli del a decreto R. D. 8 luglio 1938, n. 1415. Approvazione dei testi della legge di guerra e della legge di neutralità. (038U1415) (GU n.211 del 15-9-1938 – Suppl. Ordinario n. 211)
Il decreto non conteneva alcun specifico riferimento razziale. Tuttavia a partire dal maggio del 1940 le disposizioni via via impartite ai prefetti del Regno cominciarono a includere esplicitamente tra le persone da internare anche gli ebrei stranieri.
Gli ebrei italiani vennero colpiti dal provvedimento solo se ritenuti pericolosi per motivi politici e sociali. Diversa fu invece la sorte degli ebrei stranieri, che vennero internati anche se cittadini di paesi alleati che fanno politica razziale in quanto” pericolosi per definizione”.
“Gli ebrei stranieri costituivano per la legge una categoria distinta tra le altre persone da internare. Del resto l’internamento degli stranieri era ufficialmente motivato da parte dell’Italia dal desiderio di garantire la propria sicurezza interna e quella militare, così come avveniva in Gran Bretagna, in Francia e in tutti gli altri stati belligeranti sin dall’inizio del conflitto. In quest’ottica l’internamento avrebbe dovuto colpire solo gli ebrei stranieri di cittadinanza nemica, come, ad esempio, quelli polacchi residenti in Italia, e non certo quelli cittadini dei paesi dell’Asse o di paesi neutrali. Ma così non fu e l’internamento, che di per sé non aveva alcun rapporto con la politica di persecuzione razziale, ne divenne, nei fatti, parte importante.” . Cfr Carlo Spartaco Capogreco, I campi di internamento fascisti per gli ebrei (1940-1943), “Storia contemporanea”, 22 Ed. Il Mulino (1991).
Cinque giorni dopo l’entrata in guerra, il 15 giugno 1940 con telegramma n. 443/45626, il Ministero dell’interno dava invece ordine di rastrellare tutti gli ebrei stranieri e apolidi appartenenti a stati che fanno politica razziale in quanto elementi indesiderabili imbevuti di odio verso i regimi totalitari, capaci di qualsiasi azione deleteria per la difesa dello Stato e di arrestare i maschi tra i 18 e i 70 anni da inviare successivamente nei campi di concentramento in allestimento. Le donne, i bambini e gli anziani ultrasettantenni dovevano invece essere inviati con foglio di via obbligatorio in località che sarebbero state indicate dal Ministero.
Gli ebrei stranieri presenti in Italia al momento dello scoppio della guerra erano circa 4.000. Si trattava prevalentemente di profughi tedeschi, austriaci, polacchi, cecoslovacchi e apolidi (divenuti tali in seguito alla revoca della cittadinanza italiana nel 1938) . Essi furono i primi destinatari dei provvedimenti di arresto e internamento o invio al confino. Ad essi si aggiunsero poi gli ebrei provenienti dalle zone ex-jugoslave appartenenti allo stato croato o annesse all’Italia, da Rodi (dove erano stati internati i naufraghi del battello Pentcho) e dalla Libia. Secondo i dati forniti periodicamente al Ministero dell’interno dalle varie prefetture, alla fine del 1942 erano internati in Italia 5.636 ebrei stranieri ed apolidi. Nel 1943 secondo i dati contenuti nel data base curato da Anna Pizzuti gli internati in Italia nei campi di concentramento o nei luoghi di soggiorno erano 9337, ma il database è in continuo aggiornamento.
Il database realizzato da Anna Pizzuti ricostruisce provincia per provincia le località di internamento sia quelle di libero internamento sia quelle che ospitavano i campi di concentramento e rappresenta uno strumento indispensabile per chi intende approfondire la storia dell’internamento degli ebrei in Italia.
L’internamento fu di due tipi, in base alla presunta pericolosità dei soggetti da internare: l’internamento libero o in località, che consisteva nell’obbligo di residenza in determinate località, come per il confino, e l’internamento in campi di concentramento, che consisteva nella reclusione in apposite strutture riadattate e in qualche caso in veri e propri campi costruiti ad hoc con baracche.
