Eravamo numeri

Mario Rigoni Stern nel 1958 – Fonte: Wikipedia

«Eravamo numeri. Non più uomini. Il mio era 7943. Ero uno dei tanti. Mi avevano preso sulle montagne ai confini con l’Austria, mentre tentavo di arrivare a casa, dopo l’8 settembre del ’43. Ci portarono a piedi fino a Innsbruck e poi, dopo quattro o cinque giorni, ci caricarono sui treni e ci portarono in un territorio molto lontano, che a noi era sconosciuto, oltre la Polonia, vicino alla Lituania, nella Masuria, in un lager dove poco tempo prima erano morti migliaia di uomini; gli storici parlano di cinquanta-sessantamila russi. Erano prigionieri, morti di fame e di tifo. Noi andammo ad occupare le baracche che avevano lasciato libere, nello Stammlager 1-B.
Dopo quattro o cinque giorni, ci proposero di arruolarci nella repubblica di Salò, ossia di aderire all’Italia di Mussolini. Eravamo un gruppo di amici che avevano fatto la guerra in Albania e in Russia. Eravamo rimasti in pochi. Ci siamo messi davanti allo schieramento, e quando hanno detto “Alpini, fate un passo avanti, tornate a combattere!”, abbiamo fatto un passo indietro. Gli altri ci hanno seguito.
E fummo coperti d’insulti, di improperi. Avevamo visto cos’eravamo noi in guerra, in Francia prima, poi in Albania e in Russia. Avevamo capito di essere dalla parte del torto. Dopo quello che avevamo visto, non potevamo più essere alleati con i tedeschi. Perciò da allora fummo dei traditori. Fummo della gente che non voleva più combattere. E ci trattarono come tali. Nell’ordine dei lager venivamo subito dopo gli ebrei e gli slavi; noi che non eravamo nemmeno riconosciuti dalla Croce rossa internazionale. Ci chiamavano internati militari, ma eravamo prigionieri dentro i reticolati, con le mitragliatrici piazzate nelle torrette che ci seguivano ogni volta che ci spostavamo. Abbiamo resistito. Tanti di noi non sono tornati. Più di quarantamila nostri compagni sono morti in quei lager, durante la prigionia. Io ritornai nella primavera del 1945, a piedi, dall’Austria, dove ero fuggito dal mio ultimo campo di concentramento.
Arrivai a casa che pesavo poco più di cinquanta chili, pieno di fame e di febbre. E feci molta fatica a riprendere la vita normale. Non riuscivo nemmeno a sedermi a tavola con i miei, o a dormire nel mio letto. Ci vollero molti mesi per riavere la mia vita.
Avevamo dietro le spalle la Storia, che ci aveva aperto gli occhi su quello che eravamo noi e su quel che erano coloro i quali ci venivano indicati come nostri nemici. Quello che ci avevano insegnato nella nostra giovinezza era tutto sbagliato. Non bisognava credere, obbedire, combattere. E l’obbedienza non doveva essere cieca, pronta e assoluta. Avevamo imparato a dire no sui campi della guerra. È molto più difficile dire no che sì.
Ripeto spesso ai ragazzi che incontro: imparate a dire no alle lusinghe che avete intorno. Imparate a dire no a chi vuol farvi credere che la vita sia facile. Imparate a dire no a chiunque vuole proporvi cose che sono contro la vostra coscienza. È molto più difficile dire no che sì».
Giuseppe Mendicino, Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri, Priuli & Verlucca, 2016 [ripreso da Alto-Rilievo / voci di montagna]

 

L’esperienza degli IMI nei campi di concentramento nazisti fu più simile a quella dei deportati o dei lavoratori coatti che a quella degli altri prigionieri di guerra, per l’intensità e le modalità della persecuzione. La vicenda umana degli ufficiali e dei soldati fu in parte diversa. Gli ufficiali furono bersagliati dalla propaganda della RSI e furono fiaccati da mesi di fame e di stenti nei lager, mentre una parte di loro dal gennaio del 1945 fu costretta al forzoso passaggio allo status di lavoratori civili. I soldati e i sottufficiali, invece, ricevettero di massima una sola volta la richiesta di adesione e in seguito al loro rifiuto in massa vennero avviati al lavoro coatto, che proseguì anche dopo la trasformazione in “lavoratori civili” formalmente liberi, in seguito all’accordo Hitler-Mussolini dell’estate del 1944.
