Già il 28 luglio Churchill scrisse a Roosevelt che “non dovremmo essere troppo schizzinosi nel trattare con un governo non fascista”

Il 16 luglio 1943, pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione alleata della Sicilia, il presidente americano Roosevelt e il primo ministro britannico Churchill inviavano da Radio Algeri un importante messaggio al popolo italiano <1. La guerra che stava dilaniando l’Italia – essi affermavano – era «la diretta conseguenza del vergognoso governo» cui gli italiani erano stati «assoggettati da Mussolini e dal suo regime fascista». Nella convinzione che Hitler avesse già messo le mani sulla vittoria, Mussolini aveva sconsideratamente precipitato gli italiani nel conflitto come «satelliti» del Führer, «brutale distruttore di popoli e di libertà». L’Italia, impreparata sul piano militare e vulnerabile agli attacchi nemici, era stata posta dunque dai «capi fascisti» al servizio del Terzo Reich, proteso alla conquista dell’egemonia mondiale. L’alleanza stretta con la Germania nazista – incalzavano i due leader alleati – non era stata «degna delle antiche tradizioni di libertà e di cultura» dell’Italia, care al popolo britannico e a quello statunitense. I soldati italiani avevano invero combattuto «coraggiosamente» ma a esclusivo vantaggio dell’alleato tedesco, che per tutta ricompensa li aveva «traditi e abbandonati al fronte russo ed in ogni campo di battaglia africano da El Alamein a Capo Bon».
Roosevelt e Churchill rivolgevano a questo punto un appello generoso ma perentorio al popolo italiano. Le potenze alleate non volevano punire gli italiani, ma solo «i falsi capi e le loro dottrine che hanno portato l’Italia alla presente situazione». Era vano e insensato continuare a versare il proprio sangue. Gettata nella guerra dal fascismo asservito al «malvagio potere dei nazisti», invasa e schiacciata dalla «straordinaria potenza» militare degli Alleati, l’Italia non aveva ormai che un’unica possibilità di sopravvivenza: accettare subito «un’onorevole capitolazione».
“Tutti i vostri interessi e tutte le vostre tradizioni sono state tradite dalla Germania nazista e dai vostri stessi capi falsi e corrotti; soltanto col distruggere l’una e gli altri un’Italia rinnovata può avere la speranza di rioccupare un posto rispettato nella famiglia delle Nazioni europee. È questo il momento, per voi Italiani, di tener conto del vostro amor proprio, dei vostri interessi e dei vostri desideri per ricostituire la dignità nazionale, la sicurezza e la pace; è arrivato il tempo per voi di decidere se gli Italiani dovranno morire per Mussolini e Hitler oppure vivere per l’Italia e per la civiltà”.
Riprodotto in centinaia di migliaia di volantini lanciati sulla Sicilia e sulle maggiori città italiane fra cui, il 17 luglio, Roma <2, il messaggio di Churchill e di Roosevelt proponeva espressioni e temi già largamente utilizzati dalla propaganda alleata negli anni precedenti: distingueva fra popolo italiano e regime fascista, scaricava su quest’ultimo la responsabilità della guerra, indicava nella Germania un falso alleato che aveva mirato esclusivamente ai propri interessi non esitando a tradire l’incauto gregario italiano.
Fin dall’inizio della guerra il governo britannico, e poi anche quello sovietico e statunitense, avevano individuato nell’Italia fascista l’«anello più debole» dell’Asse e predisposto un’intensa azione di propaganda allo scopo di provocare il collasso interno del paese e la sua uscita dal conflitto <3.
[NOTE]
1 Il testo del messaggio in «Politica Estera», I, luglio 1944, 6, pp. 31-32.
2 Cfr. P. Monelli, Roma 1943, Mondadori, Milano 1979, p. 71. Pubblicato per la prima volta da Migliaresi nel 1945, il volume fu uno dei maggiori successi editoriali dell’immediato dopoguerra.
3 Sulla propaganda angloamericana verso l’Italia cfr.: L. Mercuri, Guerra psicologica. La propaganda anglo-americana in Italia 1942-1946, Archivio Trimestrale, Roma 1983; A. Pizarroso Quintero, Stampa, radio e propaganda. Gli Alleati in Italia 1943-1946, Franco Angeli, Milano 1989; G. Gabrielli, La propaganda anglo-americana alla radio in Italia (1943-1945), in La seconda guerra mondiale e la sua memoria, a cura di P. Craveri e G. Quagliariello, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp. 9-60; M. Affinito, La propaganda dell’Office of War Information e gli esuli antifascisti negli Stati Uniti: L’«Hymn of the Nations», ivi, pp. 81-101. Su Radio Londra cfr. M. Piccialuti Caprioli, Radio Londra 1939-1945, Laterza, Roma-Bari 1979 e Radio Londra (1940-1945). Inventario delle trasmissioni per l’Italia, a cura di M. Piccialuti Caprioli, 2 voll., Ministero per i Beni culturali e ambientali, Roma 1980. Sulla propaganda organizzata dall’Unione Sovietica non esistono lavori paragonabili.
Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Editori Laterza, 2013

[…] La possibilità per un governo italiano di rimanere in carica dopo la sconfitta militare e l’occupazione progressiva delle regioni meridionali non era prevista dalla dottrina della unconditional surrender, che, fin dalla sua enunciazione nel gennaio del 1943, imponeva il perseguimento della distruzione di ogni forma di autorità istituzionale, oltre che militare, del paese nemico.
Questa possibilità si era manifestata nel corso della preparazione della campagna d’Italia perché prodotto collaterale di un dibattito interalleato che prendeva le mosse proprio dalla dichiarazione di Casablanca e si sviluppava nel semestre successivo in risposta alla necessità di rendere la rigida dottrina adottata dagli Alleati compatibile con le esigenze del controllo dei territori che sarebbero stati occupati nella penisola […] Questo saggio, avvalendosi della documentazione politica, militare e diplomatica conservata negli archivi di Londra e Washington, si propone di indagare l’elaborazione concettuale alleata e la sua aderenza all’applicazione pratica dei principi adottati, ripercorrendo le posizioni assunte dalle capitali atlantiche sulle questioni centrali della forma giuridica dell’armistizio, dell’utilizzo dell’amministrazione italiana e della tempistica per il passaggio ad un controllo pienamente indiretto, valutando altresì quanto la resa imposta agli italiani rispecchiasse la lettera degli accordi di Casablanca e le impostazioni politiche degli Alleati e quanto invece se ne distaccasse.
Nel corso del semestre successivo alle deliberazioni di Casablanca, le preoccupazioni dei quartier generali alleati non si concentravano esclusivamente sulle minuzie tattiche della preparazione di Husky e sull’importanza da attribuire allo sbarco in Sicilia nel contesto del quadro strategico europeo. L’imminente contatto con la realtà italiana imponeva loro una riflessione sui risvolti amministrativi dell’arrivo nella penisola delle truppe alleate […]
Dopo alcuni mesi di lavoro alla ricerca di una soluzione soddisfacente al dilemma presentato dalla situazione italiana, i capi di Stato maggiore britannici si concentravano sulle due opzioni che meglio rispondevano ai possibili scenari presentati dal completamento delle operazioni in Sicilia. <11
Nell’eventualità di un collasso istituzionale italiano completo, le forze occupanti avrebbero agito secondo le caratteristiche dell’occupazione militare articolate negli otto punti del proclama del Comandante supremo. L’occupazione, pur mantenendo provvisoriamente in vigore leggi e regolamenti esistenti, sarebbe stata modellata da proclami e ordini pubblici che di volta in volta avrebbero messo al corrente la popolazione locale delle normative istituite dal comando alleato. <12 In presenza di un governo italiano che gli Alleati fossero stati pronti a riconoscere, invece, un documento composto di 45 clausole armistiziali avrebbe istituito un rapporto di collaborazione subordinata in grado di regolare lo sviluppo delle relazioni istituzionali tra l’amministrazione italiana e le forze occupanti. <13 La seconda ipotesi, a giudizio quasi unanime delle diverse agenzie britanniche coinvolte, era da considerarsi altamente preferibile.
