Gap e Sap finiranno in molti casi di coincidere ed anche di fondersi

I Gruppi di azione patriottica (Gap) nacquero, come diretta emanazione del Pci, dopo gli scioperi del marzo 1943. La linea politica del Partito comunista subì da quel momento una netta accelerata in direzione della lotta armata contro il fascismo e non è un caso che la prima circolare in cui compare il termine Gap, emanata dalla Direzione nord del Pci e indirizzata a tutti i responsabili di federazione, risalga al maggio 1943: il primo compito dei comunisti era quello di dare il via alla lotta armata attraverso piccoli nuclei di arditi che dovevano fungere da sprone alla lotta di massa, sulla scorta dell’esperienza francese dei Franc tireurs et partisans (Ftp) <1. Il richiamo diretto a questa esperienza è dovuto non solo al fatto che molti militanti italiani, inquadrati nella specifica sezione della Main d’Oeuvre immigrée (Moi), diedero un fondamentale contributo alla formazione dei Ftp, ma anche al fatto che, quello francese, era stato l’unico antecedente di guerriglia messo in scena dai comunisti all’interno delle città e dei centri industriali <2.
Nonostante gli sforzi della Direzione nord, la messa in pratica delle direttive fu successiva alla caduta del fascismo e alla rotta dell’esercito. Solo nell’agosto-settembre del 1943 alcuni dei migliori militanti italiani, esuli in Francia, vennero fatti rientrare con lo scopo di dare efficacia alla struttura clandestina che si andava lentamente consolidando: tra loro ricoprì un ruolo fondamentale e preziosissimo Ilio Barontini (Dario) che, nella fase iniziale, compì un vorticoso viaggio nelle città del nord Italia con l’obiettivo di armare ed istruire i primi nuclei di gappisti.
La presenza di rivoluzionari di professione come Barontini, sui quali solo il Pci poteva contare, fu determinante nella cesura che determinò il passaggio da un antifascismo sostanzialmente legalitario ad un antifascismo disposto non solo a praticare la lotta armata ma soprattutto ad accettare la sfida del terrorismo urbano <3.
Lo scopo di queste formazioni era infatti duplice: quello di colpire i nazifascisti laddove si sentivano più forti e sicuri per minare questa convinzione di sicurezza, e quello di combattere “l’attesismo” dei partiti moderati, dimostrando che l’unica strada da imboccare per sconfiggere definitivamente il nazifascismo era quella della lotta armata.
Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune line di ricerca in Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici – Rivista di storia contemporanea, 3 (2015)

«Una distrazione storiografica su uno dei temi centrali della lotta resistenziale» così Luigi Borgomaneri ha definito la scarsa attenzione dedicata ai GAP (Gruppi di Azione Patriottica) fino a tempi molto recenti.
I GAP, o meglio i «gappismi» come Borgomaneri tiene a sottolineare per rendere conto delle tante diversità che si riconoscevano in quell’unica sigla, sono stati oggetto di un incontro di approfondimento all’Istituto di Storia Contemporanea, nel quadro del percorso di avvicinamento al 70° della Liberazione. Cosa sono i GAP? Una sorta di “corpi scelti” della lotta armate resistenziale, basati sul modello francese dei Francs-Tireurs partisans, voluti dal Partito Comunista per l’esecuzione di azioni particolari di grande rischio, come l’eliminazione di personaggi autorevoli del regime fascista e attentati ai luoghi più rischiosi. Con una prospettiva più ampia, i GAP avevano la funzione di creare le condizioni per sviluppare la lotta di liberazione di massa e di spezzare la pace sociale, così da creare difficoltà allo sforzo industriale bellico tedesco (che per circa il 10-12% faceva leva sul contributo italiano), avevano cioè una funzione di «detonatore». Ma proprio in questa loro funzione risiede, secondo Borgomaneri, il loro carattere «scomodo», che li ha condannati al parziale oblio. Le loro azioni, basate sulla «violenza di piccoli gruppi» e sulla separatezza rispetto alla gente e persino agli altri gruppi partigiani, apparivano agli occhi della storiografia “ufficiale” della Resistenza inconciliabili con l’unità di popolo e con la “nobiltà” degli obbiettivi. Eppure Pietro Secchia, all’inizio della lotta di liberazione, aveva chiaro la portata del problema, e nell’autunno del 1943 scriveva: «siamo costretti ad applicare metodi che fino a ieri avremmo ritenuto ripugnanti», cioè usare i metodi del terrorismo.
Il quadro delineato da Borgomaneri è un quadro estremamente articolato, reso ancor più complicato dalla diversità dei singoli GAP, sia per composizione sia per organizzazione, e dalla rimozione, quando non proprio dalla distruzione, dei documenti necessari alla ricostruzione delle vicende. Molte delle questioni si riescono a intuire sulla base di scarsi indizi, ma sfuggono le reali proporzioni dei diversi problemi. Per questo, cioè per cominciare a orientarsi in questo quadro, che ha molteplici agganci con la situazione comasca, l’Istituto ha organizzato l’incontro con Borgomaneri, invitandolo ad anticipare le sue ricerche che a breve verranno pubblicate in un volume dedicato proprio ai «gappismi».
Quasi senza soluzione di continuità, Borgomaneri ha poi presentato il suo ultimo libro “Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino. Storie di antifascismi”. È stato Gabriele Fontana ad aprire la presentazione elogiandone il merito:« Un libro di storia che racconta storie, ma che permette alla fantasia del lettore di andare oltre», continuando: «È come un romanzo dove non si perde mai il filo del discorso». Borgomaneri racconta le motivazioni che lo hanno spinto a ricercare e scrivere la storia dei due personaggi: Carlo Travaglini e Lamberto Caenazzo. Fu proprio quest’ultimo che, all’Istituto di Sesto San Giovanni, iniziò a ricercare materiale sull’89a brigata: lui, che era stato partigiano del Giambellino, ricordava il suo comandante di distaccamento come un diavolo scatenato: una figura non nota alla storiografia resistenziale. Intellettuale di origine tedesca, espulso dalla Germania dopo essere stato internato in un lager, arrivò a Milano, dove aiutò ebrei e operai fino a quando, costretto ad allontanarsi dal capoluogo, entrò a far parte della brigata lecchese. La testimonianza di Lamberto viene accolta, in un primo momento, con diffidenza, data la scarsa fama della brigata; ma Travaglini, che non ha mai rivendicato nulla nel dopoguerra, aveva conservato tutti i documenti che dimostravano il suo operato; che li abbia tenuti per sé o per le figlie poco importa, sono documenti inediti, ricchi di testimonianze, e ci si interroga sul perché nessuno dei protagonisti della Resistenza ne abbia parlato.
Quello che emerge è una figura scomoda, in grado di rispondere solo alla propria coscienza, che resta ai margini della vita dei partiti politici. Questi protagonisti rappresentano lo spaccato di figure comuni.
Redazione, Gappismi, resistenze e protagonisti dell’antifascismo, arci ecoinformazioni, 2 aprile 2014

