Fotografie private della guerra d’Etiopia

Fonte: Lo scrigno…, Op. cit. infra
Fonte: Lo scrigno…, Op. cit. infra
Fonte: Lo scrigno…, Op. cit. infra

La documentazione fotocinematografica raccolta dal Reparto doveva avere un duplice scopo: da un lato servire per la storia militare della campagna e l’addestramento delle truppe (come risulta dal “Memoriale per le riprese cinematografiche” allegato al comunicato) e dall’altra fornire materiale per la propaganda in Italia, in A.O. e all’estero. La sezione cinematografica “E” dipendeva in via disciplinare direttamente dal comando superiore. Il personale civile dipendeva in via disciplinare dal capo del servizio fotocinematografico. Tutto il personale doveva comunque sottostare alle limitazioni che furono poste dai comandi militari. <25 Il Reparto Luce A.O. fu quindi a tutti gli effetti inquadrato nell’esercito, e sebbene si facesse riferimento nello specifico alla sezione cinematografica “E” del Regio Esercito, in realtà anche il personale civile proveniente prevalentemente da Roma e dall’Istituto Luce nel svolgere le proprie mansioni di ripresa e produzione filmica, doveva sottostare ai limiti imposti dalle necessità militari.
Con l’inizio delle riprese, la ripartizione delle competenze tra i comandi militari in Africa e il comitato tecnico di Roma non mancò di suscitare problemi. Così già il 1° ottobre De Bono specificava che la circolare 09107 sulla costituzione del Reparto A. O. non modificava la precedente 07300 del 4 settembre sulla costituzione dell’Ufficio stampa e propaganda asmarino. <26
L’Alto Commissario chiariva che «tale Reparto fotocinematografico ha il compito di coordinare ulteriormente tutti i mezzi e gli uomini che devono essere impiegati nell’attività di presa foto-cinematografica sia nei riguardi della propaganda che della documentazione storico-militare addestrativa».
e invitava l’USPAO a collaborare col Reparto A. O. per la presa e la raccolta di materiale foto-cinematografico inerente l’attività dei reparti militari, uniformandosi «alle direttive che dal Comando Superiore [sarebbero state] di volta fornite». Inoltre «con la costituzione del Reparto A.O. la ripresa e la raccolta del materiale da utilizzare a scopo di propaganda e documentazione sarà svolta [anche] dagli Ufficiali e dai militari di truppa che sono in possesso di macchine di loro proprietà».
Al Reparto Luce era dunque accentrata pure la documentazione privata.
Lo scopo non è del tutto chiaro: apparentemente la frase lascerebbe intendere che tale materiale fosse comunque valutato per i cinegiornali, ma finora non abbiamo trovato conferme di una tale prassi. Ma più probabilmente lo scopo era di controllare ed eventualmente censurare le fotoricordo spedite ai familiari, come suggerisce un successivo passaggio della lettera di De Bono: «tutto il materiale di presa cinematografica raccolto sia dai professionisti civili che dai militari o dai dilettanti, dovrà perciò essere inoltrato al Servizio foto-cinematografico per l’A.O. di Asmara, il quale in questo modo verrà ad accentrare tutto il lavoro tecnico di ripresa». <27
In ogni modo non tutta la documentazione fotografica della guerra d’Etiopia è conservata negli archivi del LUCE e dell’Ufficio storico dello SME: un’importante collezione, recentemente studiata da Benedetta Guerzoni, è infatti conservata presso l’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea (Istoreco) di Reggio Emilia <28.
[NOTE]
25 Ibidem (stessa collocazione), circolare, a firma de Bono, n. 09107 del 26 settembre 1935, emessa dall’Alto Commissario dell’A. O., inviata ai vari comandi militari di stanza in Eritrea e Somalia, all’Ufficio Stampa e Propaganda Africa Orientale, all’Istituto Luce e per conoscenza al Gabinetto personale di Emilio De Bono.
26 MAE, MAI, busta 181/10 – 883, f. “Alto commissariato A. O. Stampa e Propaganda, Attività dell’alto commissariato AO stampa e propaganda”, s. f. “Ufficio stampa A.O.: costituzione – funzionamento – personale – alloggi del personale e sistemazione uffici”, circolare 07300 del 4 settembre 1935 inviata dal Comando Superiore di Stato maggiore ai vari comandi militari operanti in Africa Orientale con oggetto “costituzione dell’Ufficio stampa per l’A.O. Istituzione ufficiali addetti ai servizi stampa”.
27 Ibidem (stessa collocazione), lettera n. 3767 del 1 ottobre 1935 inviata da De Bono ai comandi di corpo d’armata, all’USPAO, al Reparto Luce A.O.
28 Raccolta da Gino Cigarini, un operatore fotografico del Regio esercito. V. Benedetta Guerzoni, “Una guerra sovraesposta”. La documentazione fotografica della guerra d’Etiopia tra esercito e Istituto Luce, prefazione di Adolfo Mignemi (Insmli), Reggio Emilia, RSLibri, 2014.
Gianmarco Mancosu, L’Istituto Luce nella guerra d’Etiopia in Interpretazioni storiche del cinema di guerra, Quaderno Sism 2015, Società Italiana di Storia Militare, Acies Edizioni Milano

Fonte: Gianmarco Mancosu, art. cit.
Fonte: Gianmarco Mancosu, art. cit.
Fonte: Gianmarco Mancosu, art. cit.