Anche il primo impatto degli IMI con il sistema concentrazionario nazista fu più simile a quello dei deportati che a quello dei prigionieri delle altre nazioni in guerra contro la Germania, e fu caratterizzato dalla spersonalizzazione, cioè da una serie di pratiche burocratiche in seguito alle quali ciascun individuo venne trasformato in un mero numero: il numero di matricola, inciso su di una piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo. Tra le formalità d’ingresso c’erano anche la fotografia, l’annotazione dei dati personali in duplice copia su appositi documenti di riconoscimento e la perquisizione personale e del bagaglio, durante la quale gli IMI venivano sistematicamente spogliati
di tutto; infine erano sottoposti al bagno e alla disinfezione personale e degli abiti, prima di essere assegnati alle baracche.
All’interno dei lager i reclusi conducevano una vita spaventosa a causa della fame, del freddo, dell’assenza di assistenza sanitaria, delle pessime condizioni igieniche e dell’abbrutimento fisico e morale derivante dalla prigionia.
Marco Palmieri e Mario Avagliano, Breve storia dell’internamento in Germania, le porte della memoria – a cura di Enzo Orlanducci – supplemento al n. 1-2/2008 di rassegna dell’anrp – Anno XXX

Ormai il Lager era lontano. Nemmeno piú ci pensava, anche se erano passati pochi giorni. Ora stava risalendo le montagne verso il confine; camminava di notte, e di giorno se ne stava rintanato lungo il fiume come un animale notturno. Nascosto dentro i cespugli, ogni tanto chiudeva gli occhi e si lasciava prendere da un sonno leggero e bastava il frullo di un’ala a risvegliarlo. Per nutrirsi staccava dai rami degli alberi del bosco germogli di peccio, foglie tenerissime di faggio e di acero appena nate, raccoglieva e portava alla bocca i germogli di mirtillo, di lampone e di rosa canina. Masticava lentamente assaporando i diversi gusti che erano pur sempre piú buoni e graditi della brodaglia che passava il Terzo Reich.
Mario Rigoni Stern, Sentieri sotto la neve, Einaudi, 1998 [ripreso da Wikipedia]

Il sergente maggiore Rigoni tornò a baita dalla guerra il 9 maggio 1945. Ci tornò a piedi, attraversando le montagne per raggiungere il suo Altipiano. Con sé non aveva più armi ma una divisa logora, una cintura di molti buchi più stretta di quando era partito e il cappello con la penna nera che portava dal primo dicembre 1938, data del suo arruolamento volontario come “aspirante specializzato sciatore rocciatore”. In sei anni e mezzo da alpino aveva partecipato agli attacchi contro la Francia, la Grecia, la Russia, era sopravvissuto alla ritirata nella steppa in cui erano morti tanti suoi compagni, dopo l’armistizio aveva rifiutato di aderire alla Repubblica di Mussolini e per questo era stato internato nei campi di prigionia tedeschi, dove dall’autunno del ’43 aveva combattuto la sua personale Resistenza.
Paolo Cognetti, L’amata Russia del sergente Rigoni Stern, la Repubblica, 6 giugno 2018 [ripreso da Wikipedia]

[…] Anche l’Italia non è scevra da gravi colpe per quanto avvenuto durante l’ultima guerra. Infatti, i nostri governanti del tempo hanno creduto di poter scimmiottare i tedeschi istituendo a loro volta dei campi di concentramento nel territorio nazionale.