Fonte: Archivi della Resistenza, progetto della Fondazione Gramsci
Fonte: Archivi della Resistenza, progetto della Fondazione Gramsci
Fonte: Fondazione Gramsci

Il primo documento in cui si parla in modo esplicito dei Gruppi di azione patriottica è una lettera che Antonio Roasio <1, rientrato nel gennaio 1943 in Italia dalla Francia come uno dei tre responsabili del centro interno del Partito comunista e stabilitosi a Bologna con l’incarico di dirigere le organizzazioni clandestine dell’Emilia, del Veneto e della Toscana, invia alle organizzazioni regionali del partito alla fine di aprile:”Perciò verso la fine dell’aprile 1943 venni incaricato dal centro di preparare una lettera da inviare a tutte le nostre organizzazioni in cui si poneva la necessità di attrezzare i militanti alla lotta armata a mezzo dell’organizzazione di Gruppi di azione patriottica, GAP, capaci di condurre azioni di sabotaggio delle attrezzature militari e contro i massimi dirigenti del partito fascista. […] La struttura organizzativa dei gruppi armati doveva essere semplice, di gruppi di tre combattenti, i più audaci; bisognava che si procurassero le armi e incominciassero a prendere pratica con azioni dapprima più facili fino a quelle contro i dirigenti del regime. L’organizzazione militare doveva essere separata da quella del partito, tra i combattenti si doveva instaurare una disciplina rigida e solida, gli uomini dovevano essere preparati a tutti i rischi e quindi dotati di un alto spirito di sacrificio. La struttura dei GAP rifletteva grosso modo quella dei FTP in Francia, di cui facevano già parte numerosi nostri compagni. Nella circolare non si parlava ancora di organizzare un movimento partigiano che dovesse agire in montagna, anche se questa forma di lotta non veniva scartata”. <2
Nell’immediato, la missiva di Roasio non produce effetti, «la lotta armata rimase un desiderio» <3, eccezion fatta per la creazione di piccoli nuclei partigiani in Friuli.
È il cambiamento di scenario, provocato l’8 settembre 1943 dall’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile, firmato cinque giorni prima, tra Regno d’Italia e anglo-americani, a porre l’esigenza di organizzare concretamente una resistenza armata. La cessazione delle ostilità, comunicata da Pietro Badoglio, nominato nuovo presidente del Consiglio dal re Vittorio Emanuele III in seguito alla destituzione e all’arresto di Benito Mussolini, avvenuti tra 24 e 25 luglio 19437, lascia l’Italia nel caos. A creare ancora maggior confusione nella popolazione e, soprattutto, nell’esercito italiano, rimasto privo di ordini, è la decisione presa dal re, da Badoglio e dagli altri membri del governo di abbandonare Roma e fuggire a Brindisi, già in mano alle truppe alleate.
[…] È nel contesto appena delineato che, a Milano, il PCI, prima in una riunione tenuta il 20 settembre 1943 in via Lulli 30 nell’abitazione dei coniugi Morini, poi in una seconda svoltasi pochi giorni dopo in viale Monza 23 presso la famiglia Mazzola, costituisce il Comando generale delle brigate Garibaldi, di cui Luigi Longo è comandante e Pietro Secchia commissario politico, e, in concomitanza, istituisce i Gruppi di azione patriottica <15.
1.2 Le finalità del PCI
I Gap sono «nuclei partigiani creati per la guerriglia urbana» <16. Essi rappresentano la struttura operativa cui il PCI si affida per far detonare la lotta armata in città, in attesa che si consolidino le brigate Garibaldi <17, la cui gestazione è necessariamente più lunga, in quanto si tratta di aggregare, disciplinare e coordinare il crescente flusso verso la montagna di uomini, tra cui soldati sbandati e giovani renitenti alla leva imposta dalla neonata RSI.
Alle iniziative gappiste è, quindi, demandato il compito di «scendere immediatamente sul terreno della lotta armata» <18, così da dimostrare che il dominio dell’occupante tedesco e fascista sulle città non è affatto incontrastato, e da evidenziarne la precarietà. Gli esempi concreti di lotta da parte di questa avanguardia coraggiosa e disposta al sacrificio devono servire, nelle intenzioni del Partito comunista, a «trasformare la presente passività delle masse in una combattività dispiegata» <19.
[NOTE]
1 Antonio Roasio (1902-1986). Fu socialista, poi comunista. Frequentò la scuola leninista in Unione Sovietica. Fu in Spagna nel 1936. Rientrato in Italia nel gennaio 1943, entrò a far parte del Comando generale delle brigate Garibaldi.
Nel 1944 divenne responsabile del Triumvirato Insurrezionale della Toscana fino alla liberazione di Firenze, in AA. VV., Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza (d’ora in poi Ear), vol. V, La Pietra, Milano 1987, pp. 206-207.
2 Antonio Roasio, Figlio della classe operaia, Vangelista, Milano 1977, p. 206.
3 Ivi.
15 Francesco Scotti, La nascita delle formazioni, in Comitato per le celebrazioni del XX anniversario della Resistenza (a cura di), La resistenza in Lombardia. Lezioni tenute nella Sala dei Congressi della Provincia di Milano (febbraio-aprile 1965), Labor, Milano 1965, pp. 65-66.
16 Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi, Torino 2001, p. 209.
17 Le brigate Garibaldi furono formazioni armate, organizzate dal PCI, aventi il compito di essere il nerbo dell’esercito partigiano, attestato soprattutto sulle montagne. Le prime bande sorsero in Friuli e in Piemonte. Dal punto di vista della struttura, una brigata era formata da 4-5 distaccamenti, a loro volta articolati in 4-5 squadre ciascuno. Il comandante di brigata doveva curare la preparazione militare della formazione e la realizzazione delle operazioni; il commissario si doveva occupare della preparazione politica della brigata, del morale degli uomini, della disciplina e dei rapporti con la popolazione.
18 Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, p. 250.
19 Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, Torino 2014, p. 17.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea magistrale, Università di Pisa, 2019 