Il 25 giugno 1940 il Ministero dell’interno con una circolare riservata impartì una serie di prescrizioni per i campi di concentramento e per le località d’internamento.
Successivamente con apposito decreto del 4 settembre 1940, come previsto dall’art. 289 del R.D. 8 luglio 1938 XVI n° 1415, il Duce ratificò le disposizioni relative al trattamento dei sudditi nemici internati. L’art. 5 del decreto, che recitava – Gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa e violenza. Essi non possono essere destinati in località esposte al fuoco nemico o insalubri – non deve comunque trarre in inganno. L’internamento degli ebrei stranieri, in larga parte cittadini italiani privati della cittadinanza dal fascismo stesso e ebrei in fuga dalle persecuzioni nei paesi alleati del Duce, fu un provvedimento liberticida e razzista. Per molti di loro costituì l’anticamera per ulteriori e più gravi sofferenze dopo la caduta del fascismo e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana.
3- Precettazione e mobilitazione.
La precettazione al lavoro degli ebrei che non erano stati sottoposti a provvedimenti di internamento fu disposta il 6 maggio 1942 con una circolare della Demorazza ai prefetti che stabiliva la precettazione a scopo di lavoro degli ebrei di età compresa tra i diciotto e i cinquantacinque anni. Alcune migliaia di essi furono cosi assoggettati al lavoro obbligatorio.
Nel giugno 1943 il governo fascista decise di riunire gli ebrei validi in quattro veri e propri campi di internamento e lavoro obbligatorio. Questa decisione non fu concretizzata, causa il sopraggiungere del 25 luglio. Con la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre la situazione degli ebrei internati mutò radicalmente.
4- Negazione dei diritti economici
L’attacco ai diritti economici degli ebrei continuò anche dopo lo scoppio della guerra come testimoniato dai numerosi provvedimenti emanati tra il 1940 e il 1942. Nel giugno 1940 alle persone “di razza ebraica” fu vietata “qualsiasi attività nel settore dello spettacolo”, da quella di librettista a quella di pulizia e custodia, nel maggio 1942 questa disposizione fu formalizzata e ampliata ai dischi fonografici e ai film di importazione. In maggio 1940 alle persone “di razza ebraica” fu vietato l’impiego di lavorante di oggetti preziosi e nel novembre 1941 quello di commesso di oreficeria, nel gennaio 1941 quello di autista di noleggi pubblici nel febbraio 1941 quello di portiere, tranne che per gli immobili abitati solo da ebrei.
Tra il febbraio e il settembre 1942 fu vietato qualsiasi impiego di persone “di razza ebraica” nelle aziende ausiliarie alla produzione bellica, ossia in imprese quali la Fiat, la Compagnia generale di elettricità, la Montedison ecc., nonché nei cantieri navali. Nel “Rapporto Generale” della Commissione Anselmi si trova un elenco dettagliato dei provvedimenti razziali economici che completarono l’espulsione degli ebrei da ogni ramo di attività.
Contemporaneamente furono imposti divieti e limitazioni nell’ambito dell’assistenza sociale: gli ebrei non poterono essere iscritti all’elenco dei poveri, le “famiglie bisognose di razza ebraica” furono escluse, salvo casi eccezionali, dalla “assistenza invernale” prestata dagli Enti comunali di assistenza.
Nel marzo 1942 il Gabinetto del Ministero dell’interno stabilì che “non deve consentirsi agli ebrei di acquistare carne di bassa macellazione presso lo spaccio apposito del rione Trastevere”.
Redazione, La persecuzione degli ebrei dopo l’entrata in guerra, Archivio 68 Sondrio

I “campi di concentramento” italiani per gli stranieri non avevano in comune con quelli tedeschi molto più che le denominazione. Per realizzare gli internamenti fu costruito all’inizio un unico campo di baracche a Ferramonti-Tarsia, a nord di Cosenza in Calabria. In tutti gli altri casi vennero usati edifici requisiti o affittati: monasteri, ospizi, caserme, sale cinematografiche ampliate e ville disabitate, che potessero contenere fino a 200 persone. Solo il campo di Ferramonti-Tarsia nei mesi immediatamente precedenti la liberazione giunse a contenere oltre 2000 internati, di cui circa 1500 ebrei. In tutto il periodo dell’internamento, fino al settembre 1943, si può provare l’esistenza di circa quaranta campi, nei quali venivano tenuti “ebrei stranieri”. Ad eccezione di due casi, tutti i campi erano situati nell’Italia centrale e meridionale, soprattutto nelle province molto fredde d’inverno – di Campobasso, Chieti, Macerata e Teramo.
