Gli anarchici nella Resistenza

Fonte: Margutte cit. infra

Nel giugno 1942 un convegno clandestino che si tiene a Genova indica al movimento un percorso di liberazione che esplicitamente prevede una prima tappa intermedia, e infatti così si esprime la mozione che ne scaturisce:
“Essendo il fascismo il primo caposaldo da demolire e ogni colpo da chiunque tirato sarebbe sempre desiderato, in questa azione ci troveremo gomito a gomito con l’arma in pugno anche con quegli elementi le cui finalità sono in contrasto con le nostre o sono indefinite […] Ma, caduto il primo caposaldo, cioè il fascismo, ogni corrente rivoluzionaria avanzerà le proprie rivendicazioni […] Perciò nostro preciso compito crediamo sia questo: lavorare contro il fascismo sì, con chiunque: ma esigere da chiunque il diritto all’affermazione dei nostri sacrosanti principi libertari”.
Risulta chiaro fin da subito quindi come gli intenti della lotta siano fermamente rivoluzionari, ma anche come si tenga in considerazione e facilmente si profetizzi che molti fra i possibili compagni di strada dell’oggi potranno domani mutarsi in avversari. Per questo stesso periodo le fonti di polizia riferiscono che, da parte di anarchici non meglio precisati residenti in Piemonte, in Lombardia e nelle Marche, viene fondato un movimento antimilitarista denominato “PERDERE PER VINCERE” dedito alla diffusione di stampa clandestina e sovvenzionato dal noto Luigi Bertoni di Ginevra.
Ma la spinta decisiva si può dire che giunga dai confinati. E’ un nutrito gruppo di anarchici quello che si trova ancora relegato nelle isole, soprattutto a Ventotene. Si tratta per lo più di militanti ormai temprati dalle battaglie, in molti casi già estradati dalla Francia (dal campo di concentramento di Vernet d’Ariège), paese nel quale erano a suo tempo rientrati dopo aver partecipato alla guerra di Spagna. Nelle famose ‘mense’, strutture logistiche del confino formate secondo criteri di affinità e appartenenza politica, si discute intanto animatamente dei programmi e delle prospettive unitarie della lotta antifascista. Ad esempio il direttivo comunista di Ventotene, alla vigilia della caduta di Mussolini, vota un documento che, mentre prefigura e delimita in modo preciso il campo delle alleanze, indica contemporaneamente gli altri nemici da battere oltre ai fascisti e lancia la parola d’ordine della “Lotta senza quartiere contro i nemici dell’unità proletaria (nel P.S., Modigliani e Tasca) nel massimalismo gli antisovietici e anticomunisti, negli anarchici gli anticomunisti”. Invece fra i componenti della numerosa colonia degli anarchici, seconda per numero in quell’isola popolata da circa ottocento confinati, in una assemblea plenaria si cerca piuttosto di sanare i contrasti annosi fra compagni del movimento, di rilanciare la lotta operaia, di riallacciarsi a quella pratica dell’unità proletaria già sperimentata in epoca prefascista.
Intanto nel meridione appare significativo quanto si verifica a Cosenza dove già nell’ottobre 1942 gli anarchici fondano un ‘Comitato provinciale del Fronte unico nazionale per la libertà’.
Dopo il convegno clandestino di Genova si infittisce ulteriormente la rete dei contatti fra i piccoli gruppi informali già esistenti un po’ ovunque e le individualità in particolare nell’Italia centrale. L’artefice principale di tutto questo lavorìo è il vecchio Binazzi di Torre del Lago, già redattore a La Spezia del settimanale “Il Libertario”; il primo importante risultato conseguito sul piano organizzativo è la convocazione di una serie di convegni clandestini interregionali che si tengono tutti a Firenze; questo mentre vivi sono gli entusiasmi per le notizie, fornite dalla stampa clandestina, sui primi scioperi operai nelle fabbriche del nord. Il 16 maggio 1943, nell’abitazione del fornaio Augusto Boccone, si tiene la prima di queste riunioni che formalmente costituisce la Federazione Comunista Anarchica Italiana. Sono presenti delegati provenienti da Bologna, Faenza, Genova, La Spezia, Livorno, Firenze, Torre del Lago, mentre avevano inviato la loro adesione i gruppi di Carrara e Pistoia. Vengono così stampate a cura del tipografo Lato Latini, e diffuse nelle varie località, mille copie di un manifestino contenente un appello ai lavoratori ed il programma minimo della neocostituita federazione.
In esso si ribadiscono i punti cardine sui quali incentrare la lotta rivoluzionaria: rifiuto della guerra in quanto prodotto del sistema capitalistico; appoggio ad ogni forma di opposizione al regime nell’ambito di un antifascismo intransigente; per la libertà di pensiero, di stampa, di associazione e anche contro ogni forma possibile di dittatura rivoluzionaria transitoria; contro la monarchia e per la costituzione di “libere federazioni di comuni, autonomi, composte di liberi produttori”.
Certamente si pone anche la questione dei rapporti con il Pci, la cui organizzazione clandestina dimostra peraltro grande efficienza e penetrazione nelle masse. Così, sempre a Firenze, si tiene, poco dopo l’uscita pubblica di questo programma minimo, un incontro segreto fra una delegazione ristretta di esponenti anarchici e una del Pci. Non si hanno notizie precise sugli argomenti all’odg per questo inusuale rendez-vous, se non che il risultato “fu un fiasco”.
La caduta del fascismo, l’avvento della nuova dittatura militare di Pietro Badoglio con il 25 luglio, ed il suo noto proclama agli italiani sulla guerra che continua, con l’avvertenza perentoria alla sinistra rivoluzionaria che “chiunque si illuda di turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito”, fanno ulteriormente surriscaldare il clima di attesa impaziente fra i confinati. La così detta ‘storia dei 45 giorni’, iniziandosi con il coinvolgimento in ambito governativo di un comitato delle opposizioni antifasciste, vede per forza di cose la parziale risoluzione della questione confino. Il capo della polizia Senise invia un dispaccio urgente a tutte le direzioni delle colonie: “Prego disporre subito scarcerazione prevenuti disposizione autorità PS responsabili attività politiche escluse quelle riferentesi comunismo e anarchia”.