Nei primi mesi del 1943, grazie alla scoperta di una nuova via illegale per entrare in Italia attraverso le Alpi, fu possibile realizzare l’obiettivo posto da Togliatti: creare un centro interno in Italia. Nel gennaio 43 passarono tramite questa via importanti dirigenti quali Negarville, Roasio e nell’aprile Novella e Amendola. Anche ad alcuni di questi primi resistenti parigini il PCd’I chiese di tornare in Italia. Lupieri sarebbe rientrato subito dopo il 25 luglio 1943 in Italia, dove diventò il comandante di alcuni GAP della zona di Pesaro; Cavazzini rientrò in Italia all’indomani del 25 luglio 1943, prese parte alla resistenza e sarebbe diventato futuro deputato per il PCI all’indomani della Liberazione; Nedo nell’ottobre del 1943 fu spedito in Italia a organizzare i GAP, sarebbe stato ucciso il 24 febbraio 1944 durante uno scontro con i fascisti mentre era al comando della Divisione “Garibaldi-Biella” nella zona di Vercelli; il Martini insieme alla moglie avrebbe continuato a Parigi a lottare contro l’occupante fino alla liberazione della capitale lavorando per la MOI, per il CILN e avrebbe organizzato nel 1944 la “Milice patriotique” della zona sud di Parigi.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013

I Gruppi di azione patriottica (Gap) nacquero, come diretta emanazione del Pci, dopo gli scioperi del marzo 1943. La linea politica del Partito comunista subì da quel momento una netta accelerata in direzione della lotta armata contro il fascismo e non è un caso che la prima circolare in cui compare il termine Gap, emanata dalla Direzione nord del Pci e indirizzata a tutti i responsabili di federazione, risalga al maggio 1943: il primo compito dei comunisti era quello di dare il via alla lotta armata attraverso piccoli nuclei di arditi che dovevano fungere da sprone alla lotta di massa, sulla scorta dell’esperienza francese dei Franc tireurs et partisans (Ftp). […]

La struttura e le azioni gappiste si evolsero anche grazie all’entrata in scena delle Squadre di azione patriottica (Sap). Le Sap furono teorizzate da Italo Busetto (Franco), nel giugno-luglio 1944: dopo lo sciopero del marzo 1944 si convinse che l’impostazione data alle squadre di difesa di fabbrica frenassero lo sviluppo della lotta armata e ritenne che queste squadre dovessero essere messe alle dipendenze di un comando svincolato dalle fabbriche e dai paesi per raggiungere l’unità di direzione e di coordinamento tattico e strategico.
La sua relazione, di cui non abbiamo traccia, venne condivisa da Luigi Longo che si dimostrò entusiasta della creazione delle Sap così come teorizzate da Busetto.
La differenza tra i Gap e le Sap non risiedeva solo nel fatto che i sappisti erano regolari di giorno e svolgevano azioni di sabotaggio, propaganda ed appoggio alla lotta partigiana di notte, ma anche nel fatto che le Sap non venivano concepite come formazioni di Partito ed il reclutamento non era vincolato all’appartenenza politica.
La prima notizia di questo tipo di formazione la troviamo in una direttiva rivolta a tutti i comandi generali e a tutte le formazioni del giugno-luglio 1944 da parte del comando generale dell’Italia occupata: l’afflusso di nuove reclute non deve diventare un peso per le unità partigiane che devono essere ben formate nella lotta. Gli uomini devono essere inseriti progressivamente nella lotta, anche per quanto riguarda l’armamento.
Devono prima essere fidelizzati. La massa di renitenti alla leva NON può e non deve essere tutta reclutata nelle file partigiane perché questo appesantirebbe le formazioni.
Sceglieranno sistemazioni di fortuna vicino a centri rurali, ma questa massa di uomini non va assolutamente lasciata a se stessa.
Affiancherà la lotta in altro modo, con azioni di appoggio.
Non devono per forza fare la vita dei partigiani ma possono lavorare e a lato fare azioni di disarmo e sabotaggio.
In una circolare successiva datata 7 agosto 1944 venivano date direttive precise in merito al ruolo ed alle caratteristiche delle Sap.
Al punto quattro veniva esplicitato:
il Comitato militare del Cdln provinciale ha come compito essenziale quello di preparare concretamente l’insurrezione nazionale nei centri urbani e rurali delle provincie.
Esso deve quindi passare immediatamente all’organizzazione delle Squadre di azione patriottica (Sap) di operai e contadini e di selezionare fra di esse squadre scelte che dovranno subito iniziare l’opera insurrezionale.
Saranno queste le Sap, le cui imprese di sabotaggio, disturbo, ricupero armi e materiale, epurazione delle spie e dei caporioni fascisti avranno un effetto importante ed immediato militare e politico.
Il compito principale delle Sap era quello di preparare l’insurrezione allargando il più possibile il fronte della lotta e del coinvolgimento popolare, in ottemperanza a quanto richiesto da Palmiro Togliatti (Ercoli) nell’appello “a tutti i compagni”, lanciato il 6 giugno del 1944, dove esortava l’intero Partito a ricordarsi che la guerra condotta era in primo luogo una guerra di liberazione dal fascismo e non aveva come scopo la trasformazione in senso socialista della società.
I Gap e le Sap, che mantennero generalmente comandi separati, cominciarono a partire dall’estate del 1944, a collaborare sempre più strettamente, sino – in alcuni casi – a confondersi.
Soprattutto in Emilia si scatenò una sorta di competizione tra le due formazioni, tanto da generare una discussione tra due massimi dirigenti del Pci, Secchia (Vineis) e Amendola (Palmieri).

