Come è emerso nella prima parte, all’alba della Guerra dei sei giorni, l’industria italiana della raffinazione si presentava come un comparto industriale in pieno sviluppo, come un settore che si era lasciato alle spalle la crisi italiana della prima metà del decennio. Il conflitto mediorientale ne testò, almeno parzialmente, le performances.
Senza dilungarsi sulle vicende militari e politiche relative alla guerra arabo-israeliana del 1967, ai fini della trattazione basteràa ricordare quelli che furono i due esiti principali: l’embargo nei confronti dei paesi amici di Israele e la chiusura del canale di Suez fino al 1975. L’embargo fu il primo tentativo di utilizzo politico cosciente dell’arma petrolifera di cui i paesi arabi parlavano da anni: Arabia Saudita, Libia, Iraq, Kuwait e Algeria sospesero le spedizioni verso gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e, seppur in misura minore, verso la Germania Occidentale <619.
Non essendo tra i paesi sotto embargo, l’Italia non risentì della manovra; fu invece la chiusura del canale di Suez che, come nel caso del 1956, ebbe delle conseguenze sulle importazioni italiane di greggio.
La chiusura non significò comunque per l’Italia un’eccessiva riduzione immediata dell’importazione dai paesi del Golfo; in particolare, le quantità di greggio importate dall’Arabia e dall’Iran (vedi Tabella 4.1) diminuirono relativamente poco e vennero in parte rimpiazzate da un aumento delle importazioni dai paesi nordafricani.
Al di là di tali mutamenti, le due principali conseguenze della Guerra dei sei giorni sulla raffinazione italiana furono altre: da un lato l’aumento del costo dei noli, dall’altro la perdita di una parte di quella centralità geografica di cui le raffinerie costiere dedite al terzismo avevano goduto fino ad allora <620. Se in risposta al primo risultato, come si vedrà, sarebbero nuovamente stati messi in gioco dei contributi nazionali per limitare gli oneri gravanti sulle aziende, la seconda conseguenza continuò a gravare sul comparto italiano almeno fino alla riapertura del canale di Suez nel 1976; nel frattempo, infatti, le multinazionali petrolifere, almeno nei casi in cui non ricorsero all’utilizzo degli oleodotti nordafricani e optarono per la circumnavigazione dell’Africa, diressero parte delle loro lavorazioni alle raffinerie dell’Europa nord-occidentale <621.
La questione non passò ovviamente inosservata agli occhi dell’Unione petrolifera che già durante l’assemblea del 1969 offrì la propria posizione in materia: “La intransitabilitàa del Canale ha fatto perdere quel vantaggio di posizione
che il nostro Paese aveva nel quadro degli approvvigionamenti di petrolio dell’area mediorientale e sul quale l’industria italiana aveva potuto iniziare e sviluppare una attività di lavorazioni per conto di committenti esteri e di esportazione diretta. Si tratta d’una attività che ha assunto una posizione primaria nell’ambito comunitario, che interessa più d’un terzo dell’intera produzione delle raffinerie nazionali e che contribuisce, da una parte, ad alleggerire l’onere valutario degli approvvigionamenti, e dall’altra a correggere lo squilibrio che esiste, per singoli prodotti, tra disponibilità e utilizzazioni interne” <622.
Come si è accennato, la raffinazione italiana si era nel tempo strutturata in modo tale da indirizzare verso l’esportazione almeno una parte di quei derivati che non trovavano ancora sbocco in Italia, ma che comunque venivano prodotti durante le lavorazioni volte ad ottenere olio combustibile. Fu proprio questo l’equilibrio che l’Unione petrolifera vide maggiormente minacciato dal cambiamento delle rotte indotto dalla chiusura del Canale. In risposta a tale rischio gli industriali colsero l’occasione per rilanciare il tema dell’ammodernamento delle strutture portuali; proposero infatti una soluzione parziale incentrata sullo sviluppo dei porti tale da permettere l’attracco di petroliere dalla sempre maggior portata e, quindi, in grado di rendere conveniente la sosta in Italia nonostante il maggior tragitto percorso.