Fortuna solo che il nostro modo di pensare, almeno per quanto riguarda la Calabria, non ha portato ad estreme conseguenze ed in qualche caso la povera gente, rea soltanto di appartenere a religione diversa e, quindi, a richiamarsi ad altre concezioni di vita, si è imbattuta in popolazioni che si sono fatte carico di aiuto verso coloro che ne avevano bisogno ed in funzionari di grande umanità. È tipico il caso del campo di Ferramonti di Tarsia, il cui conduttore, il noto maresciallo Gaetano Marrari, è stato riconosciuto meritevole di elogio perfino dal governo d’Israele. Questa la dicitura del premio Anassilaos concesso alla memoria dal Comune di Reggio nel 2007: «al Maresciallo di P. S. Gaetano Marrari fulgido eroe dei nostri tempi, che nel campo di Ferramonti di Tarsia, a capo di dieci agenti di sicurezza, profuse tutte le sue doti umane per alleviare le sofferenze degli internati ». A liberazione avvenuta più d’un confinato ha scelto di poter rimanere nella nostra regione. Uno su tutti, l’editore cosentino Gustavo Brenner (1).
Purtroppo, gli internati calabresi, che sono passati per i campi di concentramento della Germania, non hanno avuto altrettanti numi protettori e le loro condizioni di vita sono risultate delle più critiche se non delle più aberranti. Sono stati tanti i lagers approntati nelle terre dominate dalle forze tedesche e di ogni genere ed i loro nomi ancor oggi sono espressione di orrore e di biasimo. E tanti quindi gli infelici che sono transitati da essi o che hanno lasciato la loro vita tra sofferenze indicibili. Normalmente, quando si parla di lagers la mente ricorre a quei carnai come Auschvitz o Dachau, che la cosiddetta soluzione finale ha ideato al fine di risolvere una volta per tutte la situazione, provvedendo quindi a liquidare migliaia di persone ree soltanto di appartenere ad un popolo pacifico e intraprendente. Ma, com’è logico pensare, vi sono stati vari altri tipi di campi di concentramento, che sono venuti ad interessare, subito dopo la proclamazione dell’armistizio da parte dell’Italia, cittadini italiani catturati nei rastrellamenti, dissidenti, disertori e prigionieri di guerra catturati nell’immediatezza degli eventi.
Per questi ultimi si pensava di poterli riutilizzare, se non per farli combattere, almeno per far sostituire nelle fabbriche o nei vari servizi civili i militari tedeschi che combattevano sui vari fronti, per cui almeno inizialmente l’approccio non si era rivelato dei peggiori. Ma, datosi che il 98‰ dei militari catturati non ha voluto saperne di collaborare, le condizioni di vita sono state inasprite di parecchio, per cui in molti ci hanno lasciato la pelle. I lagers che accoglievano i soldati italiani erano detti IMI, riguardavano cioè i militari italiani internati e, più che dei campi lavoro, si qualificavano puri e semplici lazzaretti, dove ufficiali medici italiani si preoccupavano per quanto lo consentivano le condizioni veramente disumane di curare i propri commilitoni. In buona sostanza si trattava però di un posto in cui ci si preparava più a morire che a vivere. Uno di questi campi si chiamava Fullen ed è stato lì che ha trovato rassegnato la morte un calabrese di Oppido Mamertina di grande umanità, il sottotenente medico Francesco Mittica.
Fullen è una località della Westfalia nelle vicinanze di Meppel, che si trova quasi al confine olandese. Il campo ivi sistemato consisteva in cinque baracche di legno ed andava significatamente famoso come il Lager della morte. Difatti, si cessava di vivere per tutta una serie di motivi. Così in una testimonianza orale si offre uno di quei tanti ch’ebbero ospitalità, si fa per dire, in quell’orribile posto:
«Eravamo una squadra. / Dovevamo scavare le fosse per i morti. / Le facevamo
tutte ben squadrate. / Era diventato / proprio un bel cimitero. // Gli aereoplani
scendevano in picchiata / e mitragliavano. / (Alcuni prigionieri / si coprivano la
testa con dei giornali, capirai!) // Partivamo la mattina / scavavamo le fosse. /
Poi, sopra, ci mettevamo una croce. // Stavamo lì, / sembrava di essere alla fine
del mondo» (2).