I primi a partire da Ventotene (dove è direttore Marcello Guida, futuro questore di Milano nel 1969) dopo la compilazione delle liste distinte per gradi di pericolosità politica, sono gli ‘antifascisti democratici’ e quelli di ‘G.L.’, dopo i socialisti, infine i comunisti. Restano alla fine nell’isola circa 200 confinati politici fra anarchici e cittadini italiani di origine slovena o croata. Ma il dispaccio ministeriale che dispone la liberazione anche di questi ultimi coatti giunge quando questi sono già stati ormai avviati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari (Arezzo) – uno dei peggiori d’Italia sia per il numero di internati (in genere prigionieri di guerra slavi) che per i comportamenti del personale di sorveglianza – ove giungono dopo varie peripezie il giorno 23 agosto. A questo punto gli anarchici sono rimasti in sessanta circa. L’8 settembre i prigionieri chiedono in massa le armi per opporsi all’occupazione tedesca e per tutto il giorno seguente si organizzano comizi nei vari settori del campo. Nella rivolta rimane ferito Alfonso Failla. La via della fuga di massa da Renicci, con i tedeschi alle porte, è dunque aperta da questo episodio di ribellione.
A Firenze intanto, nella clandestinità, rivede la luce “Umanità Nova” già soppresso dal fascismo, tiratura iniziale 1800 copie, destinata a quadruplicarsi nei due anni successivi. Il primo numero esordisce con l’editoriale: “Salute a Voi, o compagni d’Italia e di tutti i paesi; noi, dopo un lungo e forzato silenzio, riprendiamo con immutata fede il nostro posto di battaglia per la liberazione di tutti gli oppressi”.
Per tutto il 1944 gli anarchici d’Italia, pur nelle differenti situazioni locali e talvolta in condizioni di estrema debolezza, impegnati nel movimento partigiano, caratterizzeranno la loro azione nel senso dell’antifascismo intransigente e della preparazione insurrezionale, della ricerca anche di programmi da attuare nel concreto per la fase di transizione. Si pubblica così un nuovo ‘programma minimo’ che denota, sull’onda della impostazione berneriana del 1935, importanti punti di contiguità con il filone azionista-repubblicano e liberalsocialista. Non mancheranno comunque gli appelli “ai socialisti onesti” ed alla collaborazione fattiva con la base del Pci.
La proposta anarchica del ‘Fronte Unico dei Lavoratori’ si inserisce nei contesti diversificati della lotta armata e della criticata esperienza dei CLN, della riorganizzazione del movimento operaio a sud e nelle zone liberate, innescando però non poche contraddizioni. Ci si oppone comunque, dentro la Confederazione Generale del Lavoro, al nuovo totalitarismo sindacale dominato dai partiti.
Si cercano anche effimere alleanze con i settori della dissidenza comunista come nel caso della fondazione a Milano nel 1944 della Lega dei Consigli Rivoluzionari. Ma i nemici più convinti di qualsiasi possibile versione del Fronte Unico rivoluzionario dei lavoratori sono gli Alleati i quali, tramite connivenze ad ogni livello, non esitano a fare abbondante uso di sistemi repressivi giungendo fino all’eliminazione fisica di quadri scomodi della Resistenza, come nel caso degli anarchici piacentini Canzi e Fornasari.
La fine del regime mussoliniano coincide nel meridione con la rinascita e lo sviluppo di quel filone socialista-libertario popolare e contadino rimasto allo stato di latenza negli anni del fascismo. Per gli anarchici che si trovano nel Regno del Sud si tratta di combattere una vera e propria guerra su due fronti e non solo dunque contro i nazifascisti, per la libertà di stampa e di organizzazione negata dagli eserciti ‘liberatori’ delle grandi nazioni democratiche.
Alla vigilia dell’insurrezione di aprile i partigiani anarchici lanciano, dalla Genova dei portuali, l’ultimo appello al popolo, mentre ancora da Firenze “Umanità Nova” ripubblica il ‘programma minimo’.
La Resistenza si sviluppa come è noto in quei territori dell’Italia centro settentrionale rimasti in mano tedesca e costituenti la Repubblica Sociale Italiana. Gli anarchici partecipano alla lotta armata in maniera cospicua quanto a tributo di uomini e di sangue, ma subiscono d’altro canto totalmente l’egemonia delle altre forze della sinistra. Talvolta militano in proprie specifiche formazioni partigiane, ma più spesso si trovano inquadrati nelle “Garibaldi”, nelle “Matteotti” o in G.L.
A Roma gli anarchici sono presenti in particolare nella formazione comandata dal repubblicano Vincenzo Baldazzi, personaggio noto per la sua antica amicizia per Malatesta. Fra i caduti: Aldo Eluisi alle Fosse Ardeatine; Rizieri Fantini, fucilato a Forte Bravetta; Alberto Di Giacomo detto ‘Moro’ e Giovanni Gallinella deportati a Mathausen senza ritorno; Ettore Dore (di origine sarda, già combattente della colonna Ascaso in Spagna) rimasto ucciso durante una missione oltre le linee.
Nelle Marche gli anarchici militano nelle differenti formazioni partigiane presenti ad Ancona, Fermo, Sassoferrato e a Macerata dove cade Alfonso Pettinari, già confinato, commissario politico in una brigata ‘Garibaldi’.
Piombino operaia, centro siderurgico con una notevole tradizione libertaria e sindacalista rivoluzionaria, è la protagonista di una sommossa popolare contro i nazifascisti già il 10 settembre 1943. Fra i protagonisti dell’insurrezione Egidio Fossi, Renato Ghignoli e Adriano Vanni; quest’ultimo attivo poi nella resistenza in Maremma.
A Livorno gli anarchici sono tra i primi ad impadronirsi delle armi custodite nelle caserme e nell’Accademia navale di Antignano al fine di rifornire le bande partigiane. Inquadrati nei GAP e nella Divisione Garibaldi partecipano ad operazioni di guerriglia nelle provincie di Pisa, Livorno e in Maremma. Nell’opera di liberazione dei rastrellati e carcerati si distinguono fra gli altri Virgilio Antonelli, a sua volta già confinato ed internato dal 1926 al 1941 quasi ininterrottamente, e Giovanni Biagini.