Da sinistra: Luigi Longo, Pietro Secchia e Giorgio Amendola – Fonte: Fondazione Gramsci

In una lettera alla Direzione nord del Pci del 28 agosto 1944 Amendola descriveva «la concorrenza che si sta sviluppando, con le solite conseguenze di incidenti, attriti, lotte per i quadri migliori ed i migliori elementi».
La risposta non si fece attendere e Secchia, a stretto giro di posta, rispose così il 1 settembre:
< Carissimo Palmieri, […] Il problema dei rapporti tra Gap e Sap e della tendenza alla concorrenza non ci deve allarmare. È evidente che sviluppandosi ed addestrandosi all’azione le Sap tenderanno a fare le stesse cose che fanno i Gap. Che c’è di male in questo? È anche evidente che nella misura che la lotta si sviluppa i Gap da piccoli sparuti gruppetti si allargheranno sempre di più perché un maggior numero di elementi decisi entreranno a fare parte dei Gap e di conseguenza i Gap tenderanno proprio a trasformarsi in Sap. In fondo qual è la differenza tra i Gap e le Sap? La differenza sta nel fatto che i primi sono dei “professionali”, gli altri invece sono elementi che hanno generalmente un’occupazione e che le azioni le fanno solo a “tempo libero” >.
Ma più la situazione si sviluppa e più i Gap gonfiandosi tenderanno a diventare un’organizzazione di massa, a loro volta molte Sap dovranno abbandonare il lavoro in seguito alle razzie, in seguito alle loro azioni e per tanti altri motivi, diventeranno cioè dei professionali.
Gap e Sap finiranno in molti casi di coincidere ed anche di fondersi.
Nella tarda estate del 1944 si riteneva che l’insurrezione popolare fosse imminente e che l’avanzata degli alleati non fosse più prorogabile, tanto da ipotizzare, da parte di Secchia, una “sappizzazione” dei Gap in modo che potessero svolgere azioni di appoggio all’insurrezione ed allentare le misure cospirative. Visti l’arresto dell’avanzata alleata e l’impossibilità per i patrioti di combattere una battaglia a viso aperto è forse più rispondente al vero l’ipotesi della “gappizzazione” delle Sap che dovettero, con mezzi e norme cospirative sempre più simili a quelli gappisti, alzare il livello dello scontro.
L’esempio più evidente in questo senso è la 106ª Brigata Sap diretta da Giovanni Pesce che, trasferito in Valle Olona per misure cautelative dopo le delazioni di Arconati, diede un’impronta gappista alla Brigata.
A Reggio Emilia, ad esempio, gli sforzi compiuti per il rafforzamento delle Sap diedero presto i frutti sperati, tanto che dovette intervenire il comando Sap, a fine ottobre 1944, precisando che erano i Gap gli elementi di punta: “Dal risultato di vari sopralluoghi compiuti nelle zone Sap in seguito a divergenze sorte nel corso di qualche azione eseguita da Sap e Gap si ritiene definire i rapporti tra i due organismi militari che operano in pianura.
Pertanto si stabilisce:
1) Nelle azioni ove i Gap chiedono l’intervento e l’aiuto delle Sap la direzione dell’azione stessa è affidata al comandante dei Gap presenti.
2) Nelle azioni ove i Sap chiedono l’aiuto e l’intervento dei Gap la direzione delle azioni è affidata al comandante del settore e squadra Sap.
Rimane inteso e logico che in tutti i casi essendo i Gap elementi di punta e più esperti è necessario che il comandante l’azione si consigli circa il modo migliore con il responsabile dei Gap partecipanti all’azione stessa
“.
Se, anche da questo punto di vista, il caso emiliano fu del tutto eccezionale, la sovrapposizione di compiti e la confusione di ruoli tra Gap e Sap fu comunque una tendenza generale fino alla liberazione.
Con l’avvicinarsi dell’inverno e l’arresto dell’avanzata alleata dopo il proclama Alexander, anche le azioni gappiste persero il carattere di fulminea sorpresa per inserirsi in un quadro sempre più coordinato non solo con le Sap, ma anche con le formazioni di montagna: oltre alla soppressione delle spie, dei delatori e dei gerarchi venne intensificato il controllo delle vie di comunicazione attraverso un massiccio attacco agli automezzi tedeschi: sabotaggio di linee ferroviarie, sparatorie contro mezzi militari provenienti dalla montagna, attacco ai tralicci dell’alta tensione. […]

Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca, in «Percorsi Storici», 3 (2015) [www.percorsistorici.it]

Fonte: Santo Peli, art. cit. infra

In questa fase iniziale le azioni più rilevanti furono in realtà quelle compiute dai Gap cittadini che, muovendosi in contesto urbano, riuscirono a ottenere grande visibilità, dimostrandosi capaci di eliminare squadristi e spie, compiere sabotaggi e sostenere lo sciopero dei tranvieri di Genova del novembre 1943 <112; le prime squadre cittadine alimentarono la percezione che il loro operato avesse alle spalle una ben più diffusa ed efficace organizzazione <113.
A queste prime azioni rispose, inesorabile, la repressione fascista: il primo episodio degno di nota fu la condanna a morte di otto prigionieri politici, il 14 gennaio 1944, su ordine del prefetto della Provincia Carlo Emanuele Basile <114.
[NOTE]
112 Su questo sciopero, il primo verificatosi dopo l’8 settembre, cfr. E. Capelli, F. Gimelli, M. Pedemonte, Trasporto pubblico a Genova fra cronaca e storia, De Ferrari, Genova, 1991, pp. 143-148; G. Bruschi, M. Pedemonte, Antifascismo e Resistenza dei tranvieri genovesi, ATA, Genova, 2005, pp. 10-21. Di lì a breve, in dicembre, anche l’antifascismo operaio iniziò a organizzarsi nelle fabbriche del ponente cittadino (cfr. P. Arvati, Organizzazione antifascista e lotta sindacale nella Resistenza, in “Storia e memoria”, n. 2, 2004, pp. 367-379).
113 Per una visione d’insieme si rimanda a S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino, 2004, pp. 249-268; dello stesso autore Storie di Gap: terrorismo urbano e resistenza, Einaudi, Torino, 2014. Per quanto riguarda il caso genovese F. Gimelli, La Resistenza armata, in Tonizzi, Battifora (a cura di), Genova 1943-1945, op. cit., pp. 111-142.
114 L’episodio ha una certa notorietà, non ultimo per il rifiuto del tenente dei carabinieri Giuseppe Avezzano Comes, comandante del plotone d’esecuzione cui era stato dato l’ordine di fucilare i prigionieri, poiché essi non erano minimamente implicati con l’attentato. Egli, dopo alterne vicende, venne deportato e, tornato in Italia, dopo un tentativo di fuga fu nuovamente sottoposto a violenze e imprigionato fino alla Liberazione. Cfr. Gimelli, Battifora (a cura di), Dizionario della Resistenza in Liguria, op. cit., p. 36.
Paola Pesci, La famiglia Lazagna tra antifascismo e Resistenza, Storia e Memoria, n. 2, 2015, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