Ma ecco un’altra testimonianza diretta affidata ad uno scritto da un altro sventurato che ha goduto dei comportamenti dei tedeschi nell’agosto del 1944, Francesco Tripodi: «Il sottoscritto Francesco Tripodi di Salvatore dichiara: Che nell’estate del 1944 fu trasferito, perché molto ammalato, al Campo di Fullen (MEPPEL). Dopo pochi giorni che si trovava in detto campo, non arrivavano più viveri, senonchè verso il terzo giorno, mentre si trovavano inquadrati al centro
del campo, in attesa di ricevere finalmente qualcosa da mangiare, invece di ricevere il rancio è apparso nel campo un aereo tedesco, il quale con una buona mitragliata, lasciò sul campo moltissimi morti e feriti. Pare che non avendo più niente da dare per mangiare agli internati ed essendo degli esseri ammalati, si era deciso di eliminarli. Dopo la liberazione le autorità militari americane, trovarono un documento, il quale fu tradotto in italiano e letto apertamente a tutti gl’internati del campo di Fullen, il quale detto documento autorizzava le S. S. di procedere alla eliminazione degli internati ammalati».
Era questa la triste situazione in cui purtroppo è venuto a trovarsi lo sfortunato oppidese.
[…] «Sul cielo di Oppido una nuova stella di fede e di patriottismo si è accesa: la figura luminosa di Ciccillo Mittica, affogata nel sangue delle orde umane, che resta quale monito vivente alle nuove generazioni educate agli alti ideali di Religione e Patria.
…………..
Il suo ricordo è per tutta Oppido, ed in specie per i giovani di azione cattolica, dei quali fu il primo Presidente diocesano, materiata di fede viva ed operante, soffusa, di un alone di luce caritativa, che ha avuto il suo glorioso
epilogo in un campo di prigionia, dove chiuse la sua breve giornata di 33 anni tutti consacrati al culto della Religione, della Famiglia e della Patria».
Così il giornale “La Voce di Calabria” dava notizia il 25 settembre 1945 dell’immatura scomparsa avvenuta il 15 gennaio precedente a Fullen in Germania del Dott. Francesco Mittica, giustamente definito eroe della fede e della patria.
[…] Altra espressiva e sentita epigrafe è anche quella che i familiari hanno posto sulla tomba che conserva i miseri resti dello sfortunato oppidese:
«Qui dal campo della morte di Fullen (Germania) / ove l’amorevole
fraterna mano li ricompose / traslati / riposano in Cristo i resti / del / dott.
Mittica Francesco / / tenente medico di complemento / nato il 14-11-1912 /
caduto il 15-11-1945 vittima della furia nazista / per aver tenuto fede al suo
giuramento / adorò Dio con umiltà e purità di cuore / amandolo intensamente
nella famiglia / servendo in Italia Iugoslavia e Grecia fedelmente la Patria
/ prestandosi per tutte le miserie / prodigandosi per i compagni nella dura
prigionia in Polonia e Germania / fino all’esaurimento di sé stesso / chi lo
conobbe non potè non amarlo / per la dolce carità del suo cuore, per la purezza
dei suoi costumi, / per il suo zelo per la causa di Cristo che confessò senza
rispetti umani / Pie Jesu Domine / dona ei requiem sempiternam».
1 Sul campo di Ferramonti, Francesco Volpe (a cura di), Ferramonti: Un lager nel Sud, Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987, Ed. Orizzonti Meridionali, Cosenza 1990, passim.
2 Sito “Nazione indiana”, note di Giuliano Mesa, Da recitare nei giorni di festa, “SUD Rivista Europea”, 2006, n. 7.
Rocco Liberti, Il lager della morte e un internato calabrese: Francesco Mittica, Rivista calabrese di storia del ’900, 1-2 / 2008

Militari della Divisione Acqui prigionieri internati – Fonte: Istituto storico autonomo della resistenza dei militari italiani all’estero (ISAREMI) – immagine qui ripresa da Papotti, Op. cit. infra

“Gli italiani all’arrivo appresero dagli abitanti che freddo ed epidemie ne avevano uccisi la maggior parte e che erano stati sotterrati a decine di migliaia nei boschi intorno”. <1
Questo non risollevò l’umore di uomini già fortemente provati. Lo Stalag 333 aveva alloggi come la maggior parte degli altri campi: baracche di legno marcio.