La guerra di Etiopia ha rappresentato per il regime fascista una tappa fondamentale, l’investimento principale in termini di politica estera verso il quale Mussolini convogliò, intorno alla metà degli anni Trenta, gli sforzi dell’intero Paese. Con un ampio ricorso alle moderne tecniche di propaganda, avvalendosi di strumenti diversificati – dalla stampa alla radio, alla scuola ecc. –, il fascismo riuscì a rendere «popolare» la guerra «per l’impero», caricandola di una serie di significati e di motivazioni in grado di suscitare una massiccia mobilitazione e di giustificare gli inevitabili sacrifici. La conquista del territorio abissino rappresentava – nella retorica del duce – la realizzazione di quell’Impero che aveva come suo ascendente la grandezza di Roma antica, assumendo in tal senso una precisa missione civilizzatrice. Ma non solo. Tale impresa incarnava perfettamente quella sete di avventura e di dominio nei confronti di un territorio «esotico» abitato da genti e popoli considerati inferiori; ma soprattutto colmava lo iato esistente con le altre potenze coloniali attraverso la conquista del tanto agognato «posto al sole» fino ad allora negato dalla «cupidigia delle nazioni plutocratiche» e che avrebbe consentito di dar libero sfogo alla pressione demografica del Paese. Ormai stabilizzatosi al potere, libero dai condizionamenti delle opposizioni costrette al silenzio attraverso la vigile attività dei suoi apparati repressivi, il regime si trovava intorno alla metà degli anni Trenta nelle condizioni favorevoli per mettere a segno un colpo di prestigio in grado di additare l’Italia fascista come potenza mondiale: fu l’apice del consenso, per citare Renzo De Felice, e nel contempo l’inizio della parabola discendente. Se l’«ubriacatura» nazionalistica, patriottica e imperialistica avrebbe nascosto ancora per qualche tempo i nodi critici nella preparazione militare italiana, tali limiti sarebbero esplosi nel secondo conflitto mondiale, rendendo manifesti il grado di debolezza delle nostre forze militari e gli errori strategici nelle gerarchie, che affondavano le radici nell’illusione data dalla vittoriosa campagna d’Etiopia.
[…] La pubblicazione degli album fotografici, a distanza di molti anni da quell’avvenimento, di quanti hanno preso parte – coinvolti a vario titolo come militari, medici e imprenditori – alla campagna d’Etiopia e ne hanno lasciato traccia attraverso i loro scatti, si inserisce, come dicevano, in un quadro di maggiore attenzione verso il recupero di questo genere di fonte. Per pudore, volontà di rimuovere una pagina imbarazzante della storia personale e collettiva, ragioni di opportunità o altro, nella maggior parte sono rimasti chiusi in scantinati e soffitte, quasi in una sorta di scrigni, sottratti alla stessa visione dei familiari che in taluni casi ne sono venuti a conoscenza solo dopo la morte. Eppure, come ha evidenziato Mignemi, il rito dell’album fotografico di ricordi si configurò per migliaia di soldati come la più diffusa conclusione dell’avventura in Africa orientale, dettato dal bisogno di «raccontare la propria ventura».
La visione di queste raccolte personali ci restituisce un quadro vivido e palpitante delle pulsioni che percorsero gli animi di quella generazione, dei loro miti, imbevuti di retorica patriottica e sorretti dalla granitica certezza della missione civilizzatrice nei confronti del popolo etiope che il fascismo aveva inculcato loro, e anche del determinato punto di vista con cui guardarono al mondo africano, influenzati dal gusto esotico; ma ci dice molto, al di là della retorica di regime che indirizzava all’esaltazione della superiorità tecnica e militare italiana, sul dramma di una guerra rivelatasi più dura del previsto, piena di insidie, in cui furono commessi massacri indiscriminati e non vennero risparmiate torture e umiliazioni corporali, come le stesse immagini documentano <16.
[…] Tra queste foto, profondamente intrise dell’ideologia coloniale e specchio della cultura del tempo, ve ne sono alcune che vedono protagonista l’imprenditore Ferrario, dirigente della Michelin italiana, e si riferiscono al momento del trasporto dei diversi blocchi che compongono la stele di Axum alla volta di Roma. Viene immortalato in queste immagini un frammento di un impegno di lavoro personale, quello di Ferrario, che fa da supporto a un’operazione che assumerà un significato simbolico di straordinaria portata, con polemiche che si sono trascinate fino ai giorni nostri e placatesi solo con la restituzione del monumento nel 2005 <17.
16. Può essere utile far riferimento alle riflessioni sul ruolo della fotografia storica coloniale richiamate da Silvana Palma in riferimento alla fase del primo colonialismo italiano, nel periodo crispino, nel suo saggio dal titolo Fotografia di una colonia: l’Eritrea di Luigi Naretti (1885-1900), in «Quaderni storici», nuova serie, 109, 1/2002, pp. 83-147, nel numero dedicato al tema La colonia: italiani in Eritrea, a cura di A. Triulzi. Sempre sul rapporto tra fotografia e colonialismo si segnalano i seguenti contributi: N. Labanca, Uno sguardo coloniale. Immagine e propaganda nelle fotografie e nelle illustrazioni del primo colonialismo italiano, in «Archivio Fotografico Toscano», 8, 1988; Luigi Goglia, Storia fotografica dell’impero fascista, Laterza, Roma-Bari 1985; Id., Colonialismo e fotografia. Il caso italiano, Sicania, Messina 1989; S. Palma, L’Italia coloniale. Storia fotografica della società italiana, Editori Riuniti, Roma 1999. Per venire al periodo recente, ci limitiamo in questa sede a citare i diversi progetti di recupero di archivi fotografici da parte dell’ISTORECO di Reggio Emilia e quelli di recupero e scambio di fonti private tra istituzioni modenesi ed etiopi-eritree descritti da Cristiana Pipitone nell’articolo Le cantine della storia, in «Zapruder», n. 23, settembre dicembre 2010, pp. 132-134, nel numero dal titolo Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano; meritano di essere segnalati inoltre i contributi di D. Calanca, A. Malfitano, Italiani in Africa. Le fotografie di Gaetano Orando durante la campagna d’Etiopia 1935-1936, in «Storia e Futuro», Rivista di Storia e storiografia, 10, febbraio 2006 e di E. Brichetto, La fotografia dentro il giornale: l’archivio storico del «Corriere della Sera» e l’Africa orientale, in R. Bottoni (a cura di), L’impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), cit., pp. 307-319. Anche Internet si rivela uno strumento formidabile, data la relativa semplicità tecnica e l’abbattimento dei costi di stampa che comporta, per favorire la pubblicazione di tali materiali, tant’è che si è assistito in questi anni al moltiplicarsi del numero di siti che raccolgono le memorie coloniali.
17. Per un bilancio della vicenda si veda L. Acquarelli, Sua altezza imperiale. L’obelisco di Axum tra dimenticanza e camouflage storiografico, in «Zapruder», cit., pp. 59-73.
Antonio Baglio, La guerra d’Etiopia nelle immagini dei reduci, in Lo scrigno africano. La memoria fotografica della guerra d’Etiopia custodita dalle famiglie italiane, a cura di Mario Bolognari, Rubbettino, 2012