Londra aveva dunque concretamente prospettato la possibilità di abbandonare la linea stabilita in gennaio, privilegiando una soluzione che consentisse ad uno Stato italiano di sopravvivere alla disfatta. L’arrivo a Washington delle conclusioni dei Chiefs of Staff britannici apriva un lungo contenzioso tra due concezioni profondamente divergenti del ruolo che la presenza alleata avrebbe dovuto svolgere in rapporto alla struttura istituzionale italiana durante l’occupazione. Il War Department americano considerava i termini presentati dagli inglesi inaccettabili in quanto non rispondenti ad una resa incondizionata, bensì ad un accordo tra un governo italiano già esistente e le forze di occupazione, mentre la Civil Affairs Division realizzava che la proposta britannica avrebbe implicato il riconoscimento di un gruppo di potere italiano cui delegare l’esercizio della sovranità sull’intero paese. <14
I Joint Chiefs of Staff, traendo le ineluttabili conclusioni da tali rif lessioni, notavano che il documento redatto da Londra non era conforme alla politica stabilita di comune accordo a Casablanca e contravveniva apertamente alla linea del governo americano. La CCS 258 presentava infatti i termini di un armistizio da concludere con un governo italiano che, secondo quelle stesse condizioni, doveva essere mantenuto al potere a seguito dell’occupazione del paese da parte delle forze alleate. <15
La stessa Division of Political Studies del Dipartimento di Stato preferiva per ragioni di natura militare, tra le alternative considerate, il controllo dell’amministrazione civile da parte delle autorità militari alleate fino all’istituzione e al riconoscimento di un governo permanente. <16
Gli americani, rifacendosi alle dichiarazioni pubbliche precedenti, insistevano affinché l’autorità del governo italiano venisse sospesa del tutto e un governo militare alleato fosse istituito a controllo dell’intero territorio italiano sotto la direzione del Comandante supremo. Washington, si leggeva in un rapporto della missione militare britannica presso i Combined Chiefs of Staff (CCS), riteneva infatti che l’autorità incaricata di riconoscere la resa, fosse questa incarnata nella persona del re, del capo del governo o capo di Stato maggiore, avrebbe dovuto trasferire la propria sovranità alle forze alleate e poi cessare di esistere. In questo modo, facevano notare gli americani, sarebbe stato possibile accettare la resa anche da Mussolini, «poiché questi sarebbe scomparso immediatamente dopo». <17
L’appoggio ad un governo militare che rimanesse in funzione durante l’intero periodo dell’occupazione giungeva dunque non soltanto, comprensibilmente, dalle componenti militari dell’establishment statunitense, che così avrebbero goduto di maggiori responsabilità nella gestione degli affari italiani, ma anche, meno ovviamente, dagli organi politico-diplomatici facenti capo agli Esteri, <18 dove si tendeva a favorire una amministrazione interamente militare in territorio nemico nel rispetto del quadro tracciato a Casablanca. <19
Il fronte americano non era però interamente compatto nel supportare il perseguimento di una resa davvero incondizionata. Se Roosevelt, ancora a fine luglio, continuava ad insistere sulla sua piena applicazione anche nel caso dell’Italia, <20 la Operation Planning Division ricordava ai capi di Stato maggiore che dal punto di vista militare era preferibile che lo Stato italiano e una sua emanazione governativa continuassero ad esistere sotto la supervisione del Comandante alleato. Gli anglo-americani, argomentavano i planners, non disponevano infatti della vasta organizzazione e dei numeri necessari alla creazione di un governo militare che fosse capace di amministrare l’intero paese senza l’ausilio della preesistente amministrazione. <21
Lo stesso Dwight Eisenhower, Comandante supremo alleato, pur determinato a ottenere piena libertà di movimento e ampi poteri decisionali in Italia, <22 scorgeva considerevoli vantaggi nell’avvalersi dell’esistente burocrazia civile, a patto che si procedesse a rimpiazzare al più presto «all key individuals in whose co-operation we may not have complete confidence». <23
Anche prima che il documento dei capi britannici portasse ad una forte polarizzazione delle posizioni alleate sul futuro dell’occupazione, alcune voci provenienti da Washington mostravano la presenza di tendenze moderate nell’elaborazione di una politica per l’Italia che tenesse in considerazione la possibilità di collaborare con un governo italiano in nome di valutazioni pratiche e convenienza militare. In aprile il Dipartimento di Stato ammetteva che gli Alleati avrebbero goduto di «immensi vantaggi facendo uscire l’Italia dalla guerra il prima possibile», riconoscendo di fatto i meriti dell’argomento in favore di una condivisione amministrativa con gli italiani, <24 mentre in maggio il Joint War Plans Committee del War Department temeva che il collasso, inteso in questo caso come la disintegrazione del governo organizzato seguita da una pericolosa anarchia politica, potesse giungere come conseguenza inevitabile della mancanza di un armistizio debitamente sottoscritto dagli italiani. <25
Al fine di evitare le complicanze derivanti da un controllo minuzioso della vita istituzionale italiana in caso di sparizione di qualsiasi forma di autogoverno indigeno, era auspicabile che i termini di resa fossero sufficientemente liberali da permettere ad uno stabile governo italiano di sopravvivere.