Gli architetti delle baracche avevano riservato ad ogni occupante una superficie di 2 metri quadrati e mezzo; le brande o strutture di legno a due o tre piani dovevano misurare 1,95 metri X 0,85 ma
queste norme vennero del tutto ignorate. Specialmente all’inizio della prigionia i militari internati furono spesso costretti a vivere in alloggi assolutamente indegni di un essere umano.
I letti al loro interno erano loculi:
“Ci assegnano a una baracca formata da alcuni stanzoni interamente occupati da enormi castelli di legno costituiti da un gran numero di loculi simili a quelli dei cimiteri…quattro uno sopra all’altro in senso verticale, spalla contro spalla, testa contro testa in senso orizzontale..” <2
Nelle baracche le finestre spesso erano rotte. La pioggia entrava dai tetti e i pagliericci su cui dormivano gli internati erano pieni di cimici e pulci. <3
Mancava inoltre al loro interno l’acqua potabile. Un fetore insopportabile appestava i locali. Le latrine erano a 150 metri dalle stesse. Di notte le porte venivano sprangate dall’esterno e non vi si poteva accedere. Si può comprendere come qualche prigioniero considerasse la morte una liberazione.
Alla sporcizia e alla miseria dell’alloggio si aggiungeva un altro elemento: la fame.
L’esperienza della fame patita in prigionia è descritta come traumatica da tutti i memoriali e da gran parte dei testimoni.
Nella maggior parte dei casi gli internati ricevevano una zuppa “la sbobba” o del cibo freddo, solo una volta al giorno, di sera. Così erano combattuti fra il desiderio di consumare subito il cibo o quello di risparmiarlo per i pasti successivi. A causa della fame, non erano però pochi quelli che divoravano l’intera razione subito dopo la distribuzione, per il timore che gli altri prigionieri potessero rubarla. <4
Tra i singoli pasti non passavano meno di 20 ore.
La cosiddetta “sbobba” era una zuppa che presentava notevoli differenze sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo a seconda dei vari campi.
Spesso viene descritta come una brodaglia acquosa, consistente in qualche pezzo di rapa a cui talvolta venivano aggiunti spinaci, carote, rape rosse e verdure secche. A volte la brodaglia poteva contenere anche avena e orzo. Solo nel settore agricolo e nell’industria alimentare sembra che il vitto fosse migliore. <5
La procedura per la distribuzione del cibo era soggetta a variazioni. I recipienti con la zuppa venivano consegnati con carretti a mano spinti da lavoratori dell’est o da prigionieri di guerra polacchi o dalle stesse guardie tedesche. Per impedire che qualcuno si facesse dare una seconda razione, i guardiani distribuivano dei buoni pasto o minacciavano di punire e spesso lo facevano, con calci e pugni. <6
1 Gerhard Schreiber, I militari Italiani Internati nei campi di concentramento del terzo Reich 1943-1945, cit, p. 638.
2 Massimo Franch, internato nel campo di Benjaminowo in Mario Avagliano, Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai Lager nazisti. 1943-1945, cit, p. 37.
3 Gerhard Schreiber, I militari Italiani Internati nei campi di concentramento del terzo Reich 1943-1945, cit, p. 645.
4 Gabriele Hammermann, Gli Internati Militari Italiani In Germania 1943-1945, cit, p. 151.
5 Ivi., p. 150.
6 Ivi., p. 153.
Roberta Papotti, Gli Internati Militari Italiani e la Divisione Acqui a Cefalonia. Storia e rappresentazioni. 1943-1945, Tesi di laurea triennale in Scienze della Cultura, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno accademico 2015/2016

«Resistere nel nome della fede»
Tra gli oltre 650.000 militari italiani catturati dalla Wehrmacht dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ed internati nei campi di prigionia militare del Terzo Reich (Kriegsgefangenenlager) vi era anche un contingente di cappellani militari. Questi ultimi, come del resto tutti gli IMI (Italienische Militärinternierten), ebbero durante i due anni di reclusione la possibilità di rientrare in patria aderendo alla RSI; come avvenne per i laici, anche la maggioranza dei sacerdoti in grigioverde la rifiutò.