I campi più meridionali si trovavano a Campagna in provincia di Salerno, ad Alberobello in provincia di Bari e a Ferramonti­-Tarsia in provincia di Cosenza. Solo in dodici campi gli ebrei erano separati dagli altri stranieri. In tutto c’erano sette campi femminili. I campi promiscui erano tre. A Ferramonti-Tarsia alla fine del 1940 furono edificate delle baracche per famiglie, che non bastarono tuttavia a riunire tutte le famiglie che l’internamento aveva separato. A partire dal 1941 a Ferramonti-Tarsia fu data la possibilità, su istanza degli internati, di passare al regime di “libero internamento”. Molti speravano di trovarvi condizioni di vita migliori, specie se i luoghi in questione si trovavano nell’Italia settentrionale. Nelle domande si poteva indicare la provincia preferita per il soggiorno. Cosi molti profughi e immigrati ebrei che avrebbero potuto essere liberati dagli alleati, dopo l’8 settembre si trovarono nella zona d’occupazione tedesca e furono deportati.
Nel decreto del 4 settembre 1940 riguardante l’internamento viene detto espressamente: “Gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa e violenza” In effetti questo principio, salvo poche eccezioni, fu rispettato, e gli internati ebrei non ricevettero un trattamento peggiore dei non ebrei. Non si ha notizia che in Italia venissero compiute crudeltà e sevizie. L’internamento in un campo significava peraltro una considerevole limitazione della libertà personale. Le persone venivano strappate alle loro famiglie, alle loro case, al loro ambiente e ammassate a secondo delle possibilità di ricezione dei campi. I campi erano sorvegliati, anche se, tranne a Ferramonti-Tarsia, non c’era il filo spinato. Solo in casi eccezionali come ad esempio qualora si rendesse necessario un intervento medico d’urgenza, veniva concesso un permesso di uscita. La resistenza nei confronti dell’ordinamento del campo poteva essere punita con il trasferimento in un campo ancora più severo, ad esempio situato sulle isole prospicienti la costa italiana.
Di regola gli internati non potevano lavorare, ma ricevevano per il loro sostentamento un sussidio giornaliero di 6,50 Lire,che era calcolata sui bisogni della popolazione rurale povera e che fu più volte elevata a causa della crescente inflazione. Era appena sufficiente per mangiare e difficilmente poteva bastare per la sostituzione degli abiti logori. Quando crebbero le difficoltà di approvvigionamento e non tutti i generi alimentari giungevano nei campi, gli internati patirono la fame. Anche le condizioni di igiene erano pietose, il riscaldamento nei mesi invernali era insufficiente. Nel campo di Feramonti-Tarsia furono riscontrati oltre 800 casi di malaria. Fortunatamente non si trattava di una forma mortale, e non si ebbero vittime.
Nei campi più grandi la direzione consentiva agli internati una forma di amministrazione autonoma. A Ferramonti-Tarsia era state creata – in pieno fascismo – un’assemblea dei rappresentanti delle baracche, che elesse il portavoce del campo e creò numerose commissioni, come quella sanitaria, quella educativa e quella culturale, una farmacia, un pronto soccorso, tre sinagoghe, una cappella cattolica e una greco-ortodossa. Analogamente a quanto avveniva in alcuni campi d’internamento francesi, nei campi italiani si sviluppò una vita culturale molto vivace con rappresentazioni teatrali e manifestazioni musicali. In questo modo nella monotonia della vita dei campi e nella loro chiusura nei confronti del mondo esterno – che erano sentite dagli internati come particolarmente oppressive e paralizzanti – si inseriva qualche momento di svago.