Malgrado la presenza di note dissonanti, tuttavia, la posizione ufficiale tenuta dal governo americano rimaneva ancorata ad un netto rifiuto della linea inglese, incentrata sul doppio principio del riconoscimento di un’amministrazione locale e dell’imposizione di dettagliate condizioni di resa. <26
Le reazioni suscitate nei palazzi londinesi dall’intransigenza americana erano marcate: la posizione assunta da Washington, riassume lo storico militare britannico Michael Howard, era considerata dagli inglesi «not only unnecessarily cumbrous but in practice impossible». <27
Nella visione di Churchill, guidata dal desiderio di ottenere risultati concreti nel minor tempo possibile, la concessione di una capitolazione onorevole era giustificata dal risparmio di risorse ed energie che il mantenimento di un’organizzazione istituzionale italiana avrebbe garantito alle forze alleate nel Mediterraneo. <28
Secondo il primo ministro, infatti, le potenze vincitrici avrebbero commesso un grave errore, mentre la situazione era «in una condizione tanto malleabile e fluida, a smantellare l’intera struttura dello Stato italiano». I governi alleati, riecheggiava da Londra, dovevano prestare la massima attenzione a non dissolvere ogni forma della vita istituzionale italiana: la riduzione dello Stato italiano ad una condizione di anarchia sarebbe risultata soltanto controproducente. <29
L’assenza di autorità con le quali trattare avrebbe comportato per le forze anglo-americane il peso aggiuntivo di occupare l’intero paese palmo a palmo, costringendole ad assumere un «immenso compito di presidio, sorveglianza e gestione amministrativa» nonché a correre il rischio di modificare in senso negativo la percezione che ne aveva la popolazione locale. <30
La convinzione espressa dagli americani che l’estensione del modello di amministrazione militare in vigore in Sicilia avrebbe automaticamente conferito all’occupazione alleata della penisola una piena legittimità nell’ambito del diritto militare era inoltre confutata con decisione dal Foreign Office.
Una soluzione sulla falsariga della proposta americana avrebbe fortemente limitato i diritti delle potenze occupanti, precludendo a queste di disporre del controllo dei territori al di fuori del perimetro d’azione delle truppe alleate, dell’accesso ai poteri sovrani nelle regioni sotto controllo alleato, della possibilità di effettuare cambi radicali nella legislazione locale, dell’obbligo della popolazione locale di collaborare con gli Alleati e della proprietà di beni e mezzi italiani al di fuori delle regioni occupate. <31
Un armistizio firmato da una «amministrazione che fosse ragionevolmente soddisfacente», si argomentava da Whitehall, avrebbe accordato «diritti e poteri assai più estesi che quelli garantiti dallo status di potenza occupante». <32
Le posizioni si andavano ormai delineando con chiarezza. La distanza sostanziale esistente fra i due approcci nazionali alla questione della sopravvivenza statuale dell’Italia occupata era ulteriormente appesantita dalle percezioni delle motivazioni alla base delle soluzioni adottate dal proprio alleato. Soggetti a sospetti incrociati, i due governi operavano nella convinzione di dover arginare da una parte l’inesperienza e dall’altra le tendenze imperialiste del partner, fattori che minacciavano di danneggiare la buona riuscita dell’opera di costruzione istituzionale avviata in Italia. Il governo americano, ad esempio, considerando una componente essenziale della dottrina della resa incondizionata «che il governo sconfitto dovesse non solo fare ciò che gli veniva ordinato, ma anche abdicare alla propria sovranità », <33 veniva accusato di contemplare «la scomparsa del governo italiano e l’instaurazione di un’amministrazione militare alleata sull’intero paese», <34 una procedura giudicata dal Foreign Office «tanto inadeguata quanto inutile e potenzialmente perniciosa». Nella Weltanschauung londinese, il trasferimento della sovranità italiana agli Alleati per mezzo di un documento di resa era reputato un abominio politico che, comportando una fattuale annessione del paese da parte degli Alleati, costituiva un’opzione «che non doveva essere contemplata neanche su base temporanea». <35
Dall’altra parte dell’Atlantico, invece, diversi grattacapi sorti durante il dibattito nascevano da fraintendimenti circa i reali obiettivi delle politiche londinesi. Diffusa negli ambienti statunitensi era infatti la convinzione che la proposta di mantenere in vita una struttura governativa italiana non soltanto implicasse l’intenzione di contrattare le condizioni della resa con gli italiani, ma gettasse le basi, con la costruzione di un solido rapporto con Badoglio e la protezione della monarchia, per un progetto di recupero dell’influenza perduta nel Mediterraneo a seguito dello scoppio delle ostilità. <36
L’obiettivo perseguito dalla politica di Eden era, al netto dei forti interessi per la regione, tuttavia quello di evitare l’imposizione di un governo militare che aprioristicamente concentrasse su di sé l’intero ventaglio delle responsabilità amministrative derivanti dall’occupazione della penisola, disponendo di un’autorità subordinata cui potesse essere delegato il compito di rispettare l’armistizio nelle regioni che, considerate di scarso interesse militare, non erano fisicamente occupate dalle truppe anglo-americane. <37
I vantaggi offerti da un armistizio dettagliato compensavano d’altra parte gli svantaggi impliciti nella compromissione con un governo postfascista: come sottolineava Harold Macmillan, rappresentante del governo britannico nel Mediterraneo, nell’interrogarsi sulle conseguenze di un eventuale fallimento alleato, «the plain fact of military situation is that we are not in a position to look any gift-horses too closely in the mouth». <38
Le considerazioni del Resident Minister introducevano nella riflessione alleata un nuovo elemento portante: la necessità militare, poi centrale nella conduzione della pianificazione per le fasi successive. Le difficoltà previste nella preparazione di Husky e la sopravvalutazione delle capacità di resistenza delle truppe italo-tedesche presenti nella penisola convincevano gli Alleati – il quartier generale di Eisenhower più degli Stati maggiori generali – a prendere seriamente in considerazione la possibilità di moderare l’impatto pratico dell’occupazione e avvalersi conseguentemente della collaborazione di un’autorità italiana da assoggettare ai propri fini. Le trattative con Badoglio, insomma, analogamente a quanto fatto in Nord Africa con l’ammiraglio francese François Darlan, non potevano essere scartate sulla base di sole remore politiche.