Nel corso delle mie ricerche1 ho cercato di comprendere il contesto entro il quale i cappellani prigionieri maturarono e vissero giorno per giorno la scelta di non aderire al regime nazifascista e di prestare assistenza spirituale, morale – e spesso anche materiale – ai militari italiani.
Ho cercato di dare conto della percezione che quei sacerdoti avevano della propria identità e del proprio ruolo in una situazione assai specifica come l’internamento militare in Germania (dopo il collasso delle gerarchie militari).
Mi sembra importante richiamare l’attenzione sulla complessità della figura del cappellano, il quale racchiude in sé una duplice identità: quella religiosa e quella militare.
Il cappellano testimonia l’alleanza tra “la croce e la spada”, come indica la croce che porta sulla divisa di ufficiale, e uno dei suoi compiti è di garantire ai soldati la legittimità della guerra che combattono. Il doppio ruolo di “uomo di Dio” e di ufficiale è evidenziato dalla doppia serie di attività che gli sono affidate: da una parte l’assistenza pastorale (predicazione e cura d’anime), dall’altra la partecipazione all’organizzazione del consenso dei soldati.
In una situazione di crisi dell’istituzione militare nei cappellani internati venne a prevalere l’identità di prete rispetto a quella di ufficiale. Nel motivare il rifiuto di aderire alla RSI per i cappellani la fedeltà verso i compagni di prigionia contò assai più di quella verso l’istituzione militare, cui invece si mostrò sensibile la massa degli ufficiali, i quali trovarono nel proprio rapporto con essa (il giuramento) motivazioni per il proprio rifiuto di collaborare.
I comandi tedeschi spesso offrirono la libertà ai cappellani al momento della cattura, poiché li ritenevano prigionieri “scomodi”. La stragrande maggioranza dei religiosi la rifiutò, scegliendo volontariamente di seguire la sorte dei “propri soldati”. L’azione dei cappellani prigionieri venne considerata dai tedeschi destabilizzante, non tanto perché immediatamente eversiva, bensì perché di per sé radicalmente contestatrice dell’ideologia da essi professata.
La prigionia si configura dunque per molti cappellani come una scelta, la quale venne ad assumere un senso politico, pur fondandosi essenzialmente su ideali umanitari e religiosi. Vorremmo sottolineare il carattere di volontarietà della prigionia dei preti in grigioverde, come emerge con chiarezza dall’analisi del corpus documentario di testimonianze orali da noi raccolte e dall’esame della memorialistica.
Una presenza che scaturisce dal desiderio di condividere la sorte dell’uomo offeso e privato della propria dignità. La loro stessa presenza nei Lager assume dunque un significato e una valenza resistenziale.
La “società dei Lager” era un luogo in cui per resistere alle privazioni (fisiche e morali) occorreva credere oltre le credenze consolidate.
La guerra aveva infranto gli schemi tradizionali, il prete era ad un tempo vittima e consolatore, per questo diventava anche senza volerlo un resistente. I cappellani nei Lager testimoniavano una scelta di servizio all’uomo, e quando finivano nel numero delle vittime, ci finissero in nome di Cristo, o in nome dell’uomo la differenza appariva loro quasi inesistente.
Antonella De Bernardis, Cappellani militari italiani internati nei Lager nazisti, le porte della memoria cit.

Particolarmente spietate e violente si mostrarono le guardie tedesche dopo la liberazione di Roma da parte degli Alleati, dopo lo sbarco degli anglo-americani in Normandia e dopo l’attentato ad Hitler del 20 luglio 1944.
Così descrive un testimone oculare l’atmosfera di quei giorni: «Non ho mai visto i tedeschi così torvi. Cercano sui nostri volti il minimo accenno di gioia per punirci». Se in certi campi negli ultimi mesi di guerra il nervosismo crescente dei tedeschi corrispose ad una sfrenata disposizione alla violenza nei confronti dei prigionieri, in altri i membri della Wehrmacht si mostrarono sensibilmente più umani verso gli italiani, a causa dell’approssimarsi della fine della guerra.