“Il mutamento della situazione, derivando da eventi internazionali, non può essere certo modificata con i nostri soli mezzi; può però e deve essere corretto, entro determinati limiti, indipendentemente dalle ipotesi che potranno presentarsi per il ripristino – nelle condizioni preesistenti o in altre – del traffico lungo la rotta di Suez. La necessità di adeguare le strutture portuali e l’efficienza degli scali petroliferi al progresso tecnico delle costruzioni navali, venne già posta in evidenza in questa sede tre anni or sono. Gli avvenimenti sono venuti a riproporla in termini di massimo rilievo e urgenza. […] La soluzione che si impone – per concorrere alla politica del basso costo, all’alleggerimento dell’esborso valutario, al mantenimento delle posizioni acquisite nelle correnti di esportazione – è di rendere possibile l’utilizzazione delle navi cisterna di dimensioni atte a realizzare un’economia d’esercizio tale da poter trasportare il petrolio dal Golfo Persico all’Europa seguendo la rotta del Capo di Buona Speranza, ad un costo unitario eguale – o addirittura inferiore – a quello che le navi cisterna di portata adatta al transito del Canale di Suez incontravano seguendo tale via” <623.
In questo modo l’Unione pensò di poter garantire all’industria di raffinazione nazionale il mantenimento di quel ruolo comunitario che l’aveva portata a diventare effettivamente, seppur limitatamente ad alcuni prodotti, la “raffineria d’Europa”. Nessuno degli ostacoli che la Guerra dei sei giorni pose alla raffinazione italiana fu comunque in grado di rallentarne l’attività. Nel 1968 l’industria in oggetto aveva ormai raggiunto una capacità di lavorazione annua tecnico-bilanciata di poco meno di 150 milioni di tonnellate.
Nonostante alcune raffinerie avessero realizzato una capacità maggiore di quella concessa, perseverando nella pratica individuata nella prima parte della presente ricerca, la capacità di lavorazione totale effettiva risultava ancora inferiore rispetto a quella concessa.
Nel 1968 tale capacità servì a lavorare greggio che, come si è visto, continuava a provenire in buona parte dai paesi del Golfo; la tabella A.1 mostra nel dettaglio l’origine del greggio lavorato dalle singole raffinerie. Da questa fotografia emerge chiaramente che buona parte di quelle che in tabella appaiono come committenze in realtà non lo sono. Se si prendono ad esempio la raffineria Mediterranea e la Irom, ogni volta che si parla di importazioni per conto di imprese come la Sarom, la Bp e l’Agip, in realtà si sta parlando di imprese diverse da quelle che gestiscono direttamente le raffinerie, ma che sono proprietarie di una parte o della totalità del suo capitale sociale. Nonostante ciò, rimane evidente la vocazione terzista propria di alcune imprese come la Erg e la Saras che l’Up intendeva difendere.
Il veloce evolversi della situazione rende poco utile l’utilizzo di “fotografie” come quella appena descritta. Non essendosi ancora esaurito il ciclo di sviluppo dell’industria in questione, tale situazione era infatti destinata a cambiare negli anni successivi.
[NOTE]
619 Yergin, Il premio cit., p. 458.
620 Frusciante, Le vie del gas, L’Italia e le politiche energetiche dell’Ue, storia e problemi cit., p. 24.
621 Labbate, Il governo dell’energia. L’Italia dal petrolio al nucleare (1945–1975) cit., p. 121.
622 UP, Relazioni del consiglio direttivo alla assemblea generale, Atti dell’assemblea generale del 12 giugno 1969.
623 UP, Relazioni del consiglio direttivo alla assemblea generale, Atti dell’assemblea generale del 12 giugno 1969.
William Mazzaferro, Gli anni d’oro della “raffineria d’Europa”. La raffinazione petrolifera italiana tra storia d’industria e storia sindacale (1956-1973), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2018-2019