Giuseppe Isnardi da Sanremo, mentore ineguagliato del paesaggio calabrese e teorico del civiliser sans le banaliser

Per la Collezione di Studi Meridionali, fondata da Umberto Zanotti-Bianco, è uscita una corposa e documentata monografia su Giuseppe Isnardi, frutto di un tenace lavoro di ricerca di Saverio Napolitano.
L’autore, animato da una concezione della storiografia che – per influenza, crediamo, anche delle Annales – è attenta alle figure minori, laterali, secondarie, e persino minime o marginali, ha scelto per questo libro un personaggio che ebbe una sua rilevanza negli anni del fascismo e poi nel dopoguerra, sino al 1965, anno della morte.
Fu attivo sino all’ultimo, ricoprendo fra l’altro la carica di direttore della rivista “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, come successore di Zanotti-Bianco.
Ma il suo nome è soprattutto legato all’Animi, vale a dire l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, a cui dedicò cinquant’anni di impegno appassionato.
Per molto tempo Isnardi è rimasto poco studiato, conosciuto in modo frammentario e superficiale, e quindi questo volume viene a colmare un vuoto storiografico.
E se Isnardi non ha la statura di altri personaggi del Novecento italiano, se anche ideologicamente ci appare per più versi gracile e nebuloso (dalla sua adesione, per altro sofferta, al fascismo nel 1932 sino all’approdo alla Democrazia
Cristiana nel dopoguerra, su posizioni ossequienti agli indirizzi ecclesiastici e tendenzialmente conservatrici), occorre però dire che quanto ha fatto è ricco di stimoli e suggestioni, e aperto su prospettive che non hanno dismesso la loro importanza e la loro attualità, a cominciare dalla sua decisione, lui nato a Sanremo e di formazione ligure e torinese, di recarsi in Calabria (contro-emigrato al Sud, direbbe Sanguineti), animato da quell’idea ancora risorgimentale
di operare per una forte coscienza nazionale unitaria, che Isnardi univa all’altro pensiero per lui fondamentale, quello del cattolicesimo sociale.
Ma l’interesse per la Calabria aveva altri motivi, ancora, e Isnardi sceglie di operare in quella terra, come scrive Napolitano, “sia per l’attenzione da subito manifestata ai lasciti della cultura classica nella visione storica regionale, sia per la curiosità verso la regione come spazio geo-antropico e come paesaggio (favorendo in tal modo l’immagine di sé, insistita ma riduttiva del geografo)”.
Geografo e pedagogista furono in effetti le definizioni che si usarono per classificare e denominare il lavoro culturale di Isnardi.
Nato nel 1886 (nonno materno era l’ingegner Giovenale Gastaldi, trasferitosi da Biella a Sanremo nel 1853 come imprenditore edile), compie gli studi superiori al liceo Gioberti di Torino e al liceo Cassini di Sanremo, e poi frequenta l’Università del capoluogo piemontese, dove segue le lezioni, fra gli altri, di Artutro Graf e Gaetano De Sanctis, e dove infine si laurea in lettere nel 1907, discutendo con Rodolfo Renier una tesi sui lavori giovanili di Leon Battista Alberti.
La Calabria fu presto vista da Isnardi come un paese “da recuperare – scrive ancora Napolitano – alla sua effettiva dimensione storica e dignità umana e civile: un’opera per la quale era improcrastinabile una capillare azione di alfabetizzazione del mondo rurale da «civiliser sans le banaliser», per riprendere l’efficace sintesi di Hélène Tuzet”.
Giuseppe Lombardo-Radice e Gaetano Piacentini nel 1920 gli propongono di dirigere le scuole dell’Animi in Calabria, nel 1930 Giovanni Gentile lo invita a redigere le voci sulla Calabria e i suoi centri per l’Enciclopedia Italiana (distribuite nei volumi comparsi fra 1930 e 1937).
Un meridionalista in vesti di pedagogo, potremmo dire, con una vocazione particolare allo studio dello spazio, del paesaggio, della storia. E un pedagogo del sociale, dobbiamo precisare, anche se forse tutta la pedagogia e non solo quella isnardiana è un’azione intrecciata con la vita della polis. Una delle forme alte della politica è proprio la politica culturale, e non c’è dubbio che è questo che ha fatto Isnardi in un’ampia parte dell’arco della sua vita.
“Io ho molta speranza nelle scolette diurne che istituiamo in campagna – scrive nel 1922 a Giustino Fortunato – sono la parte migliore del nostro lavoro. Di là bisogna cominciare”.
Fa il direttore regionale dell’Animi, l’ispettore scolastico, il viaggiatore per approfondire la conoscenza della realtà calabrese, indagarla per scoprirvi le orme di chi vi aveva operata e quindi il percorso storico delle comunità. Studia i processi di modernizzazione: ad esempio, nel 1927, i cambiamenti verificatisi nella Sila in seguito all’introduzione delle infrastrutture idroelettriche.
Scrive testi di storia e geografia per le scuole elementari.
Contesta il tradizionalismo didattico dei libri scolastici dedicati alle materie umanistiche.
Riesce persino a scrivere cose rivoluzionarie, come “Voto e bocciatura sono la triste coppia disfacitrice di tutta la migliore, vera opera della scuola”.
Una figura storica da riscoprire, dunque, e che ora effettivamente riscopriamo grazie allo studio di Napolitano. Il quale, oltre a scrivere in una prosa scorrevole e limpida nonostante la materia che poteva tentare ad una trattazione arida e fredda, non si lascia sfuggire agganci, riferimenti, aperture laterali. Valga per tutti la deliziosa paginetta su Edward Lear (“Eccentrico nella sua mise da passeggio inseparabile da un impermeabile biancastro, per il quale era conosciuto come «l’inglese in camicia da notte»…”), che, frequentatore dell’abitazione del nonno materno, progettista delle due ville matuziane fatte edificare dall’autore dei nonsenses, aveva probabilmente tenuto sulle ginocchia il buon Giuseppe Isnardi ancora infante.
Saverio Napolitano, Giuseppe Isnardi (1886-1965). Coscienza nazionale e meridionalismo, Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 2014
Marco Innocenti, ne IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna – Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM), anno VI, n° 1 (21), gennaio-marzo 2015

[…] Questa convergenza di intenti portò all’istituzione nel 1910 dell’ANIMI (Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, nella sua prima fase denominata ANIMEMI, Associazione Nazionale per gli Interessi Morali ed
Economici del Mezzogiorno d’Italia, sodalizio di volontariato riconosciuto quale Ente di diritto pubblico), che si prefisse, nello spirito di un meridionalismo di prassi e non di teoria, due obiettivi principali: la lotta all’analfabetismo e alle carenze igienico-sanitarie, di cui la malaria e la tubercolosi infestanti larghe aree del Mezzogiorno erano i problemi più gravi.
L’ispirazione alla fondazione dell’ANIMI scaturì proprio da un’inchiesta sulla condizione della Calabria aspromontana condotta nel 1909 (e pubblicata dalla Libreria Editrice Milanese nel 1910) da Giovanni Malvezzi e Umberto Zanotti-
Bianco (L’Aspromonte occidentale), con l’impegno di quest’ultimo proseguito da allora instancabile con un’inchiesta sullo stato dell’edilizia scolastica nella regione bruzia, con l’attività culturale (creazione della Collezione di studi meridionali tuttora edita dall’ANIMI) e soprattutto con iniziative a favore dell’assistenza sanitaria (apertura di ambulatori diagnostici e colonie per i bambini malarici o predisposti alla tubercolosi).
[…] La conoscenza dell’Italia, della sua geografia, del suo paesaggio, della sua storia, della sua arte, della sua cultura era l’indispensabile viatico per la conoscenza degli italiani tra di loro e della consapevolezza della comunanza di problemi e destino.
Non è retorico sottoline re questo aspetto, riguardo al quale ritengo che l’ANIMI abbia il non piccolo merito, con l’operato svolto sul territorio per la scolarizzazione e la sanità, di avere contribuito non poco alla conoscenza geografica e antropica (esemplari in proposito gli studi condotti da Giuseppe Isnardi) delle regioni meridionali, tra Otto e Novecento in larga parte ancora, per molte aree interne, delle terrae incognitae.
Saverio Napolitano, Alfredo Focà: «L’assistenza sanitaria nella Calabria di Umberto Zanotti Bianco», Rivista Calabrese di Storia del ‘900 – 2, 2016, pp. 79-82

Giuseppe Isnardi (Sanremo 1886 / Roma 1965) è ricordato non soltanto per il grande lavoro che svolse nell’Opera contro l’Analfabetismo per conto dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI), ma anche per l’acutezza e la passione profonda del suo approccio geografico e paesaggistico alla Calabria, terra di cui fu letteralmente innamorato per tutta la vita ed a cui dedicò decine e decine di scritti.
Ci occupiamo di Isnardi e del suo rapporto con la Calabria, attraverso un testo antologico edito nel 1985 da Laterza e che ha per titolo: “La scuola, la Calabria, il Mezzogiorno”, i tre temi, cioè, che furono al centro dei suoi interessi e del suo lavoro.
Nel 1912 Isnardi vinse il concorso per l’insegnamento nel ginnasio superiore e fu inviato a Catanzaro, dove iniziò la sua esperienza didattica. Intanto aveva avuto i suoi primi contatti con l’ANIMI, dalla quale, nel 1921 ricevette l’incarico di dirigere le scuole che questa gestiva in Calabria nell’ambito dell’Opera contro l’Analfabetismo affidata all’associazione dal governo italiano. Nel 1928, le mutate condizioni politiche sotto il fascismo, lo costrinsero a lasciare le scuole calabresi nelle mani dell’Opera Nazionale Balilla. La caduta del fascismo mise l’ANIMI nelle condizioni di riprendere il suo lavoro in Calabria e Isnardi accettò di trasferirsi a Roma, dove ebbe il ruolo di consulente didattico. Sempre nel 1951 divenne condirettore, insieme ad Umberto Zanotti Bianco, dell’”Archivio storico Calabria Lucania”.
Il volume di cui parliamo oggi comprende una serie si sezioni tematiche: una prima, “Sud e Nord e la Scuola Italiana”, che costituisce la ristampa del volume omonimo edito da Vallecchi nel 1920 a Firenze; una seconda, “Calabria: natura e gente”, che raccoglie una serie di brevi saggi apparsi su varie riviste o in volumi a più mani o in atti di congressi; una terza, “Calabria: luoghi e costumi”, che raccoglie, a sua volta, altri scritti apparsi sempre su riviste e volumi; una quarta, “Esuli, viaggiatori e descrittori”, dove sono raccolti scritti dedicati soprattutto ai viaggiatori stranieri in Calabria; una quinta “L’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno”, che comprende una mole di scritti riguardanti il lavoro svolto da Isnardi stesso e da altri per l’associazione soprattutto in Calabria.
Il contenuto del libro ci dice la sua importanza per conoscere quella parte di storia, umiliante e nello stesso tempo esaltante, che fu la prima metà del Novecento per la Calabria. Un’epoca in cui la regione, grazie al disinteressato apporto di uomini del Nord come Umberto Zanotti Bianco e Giuseppe Isnardi, per l’appunto, uscì almeno un poco dall’isolamento e dall’oblio in cui l’avevano gettata secoli di miserie, saccheggi, servaggio, scempi ambientali, desolazione.
La Calabria che traspare dagli scritti per così dire antropologici e sociologici di Isnardi è quella di una popolazione minuta (contadini e pastori dei paesi e dei villaggi isolati – come Sant’Angelo di Cetraro, che rappresentò per Isnardi quel che Africo fu per Zanotti Bianco – di Zanotti Bianchi e di Africo parleremo in commenti successivi –) completamente ripiegata su se stessa, senza più speranza, abbandonata da Dio e dagli uomini al proprio destino di sordida miseria, senza alcuna prospettiva di riscatto, dimenticata. Si legga, a questo proposito, “Contadini di Calabria” (parte III), in cui Isnardi, oltre al tema della povertà e dell’arretratezza endemiche delle campagne, affronta l’argomento di quel “familismo amorale” che abbiamo incontrato parlando del libro di Edward C. Banfileld, concepito come causa principale dei mali del Sud nel suo insieme e della Calabria in particolare. Ebbene, Isnardi, coraggiosamente e in controtendenza rispetto a Banfield, intravide in quel modo d’essere delle società contadine e pastorali più arretrate della regione “germi di sviluppo e di bene comunitario rimasti sino ad ora sconosciuti o malamente spregiati”; oppure dedusse “una fondata ragione di essere e di ancora permanere nella natura ambientale e nella rispondenza a queste facoltà umane, sì, ma anche nella indifferenza e nella scarsa carità civile di chi, lontano, dirige, governa e dice di fare giustizia”. Osservava, a questo proposito, Isnardi: “Non si esce senza pene e senza rischi da un oppressivo isolamento di secoli, da un inappagamento così lungo e così doloroso di aspirazioni, fossero pure semiconscie, ad un giusto, umano benessere”.
Isnardi, come suggerisce la curatrice del volume nell’introduzione, non si considerò mai uno scienziato, un sociologo. “Io non sono un uomo di scienza” ripeteva all’amico Roberto Almagià che lo esortava alla libera docenza in geografia; e aggiungeva con socratica umiltà: “non sono che un imbianchino della cultura”.
Al di là di ogni considerazione teorica e culturale, cercò di immedesimarsi con la gente, di vivere la sua esperienza meridionale dall’interno. Per questo non fu un meridionalista teorico, ma un operatore sul campo. E per questo scelse la scuola e l’alfabetizzazione delle popolazioni come suo principale campo d’azione.
Ma come studioso e conoscitore della realtà meridionale non cedeva certo al fatalismo. Come Giustino Fortunato e come Saverio Nitti, sapeva bene che “non la natura fu il nemico dell’uomo e l’impedimento, nel Meridione, ad affermazioni di una civiltà più complessamente evoluta, ma fu sempre l’uomo il nemico dell’uomo, nei lontani millenni e nei secoli recenti di sopraffazioni e di ingiustizie o di mancata giustizia da parte di chi se ne arrogava sinceramente il diritto”. Egli sapeva, come Corrado Alvaro, che i calabresi sono sempre esuli, evadono sempre, anche quando rimangono nel loro paese.
Nell’età matura – ma prodromi si erano avuti durante tutta la sua esperienza in Calabria – egli divenne, poi, mentore ineguagliato del paesaggio calabrese, dal quale rimase subito rapito (come, del resto, la gran parte dei viaggiatori stranieri che egli aveva accuratamente studiato) e che conservò sempre nel cuore. Le sue descrizioni del paesaggio calabrese ebbero il rigore scientifico dello studioso ma anche e soprattutto, la passione del letterato e, oserei dire, del narratore-poeta.
Della Calabria scrisse, tra l’altro, nel 1953: “Più di una volta è stata fatta la parola “architettura” a proposito del paesaggio calabrese; e veramente può dirsi che esso sia il volto di un vero e proprio capolavoro di architettura naturale […] Come avviene appunto in un complesso architettonico, massa si compone con massa, rilievo con rilievo, in un continuo variare di effetti prospettici e di illuminazione […]. Una disposizione di spirito abbastanza egoisticamente romantica, con la quale si possa essere venuti in Calabria per goderne il paesaggio, per “sentirne” la bellezza di terra lontana e favoleggiata, non tarda a scomparire o a dimostrarsi inadatta, dinanzi a tanta chiarezza di forme che vi pare abbiano una loro logica composizione, a tanta nitidezza di cose, cielo, montagne, colline, alberi, casolari, che vi par di vedere sempre attraverso una magica lente di cristallo e di avere vicine e familiari, mentre li sapete lontani e troppo spesso irraggiungibili allo scarso tempo di questa vostra felicità di rapiti contemplatori, dinanzi, infine a tanta visibile o che il cuore sa intuire, rispondenza dell’umano al terrestre. Restano altri sentimenti, e si formano altri stati d’animo, se la vita vi concede di rimanere e di fare meno incompleta la vostra esperienza: un’attrazione sottile ed insieme profonda, un respiro ampio di libertà ed una simpatia di tutto il vostro essere, fisico e spirituale, che poi la lontananza saprà mutare in una di quelle serene, non romantiche nostalgie che danno alla nostra maturità di vita un sapore indimenticabile”.
Francesco Bevilacqua