Tra i prigionieri stessi si stabilirono relativamente presto gerarchie sociali. Ai vertici della piramide sociale del lager stavano quegli internati che lavoravano come uomini di fiducia e interpreti. Negli Stammlager e nei loro Zweiglager queste posizioni erano occupate soprattutto da sottufficiali.
A seguire, vi erano coloro che lavoravano negli uffici, nelle cucine, come infermieri o operai.
Spesso si formavano piccoli gruppi a carattere familiare, basati su rapporti di cameratismo o di amicizia preesistenti o sulla comune provenienza regionale. Un internato racconta di questo genere di famiglia sostitutiva: «Ogni membro, senza accorgersene, tacitamente, ha assunto la mansione per la quale era più adatto. Così c’è che tiene la casa in ordine, […] chi cucina; chi cuce e rammenda; chi fa gli scambi di roba con i compagni e i russi. È c’è il capo famiglia – nessuno l’ha eletto, ma tutti sanno chi è […]». Forme di solidarietà e di autoaffermazione sembrano aver giocato un ruolo più significativo negli Offizierslager piuttosto che negli Stalag.
Questo serviva a metter da parte molti dubbi individuali e a rafforzare il proprio atteggiamento morale.
Rapporto della Commissione storica italo-tedesca insediata dai Ministri degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e della Repubblica Federale di Germania il 28 marzo 2009, luglio 2012

I detenuti erano distribuiti in tre tipologie di strutture a seconda delle loro colpe: la prima riguardava gli accusati per colpe non ritenute gravi ed erano destinati al lavoro forzato, come nei lager di Dachau, Sachsenhausen e Auschwitz I. La seconda invece riguardava i soggetti pericolosi, destinati ad una detenzione rigida come a Flossenburg, Neuengamme. La terza, comprendeva quanti erano destinati da subito alla morte come nei lager di Mauthausen e di Gusen. Questa suddivisione sistematica e rigida fu soggetta a continui mutamenti a causa degli eventi bellici. L’evoluzione del sistema concentrazionario non fu uniforme, perché dipendeva dalla radicalizzazione della condotta del regime e dalle esigenze di ampliamento dei luoghi di detenzione.
I lager sorgevano su strutture preesistenti come quartieri, caserme e alloggiamenti militari, come nei casi di Auschwitz e Ravensbruck, ma anche su strutture produttive, industriali e rurali. Erano collegati da grandi percorsi ferroviari, che permettevano di convogliarvi molti internati. Parecchie imprese e strutture, che si trovavano nei campi di concentramento, erano legate alle SS che le gestivano direttamente, soprattutto a partire dal 1942 fino al 1945.
Il campo di concentramento fu come una città, dotato di una sua autosufficienza, suddiviso in tre ambiti: il comando, gli alloggiamenti del personale di guardia e le strutture d’internamento. Vi erano diverse tipologie di installazioni: complessi rettangolari di baracche, come ad Auschwitz II, Dachau, Stutthorf, oppure strutture semicircolari, come a Buckenwald. Il campo era percorso dalla «Lagerstrasse», ovvero una strada che giungeva fino alla piazza dell’appello. Infine c’era il «Block» ossia la baracca, dove risiedevano gli internati in numero eccedente. La baracca era suddivisa in camerate, “Stuben”, destinate da una a quattro persone. I giacigli erano di larghezza variabile, contenevano da due a cinque prigionieri. Lo spazio in altezza tra un ripiano e l’altro era di sessanta centimetri.
Si può affermare che il lager fu anche un “buon investimento” per il Terzo Reich, perché le SS ne ottennero molti ricavi. I cadaveri, infatti, erano oggetto di una «valutazione monetaria» riferita al valore dell’oro delle protesi dentarie, del vestiario, degli oggetti personali, del denaro sequestrato e infine al risparmio relativo alla sepoltura, perché i cadaveri venivano cremati. Si calcola che ogni detenuto “rendesse” 200 marchi circa <106.
106 Vercelli, Tanti Olocausti, p.60.
Edoardo Camatini, Prigionieri italiani dei nazisti dopo l’8 settembre 1943, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, 2015