11 Cfr. il promemoria dei COS ai CCS, Surrender terms for Italy and draft declaration and proclamation, CCS 258, del 16 giugno 1943, in CAB 88/12. In realtà la prima versione dei due documenti veniva preparata il 31 marzo 1943 e presentata dal Military Sub-Committee il 20 aprile al COS Committee (Operation Fanfare – possible armistice with Italy, CAB 80/69).
12 Cfr. Military Sub-Committee of the Ministerial Committee on Reconstruction Problems, Draft UN declaration on Italy, 13 gennaio 1943, in CAB 119/40. Se il Draft heads doveva essere usato in caso di un collasso italiano contemporaneo a quello tedesco, questa dichiarazione era concepita per il proseguimento della guerra contro la Germania: era infatti prevista la concessione di alcune porzioni di territorio agli Alleati e la sospensione temporanea delle ostilità attive contro le forze italiane, a patto che queste procedessero alla consegna delle armi. Il 29 aprile i CCS avevano inviato ad Algeri i termini armistiziali per Husky, sulla falsariga di quanto FO e MSC avevano preparato per un armistizio generale per l’Italia. Come scriveva Orme Sargent, deputy Permanent Undersecretary al Foreign Office, ai COS in maggio, la bozza attuale, applicabile soltanto in Sicilia per un armistizio locale, non includeva, ad esempio, il riconoscimento dei termini da parte di un governo italiano, contro il quale si presumeva che i combattimenti fossero ancora in atto, cfr. 4 maggio 1943, FO ai COS, Husky – terms for the cessation of the hostilities, CAB 80/69. Questo documento non costituiva dunque un armistizio, bensì un cessate il fuoco a livello locale, limitato alla Sicilia, che sarebbe stato in seguito sostituito da un armistizio valido a livello nazionale.
13 Cfr. la nota della Strategical Planning Section, Armistice terms for Italy, del 12 gennaio 1943, in CAB 119/40, in cui si suggeriva che, al fine di liberare risorse a scopi offensivi, «our commitments in Italy must be strictly limited. Any general occupation of the Italian mainland is out of the question and we should make the Italians responsible for their own defence and for internal security as far as we safely can».
14 Si veda il documento di John Hilldring (a capo della CAD, War Department), del 20 giugno 1943, in National Archives, College Park, MD (NAW), JCS, General File, b. 105. La CAD era stata creata il 1 marzo 1943 all’interno dell’OPD, Army General Staff del War Department per soprintendere alle questioni riguardanti la gestione dei civil affairs in Europa; i britannici avevano adottato una soluzione simile all’interno del War Office.
15 Cfr. la relazione dei JCS, Surrender terms for Italy, CCS 258/1, del 1 luglio 1943, FDR, MRP, b. 34/2. In sostituzione delle due opzioni proposte dagli inglesi, i Joint Chiefs avevano preparato quattro documenti: – una modifica della direttiva Husky nella quale si specificava che l’intero territorio italiano sarebbe stato sottoposto ad occupazione alleata; – ‘provisions of unconditional surrender for Italy’, sei punti in cui si poneva l’intero paese sotto l’autorità del C-in-C, da far firmare al re o al capo di Stato maggiore; – ‘proclamation to the Italian people’; – un documento in 26 punti in cui si elencavano i parametri militari dell’occupazione.