[…] Il Partito Comunista, da cui i Gap dipendevano, accreditava ai gruppi di azione patriottica un ruolo fondamentale: questi avrebbero dovuto innescare una guerra di massa contro l’occupante fascista. Per realizzare quest’obiettivo, occorreva reclutare unicamente comunisti, quindi operai, disposti ad agire in clandestinità. Nonostante le speranze del partito, il numero di gappisti rimase sempre limitato; con l’eccezione di Milano, dove le adesioni furono inizialmente una dozzina, a Torino, Genova, Bologna, Rimini, Firenze e Roma l’arruolamento procedette a stento. Del resto, era improbo trovare uomini disposti a sposare la causa terroristica, sia per ragioni morali che per difficoltà materiali, dovendo abbandonare lavoro e affetti. Inoltre, i mezzi a disposizione del partito erano pochi: mancavano i luoghi dove nascondersi, le armi erano precarie e i soldi a disposizione scarseggiavano. Se consideriamo questa carenza di risorse, le prime gesta gappiste stupiscono ancora di più. L’uccisione di Gino Gobbi a Firenze l’1 dicembre 1943, quella di Aldo Resega il 18 dicembre 1943 a Milano, l’attentato al Colonnello Italo Ingaramo il 29 aprile 1944 che aveva insediato, protetto e difeso a Firenze il maggiore Mario Carità e, infine, il tentato assassinio del questore di Milano, Camillo Nicolini Santamaria del 3 febbraio 1944 furono azioni sorprendenti ed efficaci. L’autore, tuttavia, rileva come successi così lampanti fossero la premessa a momenti di crisi. Questi erano in parte inevitabili: i cordoni della sicurezza si tesero e, al contempo, i tedeschi abbandonarono rapidamente la strategia moderata che ne aveva contrassegnato la prima fase dell’occupazione delle grandi città; anche i gappisti, però, commisero degli errori che ne facilitarono l’arresto: tornavano, ad esempio, sul luogo dell’attentato per comprenderne l’impatto e si ritrovavano in luoghi pubblici per progettare nuove imprese. L’attacco gappista condotto alla casa del fascio di Sesto San Giovanni (Milano) il 10 febbraio 1944 evidenzia tutta l’ingenuità di queste formazioni: «colpire nella zona dove i gappisti sono, alla lettera, di casa, sembra contrario a ogni ragionevole strategia che si basi sulla clandestinità, sull’ubiquità, sull’invisibilità» <14, ricorda Santo Peli, eppure, sulla scia degli iniziali successi, il Gap milanese decideva comunque di effettuare l’attentato. Questo provocò la morte di quattro fascisti, ma la reazione delle forze dell’ordine fu immediata. Catturarono per primo l’uomo infiltratosi presso la Casa del Fascio che aveva tardato ad abbandonare la città; costui, una volta intercettato, rivelò informazioni compromettenti sui suoi compagni che abitavano a Sesto San Giovanni in luoghi familiari ai fascisti. Al pari di Milano, i gappisti torinesi, genovesi, fiorentini e romani si sciolsero per motivi analoghi.
I vertici comunisti non risparmiavano critiche severe ai Gap; a detta del partito, i gappisti non avrebbero dovuto conoscersi, abitare negli stessi locali, a maggior ragione se già perquisiti dalle forze dell’ordine <15. Santo Peli si interroga però sullo spessore di queste accuse. In primo luogo, sottolinea come la «perdurante compenetrazione, una ininterrotta osmosi tra i combattenti clandestini e l’habitat da cui provengono» <16 sia stata benefica nella prima fase di vita dei responsabili del “lavoro sportivo” <17. E’ altrettanto vero che «il permanere dei gappisti nel quartiere dove sono nati e cresciuti, o il protrarsi di vecchie abitudini e di usuali frequentazioni, è la principale causa delle catture» <18. La questione è complessa dunque, ma sorge spontaneo l’interrogativo se i gappisti potessero agire diversamente. Secondo l’autore un atteggiamento più ortodosso si sarebbe potuto realizzare se il Pci avesse dispiegato aiuti materiali maggiori. Era troppo facile – a suo giudizio – rovesciare ogni responsabilità sui singoli terroristi. Tale comportamento comunista svolge “una funzione autoassolutoria, visto che sia la selezione delle persone da immettere, sia il reperimento dei mezzi indispensabili alla clandestinità, dipendono dai Comitati militari delle federazioni, in ultima istanza dal Partito. Lamentare il mancato rispetto delle norme della clandestinità, senza averne creato i presupposti, è una consuetudine piuttosto diffusa nelle analisi critiche di cui le relazioni ufficiali abbondano” <19.
A suscitare contrasti vi erano anche le modalità d’azione dei Gap: a tale riguardo i vertici del partito non vantavano una visione unitaria. Pietro Secchia, ad esempio, il 7 dicembre 1944 ammoniva i Gap torinesi, invitandoli a non ricorrere ad azioni dinamitarde che uccidevano o ferivano innocenti, con il rischio ultimo di perdere il consenso popolare. Arturo Colombi, responsabile della federazione comunista di Torino, dovette obbedire, ma manifestò il suo disaccordo: precisò che si era in guerra e che i propri uomini si sforzavano di ridurre al minimo gli effetti collaterali delle proprie azioni. Appurate le difficoltà connaturate nei Gap, il Partito decise di affiancarvi le Sap (Squadre d’azione patriottica) che avrebbero dovuto proteggere la classe operaia e diffondere la ribellione in città. È però difficile accertare se e quanto le Sap colmarono le lacune dei Gap: in realtà l’autore constata una sorta di progressivo intreccio tra queste due formazioni. È senz’altro vero comunque che i gappisti svolsero nella Resistenza un ruolo maggiore nella prima fase piuttosto che nell’insurrezione finale, principalmente coordinata dalle Sap.
In conclusione, è complesso stabilire se in questo «corpo a corpo» <20 con i nodi politici ed etici contrassegnanti l’esistenza dei Gap, Peli abbia prevalso. Senz’altro la carenza di studi locali, quanto mai auspicabili, e di fonti documentarie non lo hanno aiutato, ma non vi è dubbio che lo storico abbia colmato una lacuna sul panorama storiografico e abbia finito per riconoscere il giusto valore alle azioni terroristiche di alcuni uomini dai valori antifascisti. In altre parole ha spezzato l’anatema che si era prodotto nei confronti del termine terrorismo, concepito a lungo come «sinonimo di follia omicida senza giustificazioni» <21.
[NOTE]
14 PELI, Santo, Storie di Gap, cit., p. 98.
15 È il caso ad esempio di Mario Fiorentini, gappista romano. Egli risiede nelle vicinanze di via Rasella, e vi abita nonostante sia sfuggito fortunosamente a tre retate tedesche, perché lì soggiorna Lucia, la sua compagna, che aveva problemi di salute. Cfr. PELI, Santo, Storie di Gap, cit., p. 242.
16 PELI, Santo, Storie di Gap, cit., p. 238.
17 L’espressione adoperata da Peli come sinonimo di Gap è piuttosto diffusa nei documenti interni al Partito comunista.
18 PELI, Santo, Storie di Gap, cit., p. 238.
19 Ibidem, p. 247.
20 Ibidem, p. 9.
21 Ibidem, p. 8.
Notizia bibliografica digitale
Andrea Martini, «Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza», Diacronie, N° 21, 1 – 2015,

In generale la storia dei Gap si caratterizza per una difficoltà nel reclutamento e la loro entrata in azione venne più volte sollecitata dai comandi superiori che non si riuscivano a capacitare del cronico ritardo dell’organizzazione. Sia in fase iniziale che in fase inoltrata quando, in molti casi, interi nuclei di Gap caddero sotto i colpi delle delazioni e il lavoro dovette ricominciare da capo, il reclutamento fu assai arduo. Le difficoltà erano dovute ad una serie di fattori umani ed organizzativi.
La percezione del forte rischio che si correva era un fattore da considerare: il gappista andava incontro ad una morte quasi certa e, per questo, molti scelsero di andare in montagna, dove in genere si combatteva una guerra più convenzionale, con più probabilità di fare ritorno a casa a liberazione avvenuta.
La peculiarità della lotta dei Gap erano infatti la clandestinità più assoluta e l’isolamento insieme, per i più, al distacco totale dalla famiglia e dagli ambienti frequentati prima di entrare a far parte della guerriglia. Nonostante ciò a Firenze le norme cospirative furono assai più fluide di quelle stabilite: il gruppo fondatore dei Gap proveniva da una banda di montagna, dove le precauzioni cospirative erano meno stringenti. I giovani reclutati avevano continuato a risiedere, anche dopo l’ingresso in clandestinità, nei rioni popolari di San Frediano e Santa Croce, dove erano molto conosciuti. Questi elementi fecero sì che a Firenze non si ebbero nemmeno i nomi di battaglia, se non come pure formalità <10.
[…] La freddezza nell’affrontare la morte diventava determinante per chi doveva colpire in pieno giorno: era necessario saper disumanizzare il nemico, non preoccuparsi della sua vita, della sua famiglia, oppure del fatto che il milite in questione fosse o meno convinto della scelta intrapresa. Questo problema si poneva con meno prepotenza nella guerra in montagna dove era possibile affrontare la morte in maniera velata, come conseguenza inevitabile della guerra.
La guerra in città poneva invece interrogativi sulla vita e soprattutto sulla morte non eludibili; la morte doveva essere guardata in faccia con meno mediazioni, anche culturali: il gappista dopo aver sparato ripiombava nella solitudine dato che con i compagni di lotta raramente poteva condividere impressioni o titubanze per non contravvenire alle norme cospirative.
Un altro elemento che ritroviamo nei diari e nelle memorie dei gappisti è la difficoltà iniziale ad eseguire gli ordini imposti dal comando di agire subito e di colpire “uomini vivi”. Rompere questo digiuno delle armi fu per molti una scelta sofferta, difficile, ricordata con una sensazione di profondo malessere […]
10 A. Fagioli, Partigiano a 15 anni, Alfa, Firenze 1993, p. 106.
Mariachiara Conti, Resistere in città… cit.

Sull’esistenza di un vuoto storiografico riguardo ai Gruppi di azione patriottica (Gap), è facilmente constatabile un comune accordo tra gli studiosi. Ed è un vuoto che pone degli interrogativi di qualche interesse, visto che l’attività dei Gap e le sue conseguenze da sempre hanno innescato dibattiti e polemiche; spesso assai virulente, destinate a ripresentarsi, stucchevolmente ripetitive, bloccate in una contrapposizione tra detrattori ed esaltatori, mentre la ricerca in proposito è stata quanto meno asfittica fino agli anni settanta, e quasi inesistente nei decenni successivi, ad eccezione di alcune biografi e di comandanti gappisti, e di pochi studi su singole realtà provinciali (tra i quali il migliore resta Luigi Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera: le brigate Garibaldi a Milano e provincia, 1943-1945, FrancoAngeli 1985).
[…] Viceversa il gappismo, pur parte importante della Resistenza, è una forma di lotta importata dalla Francia e organizzata e praticata quasi esclusivamente dal Partito comunista, che ne ha tratto non solo motivo d’orgoglio, ma anche, lucidamente, tutti i possibili vantaggi in termini di propaganda, facendo delle imprese dei Gap il più possente strumento di creazione di “un’atmosfera di guerra”, di una scelta “d’assalto”, di una radicalizzazione dello scontro con i nazifascisti a cui gli altri partiti antifascisti si avvicinavano piuttosto titubanti. Dunque nella strategia comunista le imprese dei Gap sono decisive, e più ancora lo è il racconto di queste imprese, e delle vite, e soprattutto delle morti esemplari dei suoi protagonisti, oggetti di esaltazione collocati in un pantheon acritico, popolato di purissimi eroi, icone e simboli di inarrivabile dedizione alla patria e alla classe operaia, possenti e decisivi esempi di una lotta audace e vincente. Grazie ai Gap, l’immagine di sé che il Partito comunista offre, fin dagli esordi della lotta armata, è quella di un partito monolitico, impermeabile ad ogni opportunismo, e anche ad ogni infiltrazione: il gappista è un comunista votato al sacrificio, né la tortura né la più totale clandestinità ne possono intaccare la ferrea determinazione. Cedimenti alla tortura, deviazioni, debolezze individuali o di gruppo, carenze e fragilità organizzative, non possono trovare spazio in una narrazione finalizzata all’esaltazione del gappismo come la forma più alta, più pura, più difficile e quindi più eroica sia della militanza comunista che della guerra partigiana.
Come raccontare difficoltà, perplessità, umane fragilità, senza incrinare un pantheon, una galleria di icone sovrumanamente eroiche, e un’immagine del partito tetragono e senza debolezze? Si tratta ancora, a settant’anni dai fatti, di misurarsi con immagini e narrazioni mitiche, popolate di gesta eroiche seguite da morti esemplari, come quella di Dante Di Nanni, e di combattenti dalle doti militari e morali straordinarie, il cui modello di riferimento è costituito da Giovanni Pesce, consegnato alla pubblica memoria dal suo fortunatissimo Senza tregua (Feltrinelli, 1967). Questa autorappresentazione – forte di corpose realtà quanto di censure e di mitizzazioni – ha finora impedito di ragionare sulle specificità, sull’effettiva separatezza che contraddistingue la vita dei Gap, segnata da problemi materiali ed etici in buona parte diversi da quelli che caratterizzano il partigianato in generale. Le modalità operative gappiste non possono che essere assimilate a pratiche terroristiche – cosa che del resto i protagonisti rivendicavano esplicitamente – cioè a forme di lotta assai lontane dall’immagine più tradizionale, e più “gloriosa”, più vicina a consolidati ed accettati paradigmi del guerriero, come vengono realizzati e idealizzati nella guerra partigiana. Nella guerra dei Gap, fatalmente, il valor guerriero si concretizza soprattutto attraverso lo studio metodico delle abitudini dell’avversario da colpire, e attraverso il “sangue freddo”, la determinazione, la capacità di reggere la tensione nervosa dei preparativi, la capacità di resistere alla tortura, alla solitudine, all’incombente evidenza che ad ogni azione possa corrispondere una rappresaglia che travolge ostaggi e comuni cittadini. I gappisti vivono – o almeno dovrebbero vivere – in perfetta clandestinità, separati e sconosciuti alla classe operaia da cui in generale provengono, destinati a divenire eroi eponimi della guerra di Liberazione solo in virtù di una morte preceduta da torture.
Ulteriore e decisivo elemento che avrebbe impedito di recepire il gappismo come la forma più alta, e da tutti condivisa, della guerra partigiana: i gappisti sono esclusivamente comunisti, e rispondono esclusivamente al Partito comunista, anche se la legittimità delle loro azioni è strettamente connessa al loro essere parte di un tutto, partigiani della nuova Italia democratica guidata dal Comitato di liberazione nazionale (Cln). Ma né la scelta dei bersagli dei Gap, né la loro logistica, dipendono dai Cln, o dal Corpo volontari della libertà (Cvl). A questa prima contraddizione, si verrà rapidamente a sommare un cortocircuito storiografi co, perché l’intera narrazione della guerra di Liberazione di cui i comunisti (Pietro Secchia, Luigi Longo, Giorgio Amendola, Roberto Battaglia) sono artefici, è centrata su quella guerra come guerra di popolo, unitaria.
La banda partigiana, il «microcosmo di democrazia diretta», le repubbliche partigiane, la stampa partigiana, sono forme organizzative, esperienze di lotta non specificamente comuniste, né i protagonisti sono necessariamente espressione di avanguardie operaie: è su queste forme organizzative, è su questi strumenti di lotta che comprensibilmente si mette l’accento nella “vulgata” resistenziale, mentre la pratica del terrorismo urbano comporta responsabilità, ed anche scelte etiche, di una radicalità destinata a mettere in luce una precisa specifi cità comunista, più che un condiviso patrimonio di valori.
Santo Peli, I GAP nella Resistenza, Zapruder, 32-12