Consistente e determinante l’apporto libertario nella resistenza apuana che qui assume anche le caratteristiche di vera e propria guerra sociale. Sono attive nella zona di Carrara formazioni partigiane libertarie, complessivamente composte da oltre un migliaio di uomini, denominate: “G.Lucetti”, “Lucetti bis”, “M.Schirru”, “Garibaldi Lunense”, “Elio”, SAP “R.Macchiarini”, SAP-FAI. Dopo l’8 settembre un gruppo di anarchici fra cui Romualdo Del Papa guidano l’assalto alla caserma Dogali e spingono gli alpini a disertare e ad aderire alla lotta partigiana. Nasce così la “Lucetti” comandata da Ugo Mazzucchelli e che agisce nell’ambito della Brigata Apuana. Alla fine del 1944 lo stesso Mazzucchelli, a seguito di un rastrellamento che costa la vita a sei dei suoi uomini, ripara in Lucchesia salvo poi rientrare prima dell’arrivo degli alleati a liberare Carrara con la sua formazione “Schirru”. Fra i partigiani anarchici più conosciuti vi sono inoltre il comandante Elio Wochievich, Venturelli Perissino, Renato Macchiarini, il giovanissimo Goliardo Fiaschi, Onofrio Lodovici, Manrico Gemignani, i figli di Mazzucchelli Carlo e Alvaro, Alcide Lazzarotti, ecc..
A Lucca ed in Garfagnana, sui cui monti agiscono anche militanti pistoiesi e livornesi, gli anarchici sono soprattutto presenti nella formazione autonoma comandata da Manrico Ducceschi “Pippo”. Fra i partigiani libertari lucchesi noti vi sono: Federico Peccianti, nella cui casa si riunisce il CLN; Luigi Velani, aiutante maggiore nella “Pippo”.
A Pistoia agisce la formazione anarchica “Silvano Fedi” composta da 53 partigiani. Il primo gruppo di resistenza si costituisce ad opera di Egisto e Minos Gori, Tito e Mario Eschini, Tiziano Palandri e Silvano Fedi. Leggendaria la figura del giovane comandante da cui prende il nome la banda, vittima di una imboscata – dai contorni poco chiari (come testimonierà il vicecomandante Enzo Capecchi) – tesagli dai tedeschi e su probabile “delazione di italiani”. La stessa formazione, con Artese Benesperi alla testa, è la prima ad entrare in Pistoia liberata.
A Firenze si costituisce, alle dipendenze del comando militare del Partito d’Azione, una prima banda armata che agisce sul vicino monte Morello comandata dall’anarchico Lanciotto Ballerini, caduto in combattimento medaglia d’oro alla memoria. Al poligono di tiro delle Cascine sono fra gli altri fucilati gli anarchici Oreste Ristori, settantenne già coatto nel 1894, e Gino Manetti. In provincia di Arezzo gli anarchici sono presenti nella resistenza in Valdarno, con un’attiva partecipazione anche ai CLN locali, ed in Valtiberina con Beppone Livi “Unico” che assolve compiti di collegamento fra la formazione ‘Bande Esterne’, i comitati di liberazione aretino e toscano, ad Arezzo e a Firenze.
A Ravenna si ha una folta presenza libertaria nella 28^ Brigata Garibaldi e rappresentanza adeguata nel CLN provinciale. La prima pattuglia partigiana che entra in Ravenna liberata è comandata dall’anarchico Pasquale Orselli. Notevole il tributo di sangue.
In provincia di Bologna e Modena gli anarchici contribuiscono alla costituzione delle prime brigate partigiane a Imola con la “Bianconcini”, ed a Bologna con la “Fratelli Bandiera” e la “7^ Gappisti”. A Reggio Emilia cade fucilato Enrico Zambonini; un distaccamento della ‘Garibaldi’ prenderà il suo nome. A Piacenza si ergono le figure di Savino Fornasari e di Emilio Canzi, accomunati dal singolare destino di morire in incidenti stradali causati da automezzi alleati. Canzi in particolare comanda tre divisioni e 22 brigate, per un totale di oltre diecimila partigiani!
Le formazioni di La Spezia e Sarzana agiscono in stretto contatto con quelle della vicina Carrara con due gruppi comandati dagli anarchici Contri e Del Carpio. Renato Olivieri, già detenuto politico per 23 anni, e Renato Perini cadono durante uno scontro a fuoco con i nazifascisti.
A Genova la presenza libertaria nella resistenza supera i 400 partigiani (“Pisacane”, “Malatesta”, SAP-FCL, SAP-FCL Sestri Ponente), di cui 25 caduti in combattimento. Qui la Federazione Comunista Libertaria, fallita l’ipotesi di Fronte Unico, deve affidarsi per la lotta armata unicamente alle proprie forze.
Nella Torino industriale, particolarmente alla FIAT e durante l’insurrezione alle ‘Ferriere Piemontesi’, agisce la formazione anarchica denominata 33° battaglione SAP “Pietro Ferrero”. Fra i caduti: Dario Cagno, fucilato per complicità nell’uccisione di un gerarca, e Ilio Baroni, già ardito del popolo a Piombino. Nell’astigiano si registrano invece presenze libertarie fra i ‘garibaldini’.
A Milano la lotta clandestina è iniziata da Pietro Bruzzi che viene subito catturato ed ucciso dopo tortura dai nazifascisti. Gli anarchici dopo la sua morte costituiscono le brigate “Malatesta” e “Bruzzi” forti di 1300 partigiani, in un secondo momento inquadrate nelle formazioni “Matteotti” e che avranno, sotto il comando di Mario Perelli, un ruolo di primo piano nella liberazione di Milano. A Como opera la “Amilcare Cipriani”; in provincia di Pavia la 2^ Brigata “Malatesta”; mentre nel bresciano gli anarchici sono attivi in una formazione mista G.L.-Garibaldi.
A Verona l’anarchico Giovanni Domaschi (11 anni di carcere e nove di confino, due evasioni) fondatore del locale CLN, viene arrestato dai tedeschi e deportato a Dachau dove muore.
In Friuli Venezia Giulia alcuni anarchici sono inseriti in formazioni comuniste come la Divisione Garibaldi-Friuli. A Trieste i collegamenti con i partigiani sono tenuti da Giovanni Bidoli, poi scomparso nei lager tedeschi insieme a Carlo Benussi, un altro anarchico friulano. Attivo anche Nicola Turcinovic che ben presto però si trasferisce da Trieste a Genova dove continua a militare nelle formazioni partigiane della FCL. Nell’alta Carnia, dove Italo Cristofoli muore durante l’assalto alla caserma tedesca di Sappada, gli anarchici contribuiscono alla costituzione di una Zona Libera autoamministrata.