16 Cfr. il memorandum di Charles Rothwell (Division of Political Studies), Italy: political reconstruction: national government during the transitional period, 9 giugno 1943, in particolare la sezione Establishment of a provisional central government, FRUS, Conferences at Washington and Quebec, 1943, Washington D.C., U.S. Government Printing Office, 1943, cit., pp. 808-811. Le soluzioni immaginate dal Dipartimento di Stato erano tre, con differenti gradi di credibilità, probabilità e attrattiva: – un governo capeggiato dall’esercito, ma staccato dal regime fascista; – un regime rivoluzionario, poco probabile considerata la mancanza di organizzazione dei gruppi rivoluzionari, ma in ogni caso la peggiore delle ipotesi; – un governo organizzato dagli italiani in esilio, da ritenersi non preferibile perché non si credeva che Carlo Sforza fosse in grado di assumere la guida dell’esecutivo, non possedendo carisma né disponendo di un seguito popolare in Italia. Si veda sul tema anche un nuovo documento di Rothwell del 17 agosto, nella sezione Nature of a permanent national government, ivi, pp. 812-815.
17 Cit. la lettera di Lord Halifax, ambasciatore britannico presso gli Stati Uniti, al Foreign Office del 5 luglio, in PREM 3/229.
18 Si vedano le posizioni della Division of Political Studies, in nota 16.
19 Il Dipartimento di Stato avrebbe guidato l’elaborazione di politiche nei settori politici da parte del War Department, ma senza alcuna responsabilità amministrativa nelle aree occupate fino alla fine dell’occupazione militare, cfr. il memorandum di Joseph Haskell, 1 aprile, 1943, in H.L. Coles – A.K. Weinberg, Civil affairs: soldiers become governors, Washington D.C., Office of the Chief of Military History U.S. Army, 1964, p. 95.
20 Cfr. la lettera di Roosevelt a Churchill del 26 luglio in cui si chiedeva che si giungesse ad una resa quanto più possibile vicina a quella incondizionata stabilita a Casablanca, purché accompagnata da un buon trattamento della popolazione locale, in FRUS, 1943. Europe, Washington D.C., U.S. Government Printing Office, 1943, p. 332, e il messaggio radiofonico del Presidente del 28 luglio sull’andamento della guerra, in cui si ribadiva che «our terms to Italy are still the same as our terms to Germany and Japan – unconditional surrender», in U.S. Department of State, United States and Italy, 1936-1946, Washington D.C., Department of State Publications, 1947, pp. 44-47.
21 Cfr. il promemoria di Thomas Handy (Chief of Staff, OPD), Italy armistice-surrender, del 27 luglio 1943, in H.L. Coles cit., p. 224.
22 Cfr. Eisenhower a Churchill, 27 luglio 1943, CAB 120/583. Durante un incontro con Macmillan tenutosi ad Algeri, si riferiva la proposta avanzata ai CCS che venisse conferita al Supreme Allied Commander l’autorità di decidere sulle modalità di conclusione della guerra con l’Italia. Secondo Eisenhower i termini dovevano essere concepiti in modo da poter essere annunciati in conformità con la speranza nutrita dal popolo italiano di una pace onorevole.
23 Cit. Eisenhower ad Alexander, 26 luglio, H.L. Coles cit., p. 224.
24 Telegramma del segretario di Stato Cordell Hull a John Winant, ambasciatore americano a Londra, 12 aprile 1943, FRUS, 1943. Europe, p. 328.
25 Rapporto del JWPC, Collapse or unconditional surrender of Italy, 9 maggio 1943, JCS, CDF, b. 317.
26 Cfr. il messaggio dei JCS a Roosevelt del 1 agosto 1943 che definiva la CCS 258, a causa dei suoi aspetti politici, potenzialmente utile in uno stadio avanzato delle trattative, ma inadeguata all’uso da parte del Comandante nelle fasi iniziali, JCS, GF, b. 105; e il telegramma inviato da Roosevelt a Churchill e Hull del 2 agosto in cui, facendo riferimento al documento dei COS, si commentava che «while the language seems on the whole good, I seriously doubt advisability of using it at all», essendo i termini inviati ad Eisenhower considerati sufficienti. Per quale ragione, si chiedeva il Presidente, «tie his hands by an instrument that may be oversufficient or insufficient? Why not let him act to meet the situations as they arise?», in CAB 120/597.
27 Cit. J. Ehrman, Grand strategy, vol. V, August 1943-September 1944, London, Her Majesty’s Stationery Office, 1956, p. 516.
28 Cfr. la lettera di Churchill ad Anthony Eden, ministro degli Esteri britannico, del 13 febbraio 1943, PREM 3/242/9, in cui il primo ministro affermava di non intendere assumersi la responsabilità di prolungare la guerra «a day longer than is necessary to achieve full victory» e il suo promemoria del 26 luglio, Thoughts on the fall of Mussolini, in cui ammetteva che, nella lotta contro Hitler, gli Alleati non potevano permettersi di rifiutare «any assistance that will kill Germans», CAB 120/583.