Fonte: Storia di Firenze cit. infra

Il 1° dicembre 1943 esponenti dei GAP giustiziarono sulla porta di casa in via Pagnini il tenente colonnello Gino Gobbi, comandante del distretto militare di Firenze. La prima rilevante operazione dei GAP nel capoluogo toscano – eseguita probabilmente da Giuseppe Martini e Rindo Scorsipa – non si collocava in una data casuale: il ministero della Difesa nazionale aveva infatti fissato per il 30 novembre il termine di presentazione per i giovani delle classi 1923-25.
Gino Gobbi era dunque un obiettivo simbolico: con la sua uccisione si intendeva lanciare un avvertimento ai responsabili della RSI, che avevano intrapreso dopo l’8 settembre un ampio programma di arruolamenti coatti basato su classi di leva. I richiamati erano destinati all’inquadramento sia nelle divisioni dell’esercito in via di ricostituzione, sia nella GNR e nelle altre forze di polizia, sia in formazioni militarizzate quali i battaglioni del lavoro. La questione dei reclutamenti si configurò fin dall’autunno ’43 come un problema nevralgico per la RSI e come un banco di prova per le forze resistenziali: i molteplici bandi emanati dai comandi militari incontrarono infatti crescenti ostilità fra i giovani in età di leva; i poteri locali reagirono alla diserzione diffusa con misure repressive quali il fermo di parenti dei renitenti.
Presenti nelle principali aree urbane dell’Italia occupata, i GAP (gruppi di azione patriottica) erano piccoli nuclei di militanti del partito comunista clandestino, scelti fra gli elementi più combattivi e disciplinati e incaricati di compiere azioni dimostrative di particolare impatto. Tali pratiche avevano l’obiettivo di mettere pressione sia agli occupanti sia ai quadri della RSI, nonché di lanciare alla popolazione un chiaro messaggio propagandistico.
I GAP fiorentini intensificheranno la loro attività fra gennaio ed aprile 1944, fino al loro scioglimento in seguito ad una serie di arresti nel luglio ’44. Essa previde varie esecuzioni e attentati dinamitardi contro obiettivi simbolici (quali la sede della Feldgendarmerie in via dei Serragli e il palazzo dei sindacati fascisti in lungarno Guicciardini) e culminò nell’uccisione di Giovanni Gentile il 15 aprile 1944.
Essi erano composti da cellule di circa 4 persone, autonome l’una dall’altra per ridurre i rischi in caso di arresto di singoli elementi. Almeno in una prima fase è probabile che i nuclei fiorentini non superassero la ventina di militanti, spesso molto giovani (fra loro Bruno Fanciullacci, Tosca Bucarelli, Elio Chianesi): responsabile militare era Cesare Massai, commissario politico Alvo Fontani, posti a loro volta sotto la supervisione di Alessandro Sinigaglia, e – dopo la sua morte nel febbraio ’44 – di Luigi Gaiani, delegato delle brigate Garibaldi in Toscana. […]
Bibliografia
C. Francovich, La Resistenza a Firenze, Firenze, La Nuova Italia, 1961
G. Gozzini e R. Martinelli (a cura di), I compagni di Firenze. Memorie della Resistenza (1943-1944), Firenze, Istituto Gramsci Toscano, 1984
Redazione, 1 dicembre 1943: I gappisti fiorentini giustiziano il tenente colonnello Gobbi, Storia di Firenze