Esempi di posta di italiani volontari o internati in Germania durante l’ultima guerra

Busta spedita da Innsbruck il 2.11.40 da lavoratore italiano presso la ditta Strauss, diretta ad Arezzo dove giunse l’8 dello stesso mese (Collezione Gustavo Cavallini) – Fonte: il Postalista

A seguito di alcuni accordi commerciali stipulati tra Hitler e Mussolini, dal 1937 fu favorita ed incoraggiata l’emigrazione di lavoratori italiani verso la Germania, per sopperire al fabbisogno di manodopera a basso costo. Si calcola che tra il 1938 e il 1942 furono circa 100.000 gli italiani che fecero questa scelta.

Busta spedita il 22.3.42 da lavoratore italiano presso la ditta WLC di Trofaiach in Stiria, diretta a Cortona (AR). Si tratta di una missiva inviata da uno dei lavoratori volontari che risposero ai diversi bandi del lavoro per sopperire al fabbisogno di manodopera in Germania – Fonte: il Postalista

A seguito dello scoppio del conflitto la quasi totalità di questi lavoratori emigrati rimase in loco, continuando ad occupare il proprio posto di lavoro in quanto collocato in industrie legate ed associate allo sforzo bellico.
L’esercito tedesco, successivamente alla sottoscrizione dell’Armistizio da parte dell’Italia, catturò circa 650.000 militari italiani confinandoli poi nei campi di prigionia (Stalag) in Germania e qualificandoli “Internati Militari Italiani” (IMI).
A seguito di un accordo tra il governo della Repubblica Sociale Italiana e il governo tedesco, dal 20 luglio 1944, la quasi totalità degli internati militari italiani vide trasformare la propria connotazione iniziale per quindi passare allo stato di “libero lavoratore”. La nuova posizione, potenzialmente migliorativa, di fatto, poco e niente mitigò le dure condizioni di vita di queste persone che continuavano comunque a vivere lo status di internati.

Lo scrivente, Benito Giacomini, impiegato presso la ditta Robert Bosch di Stoccarda, indica il suo domicilio nel “Lager Italienisch Stuttgart Robert Bosch Freizeitheim Germania” cioè nel campo per lavoratori italiani. Come indicato nel testo della missiva, il “campo” era in realtà un albergo (freizeitheim) dove erano ospitati circa 100 lavoratori italiani – Fonte: il Postalista

In campo postale, agli internati militari italiani, quando erano considerati prigionieri era riconosciuta la possibilità di fruire della franchigia postale, diritto di agevolazione che perdevano automaticamente appena riconosciuti “liberi lavoratori”, con conseguente obbligo quindi di affrancare a proprie spese la loro corrispondenza.
Roberto Monticini e Samuel Rimoldi in il Postalista

Ben diversa fu la storia di un altro ufficiale aderente, il gen. Giovanni Del Giudice, che comandava la fanteria divisionale della divisione “Pinerolo” <13, dislocata in Grecia. Dopo l’armistizio il gen. Infante, che comandava la divisione, concluse un accordo coi partigiani. Del Giudice e altri filofascisti vennero rinchiusi in un campo di concentramento. Del Giudice riuscì a fuggire il 27 novembre, con 15 ufficiali e 300 soldati, e raggiunse i tedeschi ai quali si consegnò, dichiarando subito la sua adesione al combattimento. I tedeschi tuttavia lo deportarono in Germania e lo rinchiusero dell’Oflag di Schokken, nonostante le sue proteste, fino al giugno 1944.
Da segnalare infine una relazione sulla divisione Siena, dislocata a Creta, redatta dal ten. col. Carlo Gianoli <14. L’autore narra che dopo il 25 luglio la truppa si era mantenuta calma, aspettandosi un’imminente fine della guerra, mentre la gran parte degli ufficiali “rivelavano ed esternavano in ogni maniera il loro odio verso il fascismo e verso Mussolini”. Il gen. Carta, comandante della divisione, avrebbe già allora progettato di “darsi alla montagna”, e solo l’intervento dell’autore e di altri, che avrebbero bloccato una strada, lo avrebbe fatto desistere. Gianoli riferisce poi dei militari italiani aderenti rimasti a Creta e datisi alla montagna nel febbraio 1944. Allegate alla relazione di Gianoli ci sono copie di ordini emanati dal gen. Carta dopo l’armistizio, nonché ordini dei tedeschi relativi alle modalità di adesione.
In questo fondo si trovano anche alcuni documenti piuttosto interessanti sulle vicende degli Internati Militari Italiani (I.M.I.), cioè coloro che rifiutarono ogni forma di adesione, come combattenti o come lavoratori, alla Germania e alla R.S.I. Si tratta in parte di materiali prodotti dagli I.M.I. stessi, raccolte dopo la fine della guerra dallo Stato Maggiore del Regio Esercito: in particolare le relazioni raccolte nella b. 52, fasc. “Ufficiali in servizio nell’Esercito repubblicano”, contenenti informazioni sulla propaganda repubblichina nel campo di Deblin-Irena, in Polonia, ed elenchi nominativi di ufficiali aderenti e non aderenti. Elenchi di questo genere erano stati compilati anche dalle autorità di Salò, e si trovano nella b. 21, fasc. S.M.E. – Segreteria S.M. (circolari) (corrispondenza). Nella stessa busta c’è poi una lunga e interessante relazione dal col. Carlo Fedi, redatta nell’ottobre del 1944 che collega il problema degli I.M.I. con quello della ricostituzione dell’Esercito repubblicano. Mussolini nell’ottobre del 1943 aveva infatti sperato di costituire quattro divisioni reclutando aderenti fra i circa 600.000 I.M.I. rinchiusi nei campi di prigionia: ben pochi, però, risposero all’invito, sicché fu necessario reclutare uomini in Italia e mandarli in Germania per l’addestramento.15. Fedi nella sua relazione espone appunto i risultati della sua ispezione fra le truppe italiane in Germania. Nel preambolo egli precisava che le sue osservazioni si riferivano in particolar modo alla divisione “Italia”, ma potevano essere generalizzate alle altre tre.
In primo luogo egli denunciava le difficoltà e l’inefficacia della campagna di adesione fra gli ufficiali:
“La scelta del personale è stata fatta in forma un po’ caotica, poiché sono stati inviati a Munsingen ufficiali e truppa delle seguenti provenienze:
– direttamente da reparti dislocati all’estero che non sono passati da campi di internamento;
– dai campi di internamento, sia dopo pochi giorni, sia dopo qualche mese di internamento.
Quelli provenienti dall’internamento sono stati presi al completo o quasi tra coloro che avevano aderito all’Esercito Repubblicano nei primi tempi, nei campi meno numerosi, mentre in quelli più numerosi, scegliendo coloro che avevano dichiarato, però senza controllo alcuno, di aver fatto parte della Milizia. Tra questi si sono presentati anche alcuni che facevano parte delle organizzazioni giovanili della G.I.L. o che avevano avuto in passato solo per breve tempo incarichi nella G.I.L. o nella Milizia.
E’ doloroso dover segnalare che nel campo di Tschenstochau per esempio, si sono presentati con tale titolo taluni che non hanno avuto alcun riguardo fino alla partenza, di imprecare contro il Fascismo e la Germania.
Molti non nascondevano affatto l’idea di aver aderito allo scopo di ritornare in Italia e pensare dopo ai casi propri.
Coloro invece che non sono stati trasferiti subito sono stati costretti a ripetere la domanda di adesione. In seguito a tale nuova richiesta gli aderenti si sono ridotti di numero tanto da rappresentare una esigua minoranza rispetto alla maggioranza.
Questa minoranza con il prolungato soggiorno nei campi di internamento, è, come è noto, stata sottoposta al boicottaggio della massa, alla privazione del saluto, a segni di ostilità, e particolarmente i nomi degli aderenti sono stati raccolti e segnati dai non aderenti che dimostrano di volerli consegnare per successive vendette. E’ bensì vero che alcuni tra i non aderenti avevano pure spirito italiano e fascista, ma, per la depressione morale subita per avvenimenti passati, per le menomate condizioni fisiche dovute allo internamento, per la mancanza assoluta o quasi di notizie dall’Italia, per la propaganda assolutamente insufficiente fatta da coloro che si sono presentati nei campi a tale scopo, non hanno trovato più la forza d’animo di fare un atto di volontà, in modo che essi sono rimasti passivamente a subire ad attendere gli eventi. Non poco ha influito la giornaliera deleteria campagna antifascista e antitedesca svolta giornalmente dalla maggioranza di cappellani militari con la maschera della religione e con la dichiarazione che il giuramento al re poteva essere sciolto solo da Dio.
In secondo tempo con la visita fatta ai campi di internamento dagli ufficiali del Maggiore Vaccari, tutti gli incerti hanno trovato la forza per aderire! Molti ufficiali si sono iscritti per il lavoro”. <16
Coerentemente con queste premesse, una volta giunti nei campi di addestramento “moltissimi ufficiali non hanno fatto che rappresentare immediatamente che le proprie condizioni di salute erano tali da non poter far utile servizio con l’unico evidente scopo di ritornare in Italia. Così in vari blocchi sono stati rimpatriati” <17.
[NOTE]
13 B. 12, n.7: “Relazione del Generale Giovanni Del Giudice comandante della fanteria divisionale div. ‘Pinerolo’“, Desenzano, 18 luglio 1944,
14 B. 12, n. 28: “Memoria sulla Divisione Siena prima e all’epoca dell’armistizio”.
15 Cfr. b. 4, Allegati al diario storico militare dello S.M.E. mese di dicembre 1944: 21.12.44, Relazione del col. Fedi sull’attività addestrativa svolta dalle divisioni italiane in Germania. Un’altra copia di questa relazione è conservata nella b. 12, n. 27.
16 Ivi, p. 3.
17 Ivi, p. 11.
Luigi Cajani *, Il Carteggio Repubblica Sociale Italiana conservato nell’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (Roma), Quaderno di Storia Contemporanea n. 20, 1996, Istituto per la Storia della Resistenza e della Storia Contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Ghilardenghi” https://www.isral.it/
* Questo saggio è già stato pubblicato, con lo stesso titolo ed in forma lievemente ridotta, nel volume “Una certa Europa. Il collaborazionismo con le potenze dell’Asse 1939-1945. Le fonti”, a cura di LUIGI CAJANI e BRUNELLO MANTELLI, Brescia, Annali della Fondazione “Luigi Micheletti”, 1992: ma il gran numero di errori di stampa ne ha reso indispensabile la ripubblicazione in altra sede. In questa nuova versione ho tenuto conto di alcune novità apportate nel frattempo dai responsabili dell’archivio, con la costituzione di una nuova serie di registri.

[…] L’atteggiamento persecutorio nei confronti dei «soldati badogliani» si perpetuò nei Lager germanici e, per di più, i tedeschi riuscirono ad eludere, con la complicità dei fascisti di Salò, ogni forma di controllo e di intervento internazionale a favore dei prigionieri italiani (a fine guerra mancarono, per lo stesso motivo, statistiche sugli italiani deceduti in Germania).
La costituzione della repubblica sociale (23 settembre, dopo la liberazione di Mussolini) offrì, infatti, ai tedeschi il pretesto per sospendere l’invio a Ginevra delle « cartoline di cattura »: gli italiani furono considerati « internati militari », non protetti, perciò, dalla convenzione del 1929, sullo specioso rilievo che essi, appartenenti a uno Stato alleato della Germania (la R.S.I.), non erano prigionieri di guerra, bensì militari temporaneamente dislocati all’estero, in attesa di essere reimpiegati.
La R.S.I. si riprometteva con tale reimpiego, che prevedeva imponente, importanti obiettivi politici e militari: l’adesione degli internati al costituendo esercito di Graziani avrebbe dato prestigio al nuovo Stato fascista, sia nei confronti degli oppositori interni, sia nei rapporti con l’alleato tedesco, tenuto anche conto del non trascurabile apporto di combattenti « di sicura fede fascista » che Mussolini avrebbe procurato in tal modo alle forze dell’Asse.
Nonostante lo scetticismo del Comando Supremo tedesco sul raggiungimento di tali obiettivi, fu prevista, come personale favore di Hitler nei riguardi di Mussolini, la costituzione di quattro divisioni, da addestrare in Germania, con contingenti tratti dai campi di concentramento, integrati dai coscritti della classe 1924, che sarebbero affluiti a partire dal 15 novembre 1943. Le divisioni erano: la San Marco, la Monte Rosa, la Littorio e l’Italia, che sarebbero state rimpatriate, ad ultimato addestramento, e avrebbero costituito il primo nucleo del futuro esercito repubblicano, di 25 divisioni complessive.
Prima ancora della costituzione della R.S.I., ai militari italiani era stato proposto, subito dopo la cattura, di collaborare, come combattenti o come lavoratori, con le forze armate tedesche (secondo quanto già praticato, ad esempio, con i prigionieri russi), ma esigue erano state le adesioni, anche se con esse si era potuto evitare il duro impatto con la prigionia e la deportazione in Germania. Costituita la R.S.I., l’adesione per le previste unità italiane appariva più dignitosa e le prospettive di rimpatrio degli aderenti non mancarono di essere magnificate dal governo fascista, con adeguata propaganda sia nei Lager, sia in Italia, ottenendo che alle pressioni esercitate direttamente nei campi dagli emissari fascisti si aggiungessero quelle delle famiglie in attesa.
Contemporaneamente, pervennero dall’Italia, da parte di ditte e di enti vari, numerose richieste nominative di personale ritenuto necessario nell’attività esercitata anteguerra, accompagnate ed appoggiate dal caldo invito delle famiglie (ma, anche in tali casi, l’adesione implicava il riconoscimento della R.S.I.).
Per gli internati (oltre 600.000 uomini) fu questo il problema centrale: resistere alle pressioni politiche e familiari e, con esse, alla nostalgia della Patria, alla fame (le calorie giornaliere scesero progressivamente ben sotto le 1.000 e si rimediava mangiando i topi delle baracche) e al freddo (l’inverno 1943 -1944 fu particolarmente crudo e i tedeschi, a ragion veduta, mandarono gli internati, senza vestiario adeguato, a svernare nei Lager della Polonia fino allora riservati ai soli russi che erano morti a migliaia); oppure, con l’adesione, riconoscere come legittimo il governo della repubblica sociale. Era una scelta cui gli internati non potevano comunque sottrarsi e, rimanendo nei campi, restava l’amara consapevolezza che con una semplice firma si sarebbe potuto evitare, oltre alle sofferenze morali e fisiche, il prevedibile rischio di soccombere (circa 40.000 internati pagarono con la vita il loro rifiuto, altri, a causa delle sofferenze e della denutrizione, contrassero malattie e invalidità che, dopo la liberazione, li costrinsero a lunghi soggiorni in ospedali e convalescenziari o li condussero a morte).
Come reazione alla pressante propaganda nazifascista, nacque all’interno dei Lager la resistenza alle adesioni. La questione che, inizialmente, ciascuno aveva risolto secondo le proprie inclinazioni o, più semplicemente, paventando di rimanere in balia dei tedeschi, divenne un problema collettivo, in una più ampia visione degli avvenimenti e nella meditata riflessione su quale fosse il dovere verso la Patria. Le conferenze di carattere culturale, le adunate regionali e d’arma, gli stessi sermoni dei Cappellani, furono pretesto ed occasione per approfondire il problema e per una attiva contropropaganda che i tedeschi non tardarono a scoprire e a reprimere, pretendendo la preventiva censura sugli argomenti trattati in tali manifestazioni (gli « indesiderabili » venivano ripetutamente trasferiti di campo). Ciò non impedì tuttavia che l’opera di dissuasione continuasse, clandestinamente e capillarmente, attraverso i riservati colloqui nelle baracche e, in ogni occasione, nei ricercati contatti personali con gli incerti e i più esposti alle contrarie sollecitazioni.
Un fattore di resistenza particolarmente efficace fu il giuramento militare che impegnava ciascuno ad obbedire al governo legittimo, nonostante che Mussolini avesse sciolto gli internati dal giuramento al re. Tale fu la forza esemplare del giuramento che centinaia di giovani ufficiali, che all’atto della cattura non avevano ancora giurato, vollero prestare giuramento in prigionia, in segrete, commoventi cerimonie collettive, presente la Bandiera e, talvolta, individualmente.
Altro elemento che contribuì a rafforzare la resistenza fu la dichiarazione di guerra del governo italiano del Sud alla Germania (13 ottobre 1943), dichiarazione che veniva a sancire formalmente lo stato di guerra che esisteva di fatto tra Italia e Germania fin dall’8 settembre, per iniziativa tedesca.
La contropropaganda, che, spontaneamente, si sviluppò in ogni Lager, sortì effetti diretti e indiretti: gli aderenti non superarono l’1,03% e moltissimi furono i disertori che, al rimpatrio delle divisioni repubblicane, passarono ai partigiani (vedasi, ad esempio: G. Milano, Nebbia sulla Pedaggera , per quanto riguarda la « San Marco », che, rimpatriata nell’ago-sto 1944, operò nelle valli del Tanaro e della Bormida). Senza parlare poi degli effetti negativi che il mancato rientro, di intuitivo significato politico, della gran massa degli internati ebbe sulla popolazione dell’Italia occupata, nei rapporti sia con i tedeschi invasori, sia con le autorità fasciste. Evidente, infine, l’importanza, sul piano politico internazionale, dell’ atteggiamento assunto nei confronti del fascismo da una massa così qualificata di italiani (erano militari delle leve cresciute nell’ « ardente clima del littorio »).
Ne risultò, ad ogni richiesta, un sempre minore numero di aderenti, malgrado le pressioni reiterate per mesi e mesi e l’aggravarsi delle restrizioni di volta in volta minacciate e puntualmente messe in atto come principale mezzo di coercizione.
La responsabilità di tali vessazioni risaliva sia ai tedeschi, sia alla R.S.l.; allorquando, ad esempio, per venire incontro alla disastrosa situazione degli internati, la Croce Rossa Internazionale – sebbene tagliata fuori da ogni controllo dei Lager – offrì alle autorità di Salò il suo aiuto, queste subordinarono l’accettazione degli invii di viveri e di medicinali «alla eliminazione di ogni etichetta o contrassegno delle merci e dei generi, in quanto tutti di provenienza di paesi sotto il controllo del nemico»; e, poiché la Croce Rossa non accettò tale condizione, assurda quanto in mala fede, nessun aiuto poté giungere agli internati.
Ciò fu tanto più grave perché la R.S.I., e per essa il S.A.I. (Servizio Assistenza Internati), aveva, a Berlino, forti disponibilità di viveri e medicinali con le quali avrebbe potuto alleviare le condizioni degli internati; ma il S.A.I., istituito in antitesi alla Croce Rossa, aveva per scopo statutario di « assistere materialmente e moralmente gli internati, con mira principale il risveglio del sentimento di orgoglio nazionale »: in altri termini, gli aderenti.
Coerentemente a tale linea d’azione, i tedeschi, dopo l’adesione, cui conseguiva immediatamente un diverso trattamento, trattenevano per qualche tempo gli optanti, prima di trasferirli nei campi d’addestramento, nei campi d’origine, come zimbelli, perché i resistenti constatassero di quale abbondante alimentazione e di quale vestiario li avrebbe forniti la repubblica sociale, se avessero aderito.
A parte il raffronto con la diversa sorte riservata agli altri prigionieri (francesi, belgi, iugoslavi, ecc. si trovavano talvolta in campi confinanti con quelli dei militari italiani), cominciarono a farsi sentire le conseguenze della lunga fame e del freddo, nonché delle pessime condizioni igieniche. Cimici, pulci, pidocchi rendevano incombenti le minacce di epidemie: quelle di tifo petecchiale, che già avevano mietuto negli stessi campi migliaia di russi, rifecero la loro comparsa (dichiarata la quarantena e senza medicine, il cibo veniva passato attraverso il reticolato). La tubercolosi, le oligoemie, gli edemi da fame aumentavano, e anche gli ospedali, per l’assoluta mancanza di medicine e la persistente scarsità di cibo, offrivano poco sollievo: nei soli Lazarettlager di Zeithain, di Górlitz e di Fullen – tre fra i vari ospedali per internati – morirono 2.258 militari. (Nell’ospedale di Zeithain si trovavano anche un gruppo di crocerossine catturate con l’ospedale militare italiano di Atene e un altro gruppo proveniente dalla Croazia; internate in violazione della Convenzione Internazionale, avevano rifiutato di aderire alla R.S.I.).
Anche per il resto, le prospettive non erano incoraggianti. Il trattamento inflitto dai tedeschi, esasperati dal fermo contegno della massa degli internati, si faceva sempre più duro: estenuanti trasferimenti da campo a campo, interminabili appelli nella neve, con temperature bassissime, continue umiliazioni, percosse. In vari campi si ebbero esecuzioni sommarie di singoli e collettive, per infrazioni disciplinari anche lievi; per i più ostinati vi erano i campi di punizione o il trasferimento ai KZ, come, ad esempio, a Dora, dove morirono per le sevizie 296 militari; ad Hildesheim, nell’Hannover, furono impiccati 132 militari dei circa 500 addetti allo sgombero delle macerie dei bombardamenti; 150 militari furono fucilati nel Lager di Sebalduschof di Treuenbrietzen, e così via in una serie incontrollabile di assassini […]
Alberto Cavaglion e Mario Marcarino, Gli internati militari italiani (tratto da Internamento militare e civile nei lager nazisti / a cura di Mario Marcarino; ricerca di Alberto Cavaglion – Cuneo : Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, [1980?]), Quaderno di Storia Contemporanea, Istituto per la Storia della Resistenza e della Storia Contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Ghilardenghi” , 18 gennaio 2019