29 La citazione è ripresa dal telegramma inviato dal primo ministro allo Home Secretary il 29 luglio, in CAB 120/597.
30 La posizione di Churchill era espressa nel discorso alla Camera dei Comuni del 27 luglio 1943, il cui testo è conservato in PREM 3/242/11A.
31 Senza un documento di resa civile, stando ai parametri stabiliti dalla Hague Convention del 1907, gli Alleati non avrebbero goduto di alcun diritto se non di quelli riservati a una forza d’occupazione militare e di conseguenza di nessun privilegio nelle zone non sottoposte ad occupazione, una spiacevole situazione che avrebbe imposto un notevole dispendio di energie in cambio di un risultato assai meno soddisfacente. La posizione si trova definita nella comunicazione del Foreign Office alla legazione di Washington del 24 luglio, in FO 371/37307.
32 Cfr. una nota del Foreign Office, s.d., ma certamente risalente alla fine di luglio 1943, in CAB 120/597.
33 CAB 119/403, Joint Staff Mission al War Office, 3 luglio 1943.
34 Cfr. la nota del Foreign Office di fine luglio già citata.
35 Cfr. il telegramma di Eden a Halifax del 22 luglio 1943, in PREM 3/241/1.
36 Eden sosteneva che la firma dell’armistizio non avrebbe contraddetto il principio di resa incondizionata, dato che le condizioni sarebbero state dettate soltanto dopo la firma stessa, senza che si intrattenesse alcuna trattativa: la scelta offerta al governo italiano era tra la firma di un documento preparato dagli Alleati o la continuazione della guerra, cfr. il già citato Eden a Halifax del 22 luglio.
37 Si vedano il telegramma di Eden a Mosca del 7 luglio 1943 contenente il resoconto di un incontro con Ivan Maisky, in PREM 3/241/4, e il suo memorandum del 12 luglio indirizzato al WC, Administration of Italy after defeat and question of instruments of surrender, in CAB 120/597. Un linguaggio simile veniva riutilizzato in un telegramma di Churchill a Roosevelt, FO 371/37307.
38 Cit. Macmillan a Eden del 21 luglio 1943; per la risposta di Eden, v. il telegramma a Macmillan del 24 luglio. Entrambi i documenti in PREM 3/241/1.
Marco Maria Aterrano, Unconditional Surrender? La pianificazione istituzionale anglo-americana e la genesi dell’amministrazione alleata nell’Italia occupata. 1943, estratto, Annali della Fondazione Luigi Einaudi Onlus, Fondazione Luigi Einaudi Onlus, ottobre 2016, a. 49, Leo S. Olschki Editore

Nel frattempo la notizia della caduta di Mussolini giunse agli inglesi e agli americani i quali accolsero la stessa con stupore, per questo furono redatti immediatamente dei rapporti su come agire con il nuovo governo italiano: Churchill scrisse a Roosevelt che <<i cambiamenti annunciati in Italia preludono probabilmente a proposte di pace […] a ogni modo Hitler si deve sentire molto solo con Mussolini fuori scena>> e anche la risposta del presidente americano sottolineò come <<la caduta di Mussolini implicherà il crollo del regime fascista, mentre il nuovo governo del Re e di Badoglio cercherà di negoziare una pace separata con gli Alleati>> <107. Gli angloamericani s’accordarono per redigere un messaggio da inviare alla popolazione italiana nel quale si rallegravano della caduta del Duce, considerato <<il più grande ostacolo che divideva il popolo italiano dalle Nazioni Unite>>, e rassicuravano gli italiani sull’intenzione di cacciare i tedeschi dalla penisola, <<purché tutti i prigionieri britannici e alleati ora nelle vostre mani ci vengano restituiti salvi e non siano trasportati in Germania>> <108.
Il governo Badoglio si trovava ora di fronte alla difficoltà di intensificare i contatti con gli angloamericani cercando allo stesso tempo di tranquillizzare i tedeschi sulla fedeltà italiana all’Asse: naturalmente per i tedeschi era forte la probabilità che l’Italia uscisse in un modo o nell’altro dall’alleanza, per questo decisero di focalizzare l’attenzione sulla situazione interna italiana. Hitler premeva per un colpo di stato con arresto del Re e di Badoglio e la restaurazione del regime fascista, affidando il governo a un fedelissimo come Farinacci, ma poi Goebbels e altri gerarchi consigliarono di far finta di credere alle rassicurazioni italiane, intensificando però l’invio di truppe nella penisola, in particolare nel Mezzogiorno: infatti la preoccupazione principale in caso di abbandono italiano dell’alleanza e di uno sbarco alleato sul continente, era quella che le truppe tedesche fossero tagliate fuori e isolate. In alcuni casi vi furono soprusi nei confronti di militari e civili che fecero adirare il Comando Supremo Militare, nella persona di Roatta: egli avrebbe scritto in seguito che <<la nostra situazione militare […] non ci permetteva di opporci con la forza ai provvedimenti del Reich>>, inoltre <<le misure prese dallo Stato Maggiore […] non ebbero però il carattere di un’aperta materiale opposizione ma ebbero carattere precauzionale e armonizzato con le necessità, allora considerati preminenti, della difesa contro gli angloamericani>> <109.