Anche l’isolamento in un comune lontano dal proprio domicilio abituale comportava una notevole limitazione della libertà personale. Gli internati venivano strappati all’ambiente loro familiare, separati da parenti e amici, e costretti a vivere in un luogo fino ad allora sconosciuto, dove era loro proibito ogni contatto con gli abitanti, ad eccezione dei padroni di casa. Non potevano allontanarsi dal territorio comunale senza autorizzazione speciale e dovevano presentarsi alla stazione di polizia o dei carabinieri in orari determinati, di solito una volta al giorno. Potevano lasciare la casa dove abitavano solo durante il giorno, senza però mai superare un determinato perimetro.
In un primo momento l’internamento nei comuni era previsto, per quanto riguarda gli «ebrei stranieri», solo per le donne. Questa forma più blanda di isolamento forzato era vista come una soluzione transitoria, cui ricorrere fino a quando nei campi non vi fosse stato posto sufficiente per famiglie e donne sole (…) . Il 15 maggio 1940 un telegramma del Ministero dell’interno invitava i prefetti di venticinque province dell’Italia centro-settentrionale a inviare entro cinque giorni un elenco di posti adatti all’internamento, indicandone la capienza. Gli elenchi dovevano essere concordati con le autorità militari, per evitare che le località prescelte si trovassero all’interno delle zone di sicurezza militare. (…) Quando le donne e i bambini partivano per l’internamento, l’autorità di polizia del luogo di residenza consegnava loro il «foglio di via obbligatorio», con il quale dovevano presentarsi entro una data prestabilita alla questura della provincia decisa dal Ministero dell’interno, che li destinava a un comune (…)Di solito le donne con i loro bambini raggiungevano in treno il capoluogo della provincia, e da lì venivano portate in treno, con la corriera o con un tassi collettivo al luogo di destinazione definitivo. Dopo che ebbero inizio i trasferimenti dalla Slovenia e dalla Dalmazia, si preferì a volte radunare gruppi anche piuttosto numerosi, che venivano fatti viaggiare sotto scorta, in vagoni speciali, mentre l’ultimo tratto, veniva spesso percorso a bordo di camion. (….) Nella prima fase dell’internamento, fino all’agosto 1941, non pare fosse difficile reperire alloggi, ma in seguito la situazione andò sempre peggiorando, malgrado l’internamento venisse esteso anche alle province dell’Italia settentrionale. (…) Il secondo e più importante motivo della drammatica scarsità di abitazioni disponibili era lo sfollamento nelle campagne di gran parte degli abitanti delle città bombardate, o perché le loro abitazioni erano andate distrutte o per proteggerli dai futuri bombardamenti. Le prefetture tempestarono di lettere e telegrammi il Ministero dell’interno perché evitasse di inviare altri internati, appellandosi ogni volta alla mancanza di alloggi causata dallo sfollamento. Vennero anche requisite residenze e alloggi estivi di vario tipo, con grande disappunto dei proprietari. Da tutti i resoconti di cui disponiamo, sia quelli degli internati che quelli dei prefetti o degli ispettori generali, si ricava l’impressione che anche nell’«internamento libero» gli alloggi fossero quasi sempre poveri o squallidi, quando non addirittura invivibili. Pur costretti a rinunciare alle più modeste comodità quotidiane, molti internati dovettero adattarvisi per oltre tre anni.
Klaus Voigt, Il rifugio precario (Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945), Vol. II, La Nuova Italia, 1999, pp. 82/88 in www.annapizzuti.it

Libretto universitario di Martin Birbaum
Lettera di Martin Birbaum alla Segreteria della Facoltà di Medicina e chirurgia, Nereto, 10 novembre 1940
Il giovane rumeno scrisse dal campo di internamento di Nereto in merito ad una circolare che avrebbe permesso agli studenti universitari di uscire dal campo e riprendere gli studi dopo «una istruttoria adeguata» a seguito di «una domanda individuale risolta caso per caso».
DOMANDA RESPINTA
ASUB, Fascicoli degli studenti, Medicina e chirurgia, n. 11834
(a cura di) Gian Paolo Brizzi, Diaspore. L’Università di Bologna davanti alle leggi razziali, Clueb, Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna, 2014