“Le loro formazioni di combattimento – ha scritto Cerrito in merito alla partecipazione anarchica alla Resistenza – rimangono legate al Partito Comunista, al Partito Socialista, al Partito d’Azione. Nei CLN ai quali partecipano con delegati qualificati non riescono mai ad imporre una linea politica rivoluzionaria, un atteggiamento in qualche modo orientato in senso libertario. Anche se essi non sono secondi a nessuno nella lotta armata contro il nazifascismo, non riescono a superare il gradino di inferiorità psicologica in cui li pone la loro carenza organizzativa e la mancanza di un programma politico uniforme”. […]
Giorgio Sacchetti, Gli anarchici nella Resistenza. Dalla clandestinità alla lotta partigiana, SocialismoItaliano1892, 22 aprile 2018

[…] Hanno le idee chiare i libertari che si incontrano a Sestri Levante nel giugno del 1942. Mussolini è al potere da vent’anni e i militanti di lungo corso del movimento anarchico sono ormai decimati.
Molti sono caduti nelle reti dell’Ovra. Altri, dopo essere accorsi in Spagna per difendere la rivoluzione sociale, sono finiti sotto il fuoco incrociato di franchisti e stalinisti. Chi tra questi è scampato alla limpieza dei falangisti o alle purghe degli sgherri della GPU, è rimasto intrappolato nei campi profughi in Francia. Ma il movimento anarchico ha imparato da tempo come rialzarsi. Nel congresso ligure del 1942, mentre si sta discutendo della nascita di una Federazione Comunista Libertaria, prende parallelamente corpo l’idea di promuovere un “Fronte Unico dei Lavoratori”: un’alleanza rivoluzionaria rivolta a tutte le forze antifasciste che guardano alle classi lavoratrici. Anche se Mussolini sembra solidamente al potere, il suo tramonto è già iniziato: in Grecia, in Albania, in Jugoslavia le forze partigiane non danno tregua alle truppe di occupazione italiane. Senza l’aiuto tedesco il Duce sarebbe già crollato.
Gli anarchici lo hanno capito. Loro – che anni prima avevano provato ad abbattere il tiranno con l’azione diretta, con gli attentati – ora si preparano a ingrossare le fila di un’opposizione che silenziosamente cresce. A volte basta una scintilla: e la primavera del 1943 sembra annunciare l’incendio.
Una grande spallata al regime fascista arriva con gli scioperi nelle grandi città industriali del nord nel marzo 1943. La regia capillarmente più diffusa è quella delle cellule comuniste, ma non sono i soli a incitare alla rivolta. A Milano si distingue l’attività di organizzatore sindacale dell’anarchico Augusto Castrucci. È lui a ricostruire, clandestinamente, una delle organizzazioni di categoria, quella dei macchinisti ferrovieri, tra le più combattive nelle lotte sul lavoro.
Il ruolo degli agitatori e delle organizzazioni, fossero pure anarchiche, non deve essere sopravvalutato. C’è anche molto spontaneismo in questa ondata di scioperi. La lotta è sociale, prima ancora che politica. La guerra significa razionamento, bombardamenti e figli, mariti o fratelli che partono per fronti lontani, da cui non giungono notizie rassicuranti. In alcuni distretti industriali il malcontento circola dalla fine del 1942: accade negli stabilimenti metalmeccanici di Torino, in quelli chimici di Milano, come nelle acciaierie liguri e toscane.
L’eco delle agitazioni oltrepassa la censura e arriva anche nelle isole di confino politico, dove fremono gli antifascisti condannati dal Tribunale Speciale. Si inizia a respirare un’aria diversa: “E vedi che ora tocca a lui, e va giù. Vedi che cade”, si mormora pensando al crapùn, al ceruti, a pasta-e-fagioli – i tanti nomi che gli antifascisti davano a Mussolini.
[…] Spesso ci sono carismatici anarchici alla guida di formazioni partigiane di varia estrazione che poi, solo in seguito, nella costruzione e sedimentazione della memoria, saranno ricordate come politicamente ben orientate.
Possiamo seguire la nascita torinese dei GAP, i Gruppi di Azione Patriottica, che resteranno, in seguito, scolpiti nella memoria collettiva per le pagine scritte dal comunista Giovanni Pesce. Eppure i primi gappisti a Torino sono Dario Cagno, un anarchico, e Ateo Garemi, un comunista, che uccidono il 25 ottobre 1943 un seniore della milizia fascista. Un delatore li denuncerà e saranno fucilati due mesi dopo. Ma se a Garemi viene intitolata addirittura una brigata Garibaldi, di Cagno quasi si perde il ricordo. Così come avviene per l’azione solitaria, sempre a Torino, di un altro anarchico, Alessandro Brusasco, forse il primo partigiano della città. Siamo appena alla fine di settembre del 1943 quando questo cameriere diciottenne di origine astigiana decide in autonomia di lanciare delle bombe, probabilmente rubate il 25 luglio, su un posto di blocco delle SS naziste, appostate nel centro della città. Catturato e torturato, muore gettandosi dalle scale della propria abitazione il 27 settembre 1943.
Oppure si possono seguire le vicende dell’istriano Michele Turcinovich, la cui vita potrebbe riempire interi romanzi d’avventura. Nativo di Pola, emigra in Argentina negli anni Venti dove entra nell’organizzazione anarco-sindacalista del FORA. Poi ritorna in Europa, prima in Belgio e in Francia e quindi in Spagna. Qui è attivo nella CNT, per conto della quale sarà reclutatore di volontari nella “Columna Ascaso” – nota anche come “Colonna Rosselli -, nel 1936, all’inizio della guerra civile, che per gli anarchici significa anche rivoluzione sociale. Tornato in Italia, è confinato a Ventotene e ottiene la libertà solo a ridosso dell’8 settembre. Ritorna nella sua Istria dove entra a far parte delle forze della resistenza jugoslava, ma poi – per evidenti dissidi politici – abbandona la regione. Lo ritroviamo, instancabile, a Genova, dove organizza la resistenza degli operai dell’Ansaldo, dando vita alla brigata SAP “Malatesta”: così stimato da essere uno dei pochi anarchici a essere invitato a prendere parte al CLN di una grande città industriale.