Gli stessi mutarono la loro posizione intransigente nei confronti delle richieste italiane quando seppero dell’avvenuta rimozione di Mussolini: a questo proposito già il 28 luglio Churchill scrisse a Roosevelt che <<non dovremmo essere troppo schizzinosi nel trattare con un governo non fascista […] ora che Mussolini se n’è andato io aprirò trattative con un governo italiano non fascista che sia in grado di tener fede agli impegni>> <110; il Presidente americano era d’accordo con la linea del Primo Ministro inglese, lasciando agli italiani la possibilità di fare il primo passo.
A questo punto Badoglio e Vittorio Emanuele sciolsero gli indugi e delegarono il marchese Blasco d’Aieta Lanza, consigliere dell’ambasciata italiana a Lisbona ed ex capo di gabinetto di Ciano al Ministero degli Esteri, di iniziare la trattativa per l’armistizio; il diplomatico riuscì a prendere contatto con il parigrado britannico Robert Campbell, ma partì con il piede sbagliato poiché si discusse solo di possibili nuovi sbarchi alleati sul continente italico e non si fece cenno all’accettazione di una resa senza condizioni da parte dell’Italia rendendo la situazione paradossale: Roma, che ufficialmente era ancora alleata con i tedeschi e nemica degli alleati, voleva discutere le future manovre militari degli angloamericani come un alleato qualsiasi. Per questo la prima proposta fu rispedita al mittente e tutto ciò dimostrava come il governo non avesse inteso la drammatica situazione nella quale l’Italia si trovava; Campbell invece la illustrò al meglio in un telegramma a Londra nel quale affermava che <<i tedeschi sono furiosamente arrabbiati. Sono decisi a non lasciare liberi gli italiani e, se ci riescono, a fargliela pagare cara. Hanno il controllo completo. Hanno una divisione corazzata proprio fuori Roma e marceranno nelle città se vi è qualche segno di debolezza da parte degli italiani […] in queste circostanze il Re e Badoglio non hanno alternative che fingere di continuare la lotta […] egli (Lanza) non ha mai fatto cenno ai termini di pace e l’intera sua storia non è stato altro che un appello a salvare l’Italia dai tedeschi e anche da se stessa e di farlo il più velocemente possibile>> <111.
In quei febbrili giorni tra luglio e agosto 1943 altri canali di trattativa con gli inglesi furono aperti: uno da Alberto Berio, ambasciatore italiano ad Algeri, il quale incontrò il parigrado britannico e gli comunicò che Badoglio era pronto a trattare con il governo di Sua Maestà ma allo stesso tempo era impossibilitato a farlo di persona per il totale controllo dei tedeschi della zona di Roma, in più avvertì che almeno una divisione corazzata tedesca era pronta a occupare la capitale che sarebbe stata affidata a un governo militare. L’altro con un uomo d’affari italiano, tal Pierino Bussetti, che prese contatto con il console generale britannico affermando di aver ricevuto mandato da Ivanoe Bonomi, Vittorio Emanuele Orlando, Pasquale Saraceno e altri politici costituiti nel “Comitato d’azione dell’Italia libera”; questi spiegò che il governo Badoglio stava solo tentando di fare una pace di compromesso e non rappresentava il vero volere della nazione, quello di lottare contro il nazifascismo e chiese agli Alleati un riconoscimento ufficiale come governo provvisorio italiano. Questi tentativi di personaggi poco importanti nello scacchiere politico italiano irritarono gli inglesi che il 5 agosto fecero capire che l’unico modo di arrivare all’armistizio era, per l’Italia, quello di mettersi nelle mani dei governi alleati che avrebbero stabilito poi le loro condizioni, prevedendo una capitolazione onorevole; inoltre s’invitavano il governo e la monarchia a scegliere rappresentanti più qualificati e più presentabili.

[NOTE]
107 E. A. Rossi, L’inganno reciproco – L’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Ministero per i beni culturali e ambientali 1993, p. 127.
108 Ivi, p. 332.
109 E. A. Rossi, Una nazione allo sbando, op. cit., p. 77.
110 Ivi, p. 87.
111 E. A. Rossi, L’inganno reciproco, op. cit., pp. 161-162.

Vincenzo Aristotele Sei, Italia e Stati Uniti. L’alleato ingombrante (1943-1949), Tesi di laurea, Università della Calabria, 2014