Fonte: Brescia, Esposizione cit. infra

Nei libri e nei giornali per ragazzi (tra i più diffusi era il Corriere dei piccoli) ancor prima dell’emanazione della legislazione razziale del 1938 e degli anni seguenti, l’immagine di altre civiltà appare contrassegnata dall’affermazione della superiorità del popolo italiano.
Su questo terreno poteva poi facilmente imporsi la propaganda razzista e antisemita.
Gli etiopi durante la guerra vennero dunque descritti come dei primitivi selvaggi ai quali l’Italia doveva portare civiltà e progresso.
AA.VV., Le leggi razziste del fascismo italiano a Brescia, Esposizione allestita in occasione della giornata di studi “Razzismo fascista. Aspetti della campagna antisemita e razzista a Braescia sotto il fascismo”, Comune di Brescia, Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’età contemporanea, Archivio storico “Bigio Savoldi e Livia Bottardi Milani”, Fondazione “Luigi Micheletti”, Brescia, maggio 2008

Uomini della Divisione “Sila” si inerpicano sull’Amba Aradam – Fonte: Wikipedia

[…] Le guerre coloniali avevano subito un destino leggermente differente, per diversi motivi; tra questi, l’essersi in primo luogo svolte su scala inferiore rispetto alla mobilitazione, all’impegno, alle perdite sostenuti dal Paese per i due conflitti mondiali; poi, per l’essere stati, nel caso della guerra di Libia e nell’attacco all’Etiopia, di poco precedenti a queste ultime. Si era finito così per oscurare, nella memoria dell’intera nazione, il ricordo di quelle imprese in terra d’Africa coprendolo con quello, ben più pregnante e intenso, degli eventi del 1915-18 e 1940-45, con il loro carico immensamente più alto di lutti e di coinvolgimento della popolazione.
Aveva subito le conseguenze di questo accantonamento anche la memorialistica prodotta da chi era stato coinvolto nell’occupazione della Libia e in quella dell’Etiopia. Solo con un netto ritardo rispetto a quella relativa alle altre “guerre degli italiani”, è sorta una nuova attenzione per quel materiale, come testimoniano anche i recenti studi di Nicola Labanca (2005). Lo stesso Labanca ha suggerito che la scarsa attenzione per molto tempo rivolta in Italia a tali fonti, almeno fino a che Angelo Del Boca (1979) non ha affrontato l’argomento con il suo ampio lavoro sugli Italiani in Africa Orientale, e in parte anche successivamente, è attribuibile, in estrema sintesi, all’essere stata una guerra a ridosso di quella generale del 1939-’45, ma in particolar modo alla sua natura di guerra prettamente “fascista”, di cui andar poco fieri nel nuovo clima successivo alla Liberazione. D’altronde lo stesso Mussolini aveva puntato tutte le sue carte sull’attacco all’Etiopia, per realizzare il sogno imperiale italiano, ottenere prestigio internazionale, illudere gli italiani della potenza della nazione.
Si è scritto molto sulla motivazione o, meglio, sull’insieme di motivazioni che hanno spinto Mussolini alla guerra, ma il dato certo è che la retorica sull’impero investì tutto il Paese e in particolare coloro che l’impero dovevano costruirlo, i militari, molto numerosi in questo conflitto.
Se è vero che le guerre coloniali fino ad allora erano state condotte in massima parte con corpi di spedizione bene armati, ma meno numerosi degli eserciti locali che vi si contrapponevano, in questa occasione l’esercito conquistatore raggiunse al termine della campagna una cifra di poco inferiore al mezzo milione di effettivi, tra ascari e nazionali. Ciò comportò una superiorità numerica che si aggiunse alla già ampia disparità di mezzi e organizzazione. Mussolini d’altronde non intendeva correre alcun rischio e mise in campo una forza d’urto degna di una guerra europea, per essere sicuro di potersi fregiare del titolo di “vendicatore di Adua”. Per ottenere questo risultato, era indispensabile sfruttare al meglio lo spazio che l’indecisione delle potenze democratiche concedeva all’iniziativa italiana, e chiudere la partita con l’Etiopia nel più breve tempo possibile. Lo stesso Mussolini scrisse pochi mesi dopo la conquista di Addis Abeba che si era determinata “una specie di gara di velocità fra l’Italia e la Società delle Nazioni, la quale – se le vicende della guerra non fossero state propizie alle armi italiane – sarebbe probabilmente passata alla applicazione di misure più drastiche” (Badoglio 1936, p. 9).
[…] Una simile guerra, volutamente di massa, e fortemente ideologizzata, ha generato, come detto, una quantità enorme di memorie, prodotta in quel breve arco di tempo che va dall’inizio del conflitto al rapido svanire del sogno imperiale, con la conquista inglese del 1941. Una parte minoritaria è costituita da immagini scattate in proprio da quei protagonisti che avevano con sé una macchina fotografica. Tra costoro, vi era Gaetano Orando, che partecipò alla guerra come radiotelegrafista. Orando era originario di Quaderni, una frazione di Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, dove era nato nel 1911, e faceva quindi parte della classe militare che maggiormente contribuì in termini di effettivi alla mobilitazione italiana per la campagna del 1935-36. Non furono infatti truppe di leva quelle che attaccarono l’Etiopia, ma in gran parte richiamate, e lo stesso Orando aveva già prestato servizio nell’esercito per diciotto mesi. Gaetano Orando venne inquadrato nella Divisione Sila, che partecipò all’intera campagna. Di famiglia non ricca ma comunque benestante, ancora non sposato né fidanzato, Orando portò con sé una macchina fotografica con cui documentò la propria avventura coloniale. Conservate dopo la sua morte, nel 1983, dalla signora Norma, la vedova, e dal figlio Ezio, ci sono pervenute 189 immagini, a volte corredate con una breve didascalia esplicativa, a formare una sorta di album ricordo di una esperienza di certo insolita per chi proveniva dalla pianura veronese e, sbarcato in Eritrea, aveva dovuto percorrere centinaia di chilometri tra il Mar Rosso e l’altopiano etiope.
Come rispondono le foto di Gaetano Orando al quesito sul peso che ebbe la retorica del regime su coloro che l’impero lo costruirono effettivamente?
Non possediamo un diario o delle memorie scritte che ci aiutino a comprendere meglio il significato attribuibile agli scatti, e quindi l’analisi che possiamo svolgere si compie su un terreno sdrucciolevole. Si tratta sicuramente di un album di guerra, in cui gli aspetti della vita militare sono preponderanti, senza però che quelli ideologici siano particolarmente spiccati o espliciti. Il tono generale sembra piuttosto quello del reportage, che non può definirsi turistico, vista la drammaticità dell’evento cui Orando partecipò, ma neppure intriso delle parole d’ordine con cui il fascismo aveva corredato la sua avventura e che ripeteva ossessivamente a tutti gli italiani. Casomai, emergono, qua e là, sintomi di un orgoglio patriottico che si esprime in maniera sufficientemente esplicita nell’ammirazione per Badoglio e per il re, un sentimento che, per la scelta degli scatti, possiamo supporre in altri casi senza tuttavia averne la definitiva certezza. In generale, però, l’album sembra voler costituire un documento di vita militare che possiamo suddividere in alcune categorie di massima, a seconda delle tipologie di foto scattate: lo stupore per i paesaggi africani, la curiosità per le popolazioni indigene, l’amicizia con i commilitoni, il divertimento generato dal contatto con animali presumibilmente mai visti prima. Gli aspetti più terribili della guerra occupano uno spazio ristretto in questa piccola memoria personale, innanzitutto per l’ovvia considerazione che gli scontri con il nemico non lasciavano certo spazio e tempo ad attività di documentazione, ma forse anche per una voluta scelta dell’autore, quasi che le foto, accompagnate spesso da brevi indicazioni o didascalie, servissero per ricordare ma anche per raccontare a parenti e amici la propria esperienza, una volta rientrati a Valeggio. In questo caso, pur accanto all’orgoglio del soldato che aveva svolto il proprio dovere e contribuito a far grande l’Italia, è ipotizzabile una sorta di pudore per gli aspetti più truculenti della guerra, e una maggiore attenzione per quelli insoliti, propri di un paese tanto differente e lontano dall’Italia.

Fonte: Corriere della Sera

Il viaggio
Le foto a nostra disposizione non sono mai state ordinate cronologicamente, tuttavia, in parte grazie alle indicazioni appostevi dal nostro protagonista, in parte conoscendo a grandi linee il cammino della Divisione di appartenenza, è possibile individuare un percorso di massima.
Il viaggio verso l’Africa comincia a essere documentato a partire da un luogo particolare, che porta con sé una non trascurabile valenza simbolica: Suez. Alcune immagini ci restituiscono il momento del passaggio delle navi italiane lungo il canale. Possiamo supporre i motivi di una tale scelta per inaugurare il proprio rullino, a partire da uno intuitivo: Suez doveva rappresentare il primo avvicinamento alla terra ferma dopo alcuni giorni di navigazione in mare aperto, e quindi rompeva la monotonia del viaggio e di un panorama sempre uguale; a maggior ragione se consideriamo che si trattava di un’opera tutto sommato recente e assai famosa per l’ardire tecnologico, conosciuto per sentito dire da tutti ma probabilmente mai visto da nessun componente della truppa trasportata; è presumibile, poi, che Suez veicolasse un significato particolare agli occhi di giovani italiani degli anni Trenta: monopolizzati dalla retorica del Regime, il canale rappresentava il termine del mare nostrum additato da Mussolini come bacino di pertinenza italiana, e costituiva la porta sul più lontano, anche in termini psicologici, Mar Rosso, porta verso l’India. In tal senso simboleggiava l’ingresso verso un mondo molto meno familiare per gli italiani e una sorta di sfida orgogliosa al tradizionale potere britannico, che controllava anche l’Egitto e quindi il canale stesso. Tutte queste però non possono che essere poco più di supposizioni, in mancanza di riscontri scritti, per spiegare la scelta delle foto, che presentano alcune differenze l’una dalle altre: nella prima si intravede il convoglio in marcia nel canale, in una sorta di autorappresentazione dell’efficienza e potenza e della spedizione italiana, in un’altra Porto Suez con alcune imbarcazioni, infine una terza – con alcune donne che lavano i panni nel canale – sembra propendere per una scelta più dettata dalla curiosità antropologica che da eventuali messaggi propagandistici introiettati.
Per il resto, il viaggio deve deve essere trascorso cercando di combattere la noia della navigazione, prima dell’arrivo a Massaua.

Fonte: Corriere della Sera

Gli animali
Il porto eritreo era l’unico attrezzato a ricevere la massa enorme di uomini, mezzi, animali che Mussolini aveva deciso di non lesinare per evitare sorprese di ogni genere. Anche la Sila vi converge, e le foto di Orando testimoniano il momento dello sbarco, non tanto degli uomini o del materiale, ma di un prezioso alleato dei soldati, un mulo, imbragato e calato dal ponte della nave alla banchina. Particolare curioso: il mulo fu un animale che si rivelò indispensabile in una guerra condotta su un territorio duro, accidentato, privo di strade moderne, specie in un momento della campagna, quello iniziale, in cui i camion ancora difettavano. Eppure, non comparirà più in questa raccolta fotografica. Il suo posto verrà soppiantato da tutta una serie di animali locali che vanno a comporre quel mondo esotico, ‘altro’, in cui la Divisone si trova catapultata: ecco allora i protagonisti di questo mondo: i cammelli e le scimmie. Sono loro i frequenti interpreti degli scatti, e sembrano circondare in continuazione il mondo dei soldati della Sila; solo in un caso gli animali indigeni appaiono palesemente appartenenti a un mondo differente, quando una capretta viene
presentata a un cane, dotato di collare e tenuto stretto dallo stesso Orando, segno della sua probabile provenienza ‘metropolitana’. Sembra quasi l’allegoria di due mondi diversi che si confrontano, e la giocosità dell’immagine lascia in secondo piano la tragedia della guerra in corso, elemento di fondo che percorre l’intero fondo fotografico.
Le scimmie in particolare ritornano spesso nelle foto: a differenza dei cammelli, che comunque attirano l’attenzione del fotografo per la loro totale alterità, sono piccole, amichevoli, e finiscono per diventare un elemento imprevedibile e divertente nella vita dei soldati, con i quali o, meglio, sui quali, vengono spesso ritratte. La loro definitiva consacrazione si ha con il ritratto a due di loro, ribattezzate Mimì e Cocò in onore alla cultura dell’epoca, evidentemente arruolate nel reggimento come mascotte aggiuntive, assieme al più familiare cagnolino.

Fonte: Corriere della Sera

Tra propaganda scelta e propaganda assimilata
Allargando lo sguardo alle molteplici sfere d’influenza che si situano alle spalle del codice ideologico-visivo sotteso alle fotografie di Orando, non si può trascurare in generale l’impatto che procede dall’impiego della fotografia, quale strumento della politica fascista, nonché in particolare dallo specifico rilievo conferito dal regime all’Istituto Luce, per il quale la guerra d’Etiopia rappresenta un momento cruciale, in quanto raggiunge il coronamento ufficiale della sua posizione all’interno della macchina della propaganda (De Luna 2005, pp. 91 ss; pp. 203 ss, e pp. 279 ss.).
Una propaganda coloniale – in questo caso – la cui novità, rispetto all’Italia liberale “consisteva nella vastità e nel carattere concentrico degli istituti e dei media, che sotto il regime vennero attivati
[…] Nello specifico, in seguito alle disposizioni di Mussolini circa la creazione di un reparto foto-cinematografico per l’Africa orientale, la cui sede sarebbe stata ad Asmara, sede a sua volta del quartier generale delle forze militari italiane, il 12 settembre il Luce istituisce ufficialmente il reparto AO, la cui sezione più avanzata viene stabilita ad Adigrat, a cui affluisce tutto il materiale fotografico, per poi essere inviato ad Asmara. E di qui spedito in Italia. Dislocate in vari punti del fronte, ogni unità fotografica è dotata di un carro-laboratorio che consente di sviluppare stampe e foto sul posto, e di distribuirle agli inviati della stampa circa 3 ore dopo la conclusione di ciascun evento. Inoltre, ogni operatore è a capo di un nucleo e dispone di un assistente, 5 ascari, 1 mutaz e 5 muli per il trasporto delle attrezzature. Nel contempo, il Luce AO effettua la propaganda anche tra i soldati, distribuendo loro fotografie in formato 60×90 e 65×93 allo scopo di diffondere massicciamente l’idea della superiorità razziale, militare e materiale dell’Italia rispetto all’Etiopia.
Non riprendendo mai scene che possano danneggiare l’immagine di potenza dell’esercito italiano, il Luce AO [Africa Orientale] testimonia la guerra seguendo l’ottica del regime. Sotto questo profilo, i soggetti rappresentati ne svelano le profonde intenzioni, tra cui per esempio: la partecipazione di massa con molte foto di truppe in partenza, evitando però di divulgare immagini di carattere sentimentale; la generosità italiana mediante foto di ponti, strade, case; la superiorità fascista, nonché il paternalismo, con foto di schiavi liberati, di atti di sottomissione; l’inquadramento degli abissini mediante foto della Gioventù etiopica del littorio; aspetti folcloristici mediante immagini di “indigeni”, uomini e donne che ballano durante le feste del Mescal (De Luna 2005, p. 300). Sono tutte fotografie che propagandano un’immagine umanitaria della guerra e dell’occupazione italiana.
In questa direzione, le fotografie devono dare l’impressione di benevolenza da parte dei soldati verso gli indigeni, ma non di cordialità, di protezione, tanto meno di intimità e di affetto. Esse amplificano il messaggio del buon soldato, con l’accortezza, tuttavia, di non trasgredire le direttive, che impongono di evitare di dimostrare intimità fra i soldati italiani e gli abissini. Quella raccontata dal Luce AO, dunque, è una “guerra pulita”, fatta in nome del progresso e della civilizzazione. Allo stesso modo, specchio di un’Italia di regime, borghese e moralista, cattolica e sessualmente repressiva, le foto di Orando, tra “propaganda consapevolmente scelta” e “propaganda subita, assimilata”, ripropongono i codici dell’ideologia fascista. E ciò risulta particolarmente evidente nella cospicua sezione dedicata alle rappresentazioni di uomini e donne etiopi con bambini, laddove, per esempio, gli “indigeni” rappresentati sono tutti completamente vestiti, colti sia mentre trasportano brocche sulla testa o fascine di legna sulle spalle, sia quando danzano e suonano durante le feste del Mescal. E ancora, quando giovani donne si lasciano fotografare in posa da sole o con il loro figlio in braccio. A quanto è dato constatare non vi è traccia nel fondo Orando di “Veneri nere”, un mito e un luogo comune, largamente diffuso sia tra i soldati che parteciparono alla campagna etiopica, sia nella popolazione italiana.

Fonte: Corriere della Sera

Nondimeno, il tema delle vesti, del corpo indigeno vestito, seppure stracciato e a piedi nudi, si ripropone nelle foto di Orando in cui egli si autorappresenta con un bambino in braccio, o in procinto di giocare con un gruppo di loro. Come pure quando si autorappresenta assieme a un compagno soldato e in mezzo, quasi a senso di protezione, sta un giovane etiope. Segno di evidente civilizzazione, si può dire che solo al corpo vestito degli indigeni si riconosce un valore di progresso, seppure espresso in termini di inferiorità e di soggettività rispetto alla divisa militare. Un altro aspetto saliente delle foto di Orando sono le fotografie degli ascari e delle truppe indigene che sottendono, consapevolmente o inconsapevolmente, la medesima intenzione di propaganda, ossia rappresentare e celebrare l’opera civilizzatrice dell’Italia. E ciò in particolare nelle fotografie in cui Orando è ripreso in divisa accanto a un ascaro, che nell’immaginario collettivo assume il simbolo di elevazione in un soldato, di un guerriero precedentemente seminudo, primitivamente armato, fondamentalmente crudele. Non a caso, in una fotografia che ritrae un indigeno con uno scudo, tra la folla di militari indigeni, Orando scriva, quasi per ricordarlo a se stesso, la didascalia “Capo abissino”. Inoltre, la stessa produzione con cui il reparto Luce AO mette in risalto la continua esposizione delle massime autorità di regime, seguendole in tutte quelle manifestazioni che il regime vuole siano enfatizzate, si ritrova in un certo qual modo nel fondo Orando, in cui compaiono esponenti delle alte gerarchie militari e politiche presenti in Africa: Bottai, Storace, Vecchini, e, in particolare Emilio De Bono e Pietro Badoglio, i due comandanti in capo delle truppe italiane che si alternarono nella guerra contro l’impero di Hailè Selassiè.
Dal confronto tra i due ritratti traspare la netta simpatia di Gaetano Orando per Badoglio, omaggiato della didascalia “Il nostro condottiero”, un attestato di stima e reverenza assente nelle due foto di De Bono. A cosa dobbiamo il differente trattamento? Al fatto che De Bono fosse stato sostituito da Badoglio e richiamato in patria perché Mussolini non ne aveva apprezzato la tattica troppo prudente, e quindi non potesse godere della stima delle truppe? All’immagine di vincente di Badoglio, che aveva potuto sfruttare al meglio il lavoro preparatorio del rivale-predecessore e si era avvalso dei continui rinforzi provenienti dall’Italia? Oppure, non si deve forse a un sentimento di appartenenza all’esercito, incarnato dal “militare” Badoglio, più forte dell’identificazione nel regime, simboleggiato dal quadrunviro De Bono? Non è possibile desumerlo con certezza da questo fondo, tuttavia alcune immagini lasciano trasparire l’orgoglio dell’appartenenza all’esercito: il soprannome con cui la propria divisione si autoidentificava (“I lupi” della Sila), riportato in una delle poco frequenti didascalie, il panorama di un’amba ricostruito con una gigantesca scritta inneggiante al re, e la generale assenza di messaggi ideologici espliciti.
Una “guerra pulita”
Le fotografie del reparto Luce AO, dunque, come si è detto, propagandano un’immagine “pulita” della guerra e dell’occupazione italiana. Per la costruzione di tale immaginario, il Luce AO non documenta alcuna delle atrocità italiane, né durante il conflitto, né durante gli anni successivi alla proclamazione dell’impero. Nonostante l’ampio impiego delle armi chimiche in Etiopia fino al 1939, non ne viene fotografato l’utilizzo né gli effetti, in virtù di una censura sulla fotografia coloniale da parte del regime fascista in vigore da prima dell’inizio del conflitto etiopico. Nel 1930 Graziani, che era in quel momento vice-governatore della Cirenaica, aveva diramato una circolare in cui si affermava che era assolutamente vietato riprendere fotografie di esecuzioni capitali, esigendo il massimo rispetto di tale ordine da tutte le autorità. E così pure per la guerra d’Etiopia.
Va da sé come l’intenzionalità politica sottesa a tale censura sia quella di evitare di minare l’immagine della pacificazione delle colonie, che il regime propaganda all’interno della società italiana. Nonostante ciò, lo sviluppo delle macchine fotografiche portatili, semplici e a basso costo, spingono i soldati ad acquistarle per fotografare i propri ricordi di guerra, riprendendo anche scene cruenti che iniziano a circolare tra le truppe. Se le atrocità commesse nei confronti degli etiopici e tanto meno nei confronti degli italiani non vengono mostrate in Italia, allo scopo di non turbare l’opinione pubblica, il regime tuttavia ben presto si appropria di queste immagini amatoriali, clandestine, e le utilizza per dar credito alla propaganda dell’intervento umanitario, per documentare la barbarie etiopica davanti alla Società delle Nazioni, come giustificazione dell’intervento italiano in nome della civiltà e del progresso.
Anche nel fondo Orando non troviamo rappresentazioni di scene cruente, né di massacri.
[…] Se si ritrovano nel fondo Orando immagini che cercano di contenere gli ampi orizzonti africani, non bisogna dimenticare la natura bellica della spedizione, per cui le innocenti e quasi turistiche immagini registrate, servivano a immortalare le tappe del percorso vittorioso del III corpo d’armata di cui faceva parte la divisione Sila: l’importante linea strategica del fiume Tacazzè, così come Macallè, dove le forze italiane sostarono a lungo, riorganizzate dalla mano di Badoglio, tornano un paio di volte, e degna di interesse è la foto del “castello di ras Gugsa”, come recita la didascalia.
Siamo nelle prime settimane della campagna, quelle della cauta penetrazione in Etiopia. Ras Gugsa era un dignitario locale che era passato armi e bagagli dalla parte degli italiani. L’evento, dal punto di vista militare poco significativo, era stato ampiamente sfruttato dalla propaganda del regime, che ne aveva ampliato l’eco sia in patria sia, evidentemente, tra le truppe. D’altronde l’avanzata iniziale fu troppo lenta agli occhi di Mussolini, che voleva una veloce parata trionfale fino ad Addis Abeba, e ogni minimo evento favorevole alle armi italiane fu quindi sfruttato fino in fondo. La foto alla base del ras è quindi un riconoscimento da parte di Orando alla defezione di Gugsa, e dimostra la presa sulla truppa delle amplificazioni degli eventi, al di là della loro portata reale, e secondo le linee volute dalla macchina propagandistica di Roma. Ma altri luoghi assumono un forte valore simbolico: l’Amba Aradam, arida montagna il cui nome sarebbe velocemente transitato nel linguaggio popolare italiano, fu al centro di una delle grandi battaglie campali con cui Badoglio, nei primi mesi del 1936, scardinò l’assetto difensivo avversario. Ai primi di febbraio, la I armata sulla sinistra e la III armata sulla destra aggirarono l’amba su cui era disposto uno dei più numerosi eserciti avversari, con l’obbiettivo di chiuderlo in una morsa e annientarlo. La manovra non riuscìappieno perché gli etiopi riuscirono a sfuggire all’accerchiamento, ma segnò comunque una importante vittoria per gli italiani, che eliminarono un fondamentale caposaldo della difesa avversaria, alle quale per di più inflissero gravissime perdite, aprendosi la strada per un’ulteriore avanzata verso occidente.
La “Sila” partecipò attivamente alle operazioni, inquadrata assieme alla divisione di camicie nere “23 marzo” e ad altre formazioni minori nel III corpo d’armata.
Alla luce di queste eventi, le foto di Orando acquistano un significato differente: non tanto quello del reportage di un ambiente affascinante, quanto piuttosto della testimonianza della propria presenza, attiva, in uno degli episodi miliari più importanti per la conquista dell’impero. Allo stesso modo, le immagini del Lago Ascianghi, prive di qualsiasi connotato militare e di segno che ricordi la guerra, sono invece testimonianza dell’ultima e decisiva battaglia, che attorno alla rive del lago vide, il 3 aprile 1936, l’inseguimento e il massacro delle truppe che, sotto gli occhi del negus, erano state duramente sconfitte da quelle italiane, nettamente superiori per mezzi e galvanizzate dalle precedenti vittorie, a Mau Ceu il 29-31 marzo. Era lo scontro finale. Di lì a un mese Badoglio sarebbe arrivato ad Addis Abeba e Mussolini avrebbe potuto proclamare il ritorno dell’Impero “sui colli fatali” di Roma.
Non si hanno tracce del passaggio nella capitale etiope di Orando, il cui reparto probabilmente si arrestò prima. Assieme alla maggioranza degli oltre quattrocentomila militari che avevano partecipato alla guerra, Gaetano Orando tornò presto in Italia, alla sua Quaderni e a una vita più tranquilla, sebbene alla vigilia della guerra mondiale venisse richiamato al proprio corpo. […]
Alberto Malfitano, Daniela Calanca, Italiani in Africa. Le fotografie di Gaetano Orando durante la campagna d’Etiopia 1935-1936, Storia e Futuro, Rivista di storia e storiografia, n. 10, febbraio 2005

[…] Rodolfo Graziani. Come ha osservato Angelo Del Boca, si trattò del “più sanguinario assassino del colonialismo italiano”: nel tentativo di piegare la resistenza abissina all’invasione italiana, in qualità di viceré d’Etiopia fino al novembre 1937, fece massacrare migliaia di civili, uomini, donne e bambini, con il massiccio ricorso ai gas, alle fucilazioni sommarie, alle impiccagioni. Famigerata fu la strage del convento di Debra Libanòs, ordinata dal vicerè ed eseguita dal generale Pietro Maletti, nella quale perirono, a leggere i telegrammi inviati da Graziani a Mussolini, circa 450 tra monaci copti e laici, sospettati di complicità con la resistenza etiope, <1 in seguito a un attentato che aveva ferito il viceré nel febbraio 1937. Tuttavia, secondo ricerche più recenti, in quell’occasione le vittime della rappresaglia furono tra 1400 e 2000. <2
1 Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi Acs), Fondo Graziani, I primi venti mesi dell’Impero, b. 56).
2 Ian Campbell e Degife Gabre – Tsadik, La repressione fascista in Etiopia: la ricostruzione del massacro di Debra Libanòs, in “Studi piacentini”, n. 21, 1997, p. 70-128.
Gino Candreva, Nazionalismo e comunismo di fronte alla Guerra d’Etiopia, História: Debates e Tendências – v. 13, n. 1, jan./jun. 2013, Universidade de Passo Fundo, Brasil

[…] nell’analizzare la declinazione storica che questo intervento fascista ha assunto per quanto concerne la peculiare attività di quello che è stato definito da Mino Argentieri “L’occhio del Regime”, ovvero l’Istituto Luce. <1
Così facendo la successiva analisi dell’attività di creazione delle rappresentazioni dell’impero fascista sarà meglio collocata in un contesto storico e politico che, pur non determinandone precisamente i contenuti, potrà aiutare ad individuare le traiettorie che le rappresentazioni assunsero al momento della loro creazione e diffusione. La visione eccessivamente deterministica del rapporto intercorso tra potere fascista e Istituto Luce che emerge dal lavoro di Argentieri e da altri lavori più o meno coevi sarà, in questa digressione storica sulle vicende del Luce, problematizzata: se nei capitoli precedenti si è cercato di sottolineare i vantaggi di un approccio post-strutturalista nello studio del rapporto tra cultura e potere, ora la ricostruzione storica svolta alla luce di originali ritrovamenti documentali potrà offrire una visione più esaustiva di quella che fu l’azione culturale dell’Istituto Luce, le cui dinamiche parrebbero rifletter la complessità delle relazioni tra istituzioni ed anime del fascismo nonché quella parte del processo di industrializzazione della cultura di massa che ha condizionato il percorso di definizione dell’identità nazionale. Stabilire e quantificare il portato dell’attività del Luce nel processo di costruzione dell’identità italiana è compito complesso, per questa ragione lo studio dei cinegiornali coloniali partirà ora da una panoramica su come il Luce sia stato concepito si sia collocato all’interno dello Stato fascista, unitamente alla ricognizione storica sulla nascita dello stesso operata attraverso l’esame di alcune originali fonti archivistiche che cercano di completare la ricostruzione delle vicende dell’Istituto.
Lavori ancora oggi fondamentali per conoscere la storia del Luce sono “L’occhio del regime” di Mino Argentieri e “Le stagioni dell’aquila” di Ernesto G. Laura, il primo pubblicato alla fine degli anni settanta e il secondo alla fine anni novanta: per profondità e solidità dell’analisi nonché per numero e importanza delle fonti impiegate i due lavori sono capisaldi irrinunciabili per una profonda conoscenza della struttura e dell’attività dell’Istituto durante il fascismo; nel prosieguo di questa ricerca si farà costante riferimento alle conclusioni tratte da questi lavori. Numerosi altri studiosi, storici, storici del cinema, sociologi, antropologi visuali hanno analizzato le vicende e la produzione dell’Istituto Luce durante il Ventennio. <2
Le recenti tendenze di analisi sulla storia dell’Istituto e sulla sua produzione cercano di andare oltre l’interpretazione di una sua semplice ed inequivocabile sottomissione alla volontà fascista, che avrebbe considerato il Luce come mero strumento esecutore di volontà politiche e di contenuti perfettamente allineati ai “diktat” dittatoriali: secondo questo approccio la ricostruzione della storia dell’Istituto deve senza dubbio collocarsi nella cornice istituzionale e concettuale della fabbrica del consenso fascista; tuttavia, per meglio comprendere le dinamiche culturali e le scelte produttive, è necessario fare uno sforzo per ampliare il contesto entro il quale l’Istituto operò, considerando il
fatto che esso si inserì in un panorama cinematografico e industriale preesistente, e in delle dinamiche sociali e culturali che il fascismo non controllò in maniera assoluta: in questo modo si potranno considerare non solo le esigenze politiche ma anche quelle commerciali che sovrintendevano all’azione propagandistica e che si cercherà di porre in rilievo nel corso di questo lavoro. <3
[NOTE]
1 Cfr. M. Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Vallecchi, Firenze 1979.
2 Di seguito un’elencazione cronologica di quei lavori di notevole rilievo che indagano sulla storia dell’Istituto Luce durante il fascismo: G. P. Brunetta, Cinema italiano fra le due guerre. Fascismo e politica cinematografica, Mursia, Milano, 1975; P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Roma 1975; Mino Argentieri, L’occhio del regime, op. cit.; M. Cardillo, Il duce in moviola: politica e divismo nei cinegiornali e documentari del Luce; Dedalo, Bari 1983; G. Bernagozzi, Il mito dell’immagine, Clueb, Bologna, 1983; G. Bernagozzi, Il cinema allo specchio. Appunti per una storia del documentario, Pàtron, Bologna 1985; J. Hay, Popular Film Culture in Fascist Italy. The Passing of the Rex, Indiana University Press, Bloomington 1987; M. Argentieri (a cura di), Schermi di guerra: Cinema italiano, 1939-1945, Bulzoni, Roma 1995; E. G. Laura, Le stagioni dell’aquila. Storia dell’Istituto Luce, c; G. D’Autilia, Istituto Luce, in (a cura di) V. De Grazia, S. Luzzato Dizionario del fascismo, Einaudi, Torino 2002; Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascsita 1922-1945, op. cit.; M. Bertozzi, Storia del documentario italiano, Marsilio, Venezia 2008. A questi volumi si potrebbero aggiungere i numerosissimi sono gli articoli, i saggi e le pubblicazioni in generale che analizzano uno o più aspetti specifici dell’attività e della produzione dell’Istituto stesso.
3 Cfr. P. Erbaggio, Istituto Nazionale Luce: A National Company with an International Reach, in (a cura di) G. Bertellini, Italian Silent Cinema: A Reader, John Libbey, Londra 2013, 221-231; F. Caprotti, Information management and fascist identity. Newsreels in fascist Italy, in Media History, vol. 11, n. 3, 2005, pp. 177-191.
Gianmarco Mancosu, La ‘Luce’ per l’Impero. I cinegiornali sull’Africa Orientale Italiana 1935-1942, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Cagliari, Anno accademico 2013/2014

Il compito del Luce in Africa fu quello di ricondurre all’ordine del visibile gli esiti della conquista e della successiva colonizzazione come processo apparentemente unitario e totalitario, una varietà di fenomeni disseminati nello spazio e nel tempo, impossibili da catturare con uno sguardo d’insieme. Se nella produzione bellica a stabilire il principio di unità fu la dimensione propriamente estetica, nella produzione imperiale fu invece quella ideologica. Una comparabile ricerca di un principio di unità, d’altronde, caratterizzò pure i cinegiornali africani, i quali, pur limitandosi alla pura cronaca di singoli avvenimenti o anche delle singole manifestazioni della colonizzazione <239, volsero la propria attenzione a processi dalla portata ideologica più ampia e ne sottolinearono la compiutezza in rapporto all’Impero, come ha recentemente dimostrato Gianmarco Mancosu. <240
Il documentario imperiale si resse su quella che Luigi Goglia e Fabio Grassi hanno ritenuto essere le “componenti più radicali dell’imperialismo coloniale adottate a propria divisa dagli imperialisti fascisti” <241: il dominio diretto, il razzismo e la colonizzazione demografica. A differenza dei cinegiornali il documentario non illustrò i tre temi tramite le realizzazioni concrete del regime in Africa, più o meno gonfiate per esigenza di propaganda, ma li sublimò in tre categorie dalle connotazioni mistiche più accessibili al pubblico italiano, abituato come era a quel tipo di retorica: la disciplina fascista, la superiorità razziale e l’epopea del lavoro.
[NOTE]
239 A titolo di esempio, per il primo gruppo cfr. “La costruzione di un ponte ferroviario sul fiume Basca” (16 settembre 1936) , “L’inaugurazione della scuola indigena che affianca la residenza di Gondar” (17 febbraio 1937), “L’inaugurazione della strada che conduce da Uolchefit a Debivar” (30 giugno 1937); per il secondo cfr. “L’assistenza sanitaria agli indigeni” (20 maggio 1936), “L’opera assistenziale dell’Italia per l’infanzia di Addis Abeba” (14 ottobre 1936), “Le arterie fondamentali dell’Africa” (14 aprile 1937), “I mercati” (13 luglio 1938), “Addis Abeba. Le scuole elementari” (28 giugno 1939).
240 Cfr. Gianmarco Mancosu, Il Luce per l’Impero, cit., pp. 253-340.
241 Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Bari 1981, p. 210.
Giuseppe Fidotta, Un Impero cinematografico – Il documentario in Africa Orientale Italiana (1935-1941), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Udine, Anno Accademico 2014/15