Seguire le traiettorie biografiche degli anarchici nelle Resistenza aiuta a decostruire alcune narrazioni, spesso retoriche e sclerotizzate, che poco rendono giustizia alla complessità e alla stratificazione di significati della lotta antifascista. Non sono solo gli anarchici a essere “esclusi” nella rappresentazione pubblica: lo sono spesso state istanze a forte connotazione rivoluzionaria e di classe che, seppur minoritarie sul piano complessivo nei rapporti di forza, avevano localmente grande radicamento.
È il caso del Movimento Comunista d’Italia a Roma, che pubblica la rivista clandestina “Bandiera Rossa” e che contende al PCI l’egemonia della resistenza romana. Forte di circa 2500 aderenti, questo gruppo rivoluzionario contestava la linea moderata impartita da Togliatti ai comunisti: la lotta contro l’occupante nazista e contro il fascismo doveva essere, secondo i rivoluzionari romani, il primo passo verso la rivoluzione del proletariato. Eterogeneo nelle sue componenti fondatrici – bordighiani, sinistra socialista, comunisti, ex anarchici – l’MCI-Bandiera Rossa metteva insieme intellettuali e appartenenti alle classi popolari. Le sue roccaforti erano alcune borgate romane, in particolare il rione Ponte e il Quarticciolo, dove Guido Albano, detto “il gobbo”, aveva reclutato quei ragazzi del sottoproletariato che sapevano dare filo da torcere ai nazisti con azioni mordi e fuggi. Sono in pochi a ricordare che, dei 335 fucilati nella rappresaglie delle Fosse Ardeatine nel marzo del 1944, 52 erano militanti di Bandiera Rossa.
[…] Nel nord-ovest industriale la scena della sinistra di classe è davvero varia. Sono le aree in cui il proletariato che abita le borgate e le cinture operaie è un vero e proprio soggetto collettivo autonomo. Anche se gli operai riconoscono alle forze politiche del CLN, soprattutto nella fase finale della guerra, un sostanziale primato, non mancano forze alternative. Ai bordighiani del Partito Comunista Internazionalista che, sulla rivista Prometeo, fanno appello affinché la classe operaia rifiuti nettamente il nazionalismo patriottico, si affiancano i “proto-operaisti” de Il Lavoratore, fortissimi nell’organizzare operaie e operai nell’area a ovest di Milano. È qui – a Magenta, a Saronno, a Legnano, a Gallarate – che nel gennaio del 1944 gli scioperi inchiodano la produzione. La repressione nazista, che scavalca le autorità della Repubblica Sociale, è feroce: un centinaio di operai, accusati di essere agitatori sindacali sono deportati in Germania.
I fratelli Mauro e Carlo Venegoni, fondatori de Il Lavoratore, provano a prendere contatto con i comunisti torinesi di Stella Rossa, con i quali condividono la critica nei confronti della dirigenza del PCI. Nella lotta in corso – è il punto di vista che il gruppo milanese e quello torinese condividono – vi sono solo due tappe: la prima è la battaglia contro il fascismo, la seconda, e conseguente, è la guerra alla borghesia capitalista. In questo senso l’unità nazionale con i liberali e con i cattolici è un errore gravissimo.
Va da sé che i comunisti di Togliatti, intenti a conquistarsi l’egemonia tra i lavoratori, non possono permettersi critiche da sinistra. Pietro Secchia, sulla stampa del PCI, accusa incredibilmente queste fazioni – che hanno avuto decine di militanti deportati – di essere al servizio dei tedeschi. In un articolo intitolato Il sinistrismo maschera della Gestapo si leggono parole che riportano all’orecchio l’eco di quanto già accaduto in Spagna nel 1937 con il Poum. Nel giugno del 1944, Temistocle Vaccarella, esponente di punta del gruppo torinese di Stella Rossa, si reca a Milano per stringere accordi con gli altri gruppi della resistenza operaia. Non farà mai più ritorno a Torino: una mano ignota lo ha assassinato. […]
Marco Meotto, La Resistenza che c’era e che non c’è. Storie di anarchici, sottoproletari, internazionalisti, Pagine di Storia Pubblica, 24 aprile 2020

Mario Orazio Perelli – Fonte: rapsodieletterarie cit. infra

[…] Perelli sarà il principale animatore del gruppo “storico” degli anarchici milanesi e spingerà i suoi a cercare un coordinamento anche con la “Colonna mista” guidata da Germinal Concordia, una formazione che, come abbiamo visto, raggruppava antifascisti di vario orientamento politico, ma anche fascisti “pentiti”, consapevoli del fatto che il regime era arrivato al capolinea. Ciò non deve stupire più di tanto, considerando che, per non pochi giovani e giovanissimi, l’adesione alla Resistenza avvenne in seguito al brusco risveglio dall’illusione fascista, illusione alla quale erano stati educati per tutta una vita. Ad ogni modo, le resistenze all’interno del gruppo di Perelli sono tante: ci si chiede se abbia senso e soprattutto se sia prudente cooperare con sconosciuti, gente che politicamente è ritenuta inaffidabile. Collaborare con un gruppo di ex fascisti, anche se di buone intenzioni avrebbe potuto compromettere il movimento. C’è poco da fidarsi, insomma, dicono i compagni. Ma Perelli e Pietropaolo sentono l’urgenza di mobilitarsi. E di rischiare. Il pericolo dell’isolamento e dunque dell’inefficacia dell’azione partigiana, li spingono a cercare un incontro con la Colonna Mista e a convincere i compagni della bontà di questa scelta. E alla fine, l’unione con la formazione di Concordia trova uno sbocco politico nella creazione della Lega dei Consigli, organismo di raccordo dei vari consigli clandestini nati nelle fabbriche e in strada ad opera dei socialisti più radicali e dei comunisti libertari, e che si pone in contrasto con il CLN e la sua posizione giudicata troppo compromissoria con la Monarchia. Alla Lega aderiscono nel gennaio del 1945 i libertari, il Movimento di Unità Proletaria, i repubblicani rivoluzionari e i comunisti dissidenti.
L’ingresso nel Corpo Volontari della Libertà e l’insurrezione generale
Tuttavia, nonostante questa posizione di forte critica al CLN, le nascenti Brigate Malatesta sentono il bisogno di entrare nel Corpo Volontari della Libertà. I motivi sono vari: da un lato, vi è la necessità di uscire dall’isolamento e dunque di accedere più facilmente a rifornimenti di armi e di viveri; dall’altro, vi è l’esigenza di evitare lo scontro con il PCI, il quale vede sempre più di mal occhio la creazione di una formazione partigiana anarchica.
Così, a più riprese, le varie brigate Malatesta entrano nel Corpo Volontari della Libertà: nell’estate del 1944 Germinal Concordia e i suoi aderiscono alle Matteotti; poi, nel febbraio del 1945, è il turno della IIª brigata Malatesta operante vicino Pavia, che viene inquadrata nella 1ª divisione Garibaldi Sap pavese; infine, nell’aprile del 1945, poco prima dell’insurrezione generale, il gruppo milanese coordinato da Perelli entra anch’esso nelle Matteotti11. In questa stessa formazione viene inquadrata anche un’altra brigata autonoma, a forte componente anarchica e dunque in probabile collegamento con le brigate Malatesta: la brigata Franco, nelle cui fila opera una giovanissima staffetta partigiana di nome Giuseppe Pinelli. È qui che Pino incontra l’anarchismo, condividendo il suo impegno politico con Angelo Rossini, un giovane fruttivendolo che per primo gli parla di Malatesta, Armando Borghi, Pietro Gori, Bakunin e Kropotkin. È lo stesso Rossini che figura nell’elenco dei partigiani della Iª brigata Malatesta.
Nel frattempo, il movimento anarchico milanese subisce un colpo durissimo: nel febbraio del 1945 viene fucilato dai fascisti Pietro Bruzzi, redattore del periodico clandestino “L’adunata dei refrattari” nonché anarchico di lungo corso, che ha dovuto subire una lunga serie di persecuzioni, arresti e infine l’esilio. Qualche giorno prima, i compagni aveano preparato un piano per farlo evadere; erano anche riusciti a ottenere un colloquio in carcere e gli avevano esposto il piano. Ma Bruzzi aveva respinto con forza questa eventualità. Non vuole mettere a repentaglio la vita dei suoi compagni. Non si sente realmente in pericolo. Ma si sbaglia. Il 17 febbraio, un ufficiale tedesco è in sella alla sua bicicletta per le strade di San Vittore Olona, viene affiancato da altri due ciclisti e freddato a colpi di pistola.
Qualche giorno dopo, i nazifascisti si recano nel luogo dove è stato ammazzato il proprio camerata. Con loro hanno due prigionieri politici. Uno è Leopoldo Bozzi, un giovane antifascista. L’altro è Pietro Bruzzi. I militari scendono dalle camionette e formano un plotone d’esecuzione sotto gli occhi degli abitanti del paese. Un attimo dopo, i corpi dei due prigionieri giacciono sul terreno privi di vita e i nazisti pretendendo che le loro salme rimangano lì, sulla strada, per giorni, come avvertimento. Fino a che una mano clemente sfida l’ira dei carnefici e porta i due cadaveri al cimitero. Da quel momento le Brigate Malatesta vengono intitolate anche a Pietro Bruzzi. In particolare, prendono il nome dell’anarchico lodigiano una delle due brigate attive a Milano e quella operante sulle Alpi venete.
Neanche un mese dopo l’uccisione di Bruzzi, in marzo, vengono arrestati sia Germinal Concordia che Antonio Pietropaolo. Ma ormai manca poco all’insurrezione generale. Anche se private dei loro comandanti e fondatori, le Brigate Malatesta-Bruzzi non cessano di operare. Anche perché possono contare ormai su una struttura consolidata, che a Milano ha un suo punto di riferimento alla Carlo Erba, dove gli operai forniscono ai partigiani il materiale necessario per produrre esplosivi e gas asfissianti.
Quando comincia l’insurrezione generale, le brigate Malatesta operano in Zona Ticinese, a Porta Venezia e in Zona Affori (dove interviene anche parte della IIª Malatesta di stanza a S. Cristina): occupano caserme, stazioni radio, la famigerata Villa Trieste (vecchia sede della banda Koch) ed espugnano il carcere di San Vittore, dove sono tenuti prigionieri Concordia e Pietropaolo. La proprietà di alcune ditte appartenenti ai fascisti dichiaratamente responsabili viene trasferita agli operai e lo stesso avviene per la terra di agricoltori fascisti e collaborazionisti. I generi alimentari e il vestiario requisiti durante queste azioni sono consegnati ai bisognosi.
Nel frattempo anche nel pavese, i patrioti si danno da fare occupando la caserma e il comune di Mede e quello di S. Cristina, bloccando carrarmati tedeschi, disarmando il nemico e prendendo possesso del traghetto sul Po utilizzato dai tedeschi. L’apporto della Malatesta-Bruzzi è determinante. Qualche ora dopo l’Italia è finalmente libera dall’occupante nazifascista. Ma si tratta di una “liberazione” che rivelerà molto presto un sapore amaro. Soprattutto per gli anarchici. E per le loro speranze di cacciare dal Paese, insieme con al nazifascismo, anche l’ingiustizia, l’ineguaglianza e l’arroganza di un potere che, a distanza di neanche un trentennio, avrebbe rivelato il suo volto più truce con le bombe di piazza Fontana e la pretesa “morte accidentale” di un’ex staffetta partigiana. […]
(Questa ricerca è stata presentata il 9 novembre a Pavia in occasione della serata organizzata da Anpi e intitolata “Giuseppe Pinelli. Storia di un uomo”. Nel corso della serata la sezione Anpi Borgo Ticino è stata rinominata sezione “Giuseppe Pinelli”).
eugenioleu, Anarchici nella Resistenza: le brigate Malatesta-Bruzzi, rapsodieletterarie, 21 novembre 2016

Davide Siccardi – Fonte: Margutte cit. infra

Dei quarantatré antifascisti cuneesi che parteciparono alla difesa della Repubblica spagnola nel 1936 due erano anarchici e parteciparono nelle file della Colonna Ascaso: Antonio Bono, di Busca, morto poi nel lager di Mauthausen il 12.9.1941 e Alfredo Pianta di Castiglione Falletto. Nato nel 1907, il 27 novembre, Alfredo Pianta nel 1924 lascia Castiglione Falletto per la Francia dove continua l’attività sovversiva. Nell’agosto del 1936 è in Spagna, arruolato nelle milizie di Carlo Rosselli, Umberto Marzocchi, Meucci Cafiero, Bimbo… Ferito, ritrasportato in Francia, appena guarito riparte per la Spagna. Tornato in Italia viene arrestato nel 1942. Condannato dal tribunale di Cuneo al campo di Ventotene, ne verrà liberato solo a fine agosto dell’anno successivo. Con altri raggiunge a piedi il suo paese giusto per l’8 settembre 1943. Nel novembre dello stesso anno appena «Lupo» (Alberto Gabrielli) organizza la prima banda in zona, lo raggiunge e farà la Resistenza fino ad entrare in Alba libera con la 48ª Brigata della XIV Divisione Garibaldi «Luigi Capriolo». Prima di essere inquadrato nella 48ª Brigata, Pianta combatte nella banda di «Lupo», banda non inquadrata nelle Garibaldi e malvista dalla dirigenza del P.C.I. secondo cui: «Una banda è uno stadio inferiore dell’organizzazione militare, un concetto che evoca forme di grezza ed instabile milizia armata» (i comunisti non cessano mai di osteggiare il modello miliziano anarchico, della sinistra trotzkista e dell’antifascismo rosselliano, tipico della «colonna» nella guerra di Spagna).
Nella primavera del ’44 fonda con Luigi Capriolo la XIV Divisione Garibaldi a Barolo e ci resterà fino alla liberazione. Irrequieto, nonostante la regolarizzazione della formazione mantiene sincera amicizia con un altro partigiano irrequieto e individualista non aggregato ad alcuna formazione: Louis Chabas detto «Lulù». Ebreo ventenne, al quale i nazisti avevano sterminato la famiglia, deportato dalla Francia, prigioniero nella caserma di Fossano, liberato dai partigiani, «Lulù» si aggrega ad un piccolo gruppo di partigiani doglianesi che non fanno parte di alcuna formazione fissa; agirà sempre in un gruppo non superiore alle cinque unità e spesso da solo. In Langa diventa subito una leggenda. Proprio in una delle sue azioni individualistiche «Lulù» troverà la morte «per fuoco amico», come si dice. Una sera a Bene Vagienna decide un’azione vestito da ufficiale tedesco, cosa che può fare in quanto conosce bene la lingua del nemico tant’è che più volte si è già infiltrato nelle sue linee. Appostato con la sua auto incappa in una ronda di G.L. e non rispondendo subito al «chi va là» viene mitragliato a morte. Il suo funerale sarà un triste momento di unità partigiana tra formazioni diverse che comunque ne riconoscevano il valore.
Alfredo Pianta intanto continua la sua lotta e non smobilita neppure dopo il proclama di Alexander che considera i partigiani come truppe tattiche degli Alleati. Rimane nella zona di La Morra, Barolo, Castiglione Falletto dove aveva sostenuto la battaglia del 20 novembre contro un rastrellamento nazifascista. A gennaio del ’45 si unificano i comandi secondo uno schema di militarizzazione che Alfredo ha già conosciuto in Spagna. In effetti in quell’inverno si registrano solo diserzioni nelle file fasciste e quindi problemi di riorganizzazione interna ai partigiani. Nell’aprile 1945 si concentra l’attacco ad Alba e tutto avverrà nei suoi dintorni: il 18 aprile si scontra con una colonna motorizzata nazista e la sua formazione assume il controllo della zona Monforte – Narzole – Cherasco. Alba è ben presto libera e tutti convergono su Torino dove stanno ripiegando le divisioni tedesche che hanno lasciato alla propria fine i collaborazionisti delle SS italiane. Questi sparano all’impazzata trucidando gli ultimi civili in un’isteria cieca. Dopo la liberazione, Alfredo Pianta deciderà di non vivere in Italia dove vede ritornare ai propri posti segretari, prefetti e politici del fascismo e dove vedrà i partigiani chiamati solo alle commemorazioni. Duro con i compagni, parlerà di tradimento e rimarcherà ancora di più la sua scelta anarchica. Verrà ritrovato da due donne annegato sulla spiaggia di La Napoule vicino a Nizza il 1 luglio 1994.
Un altro partigiano anarchico nella Resistenza cuneese, attivo fin dall’8 settembre del ’43 è Nardo Dunchi, autore del libro Memorie partigiane (L’Arciere, Cuneo, 1982). Carrarino, scultore, come ricorda Nicola Tranfaglia nella prefazione del libro è «tenente degli alpini quando l’otto settembre coglie l’esercito italiano in sfacelo e la IV armata in ritirata dalla Francia senza direttive». Dunchi non ha esitazioni: «Far fuori il colonnello e tutti gli altri che sono d’accordo con lui a calar le braghe. Dopo prendiamo in mano la truppa, armi e bagagli, ripuliamo la città dai fascisti e ci prepariamo a combattere i tedeschi».
Va da sé che gli altri ufficiali trovino pericoloso il suo appello, tuttavia il suo esempio non è inutile: Dunchi mette insieme un primo gruppo e raggiunge subito la montagna dove costituisce con gli uomini di Ignazio Vian e Franco Ravinale la «Banda Boves» che avrà nei primi mesi di lotta un ruolo importante in tutta la zona. Opera nel cuneese fino alla primavera del ’44, con la formazione partigiana dei repubblicani del capitano Cosa.
Molte le azioni portate avanti a Boves, in Valle Stura, a Vinadio, in Valle Pesio e Valle Ellero: rifornisce di armi le formazioni, partecipa alla distruzione del ponte ferroviario di Vernante, all’assalto dell’aeroporto di Mondovì, al sabotaggio del silurificio di Beinette, della centrale elettrica di Busca e a decine di azioni di approvvigionamento ai danni di fascisti e funzionari collaborazionisti. In primavera il capitano Cosa gli comunica che l’organizzazione ligure «Otto» lo vuole nelle Alpi Apuane per crearvi bande partigiane, così Nardo Dunchi lascia il cuneese e raggiunge clandestinamente Carrara. A Mondovì e in Val Casotto operano anche Pietro e Davide Siccardi, padre e figlio. Pietro Siccardi, pittore, poeta, letterato, è un nome conosciuto a Mondovì: la sua è stata una delle firme più note delle famose ceramiche monregalesi. Nato a Frabosa Soprana l’8 settembre 1883, va esule in Francia nel 1922 all’avvento del regime fascista. Qui mantiene contatti con gli anarchici fuoriusciti nel nizzardo che frequenta insieme al figlioletto Davide. Non trovando lavoro per la sua famiglia, Pietro, fidando nella sua scelta di comportamento nonviolento, ritorna a Mondovì nel 1925. Lì fa il marmista e le vecchie pietre del cimitero testimoniano del suo lavoro di ceramista e decoratore. Continua a mantenere i contatti, non solo politici ma anche intellettuali, e la sua bottega diventa un circolo dove si parla di arte, letteratura, filosofia, dove si scambiano idee. Più volte incarcerato, nel 1943, già anziano, salirà in montagna coi figli (dopo averne perso uno in Russia). Aldo e sua sorella andranno con gli autonomi in Val Casotto; lui vivrà clandestino i venti mesi di lotta. Davide Siccardi si definisce anarchico fin da giovanissimo.
Subito dopo la caduta di Mussolini Davide prende contatti con la Resistenza a Mondovì che essendo a metà strada tra Cuneo e la Liguria è un crocevia di antifascisti ancor più che il capoluogo, e soprattutto è circondata da montagne. Entra nella prima formazione presente sul posto dopo l’8 settembre, quella degli Autonomi di Mauri, badogliani fedeli al re. Partecipa a tutte le battaglie della formazione, ma anche alla disfatta dovuta alla strategia militare di Mauri che crede, da «onorato militare del re», allo scontro frontale col nemico invece che alla logica di guerriglia. Partecipa alla liberazione di Mondovì nell’aprile del 1945. Il 13 agosto 1944 in una battaglia di Langa, a Murazzano, muore in combattimento «Spartaco» Ermini, incisore. Non è cuneese, ma di Figline Valdarno, dove è nato il 26 agosto 1924. Fa parte della Federazione Libertaria Ligure, ma combatte con la Brigata Langhe delle Formazioni Autonome di Mauri. Una pietra bassa, in collina di Murazzano, lo ricorda senza dire che era un libertario e che la Resistenza la viveva sì, ma come Rivoluzione sociale.
L’articolo di Antonio Lombardo è apparso anche su Bollettino Archivio G. Pinelli n. 5 – 1995
Antonio Lombardo, Anarchici e libertari nella Resistenza cuneese, Margutte, 26 aprile 2016

Documento identificativo della staffetta partigiana Giuseppe Pinelli – Fonte: rapsodieletterarie cit.

[…] Nel dicembre del 1942 Binazzi partiva da Genova con una valigia piena di proclami da lui redatti e pubblicati clandestinamente dal gruppo genovese. Egli raggiungeva così, «benché ultrasettantenne», i compagni di Milano, Torino, Bologna, Firenze, Roma. Infaticabile, generoso, visitava città e paesi del Veneto, luoghi dell’Italia centrale; andava a rintracciare vecchi compagni, reduci dalle galere o dal confino. Teneva riunioni, rianimava i dubbiosi. I primi frutti di questo lavoro potevano essere raccolti dopo pochi mesi, grazie anche ai collegamenti di Binazzi con i compagni fiorentini e all’antica amicizia che lo legava ad Augusto Boccone.
Noto comunista anarchico di Campo Ligure, fornaio, Augusto Boccone si era stabilito a Firenze sin dal 1931. Era un entusiasta dell’organizzazione, un generoso combattente rivoluzionario sempre disponibile verso i compagni e il movimento.
Il 16 maggio 1943 si tenne a Firenze, in casa Boccone, il primo convegno costitutivo della Federazione Comunista Anarchica Italiana. Vi parteciparono, oltre naturalmente a Pasquale Binazzi, rappresentanti dei gruppi già costituiti di Bologna, Faenza, Genova, La Spezia, Livorno, Firenze e Roma. Inoltre Binazzi e Boccone, che avevano mantenuto i contatti con i gruppi di compagni raccolti attorno a Ugo Mazzucchelli di Carrara e con Egisto Gori e Tito Eschini di Pistoia, rappresentavano pure le istanze di organizzazione degli anarchici di queste due città. A Firenze, i compagni presenti al Convegno, si accordarono per stabilire nuovi rapporti «con gli elementi più attivi nella lotta al fascismo» e discussero i problemi concreti dell’organizzazione della lotta armata.
Il primo volantino della Federazione Comunista Anarchica, stilato in quella occasione e stampato nella tipografia dell’anarchico individualista fiorentino Lato Latini, venne diffuso in tutte le località rappresentate al convegno e in altre ancora, dove il Binazzi si recherà nei giorni successivi per visitare e rintracciare altri compagni.
A Pasquale Binatti dunque va il merito principale di aver saputo riorganizzare, oltre la diffusione clandestina della stampa contenente gli «appelli» fatti in nome della Federazione, anche gruppi di compagni che, pur assumendo localmente varie denominazioni, proponevano scelte politiche di decisiva importanza per l’unità nella lotta armata. I volantini, gli appelli, i manifesti diffusi nelle località dove il Binazzi si recava, venivano riprodotti, ciclostilati, talvolta persino scritti a mano con le variazioni determinate da quelle scelte politiche e rilanciati.
[…] Valgano alcuni esempi:
A Vergato (Bologna), presumibilmente nell’agosto 1943, venne costituita una sezione del «Partito Comunista Libertario». In quella occasione il «Comitato clandestino» della sezione diffuse una manifesto che proponeva la «creazione di un fronte unico proletario» per la lotta contro la monarchia, «responsabile prima del ventennio di servaggio fascista, e per l’instaurazione di una repubblica del popolo italiano».
Il manifesto, rinvenuto dai carabinieri del luogo e trasmesso al ministero dell’Interno il 31 agosto, si indirizzava al proletariato italiano («Vi è un solo padrone sulla terra: il popolo») e ribadiva la necessità della pace immediata, «per troncare un conflitto che nessuna deliberazione popolare ha mai sanzionato». Si reclamava la «giusta e inesorabile condanna» dei criminali fascisti; la «severa falcidia di ogni lucro e patrimonio»; «il diritto di tutti al lavoro e alla egualitaria ripartizione delle ricchezze»; «il diritto pieno ed assoluto di ognuno alla libertà individuale, alla libertà di organizzazione, di stampa e propaganda…».
Volantini simili furono rinvenuti in molte località delle province liguri, toscane, emiliane e laziali
[…] Il 5 settembre 1943 il Partito comunista iniziò a Bologna l’organizzazione della «Guardia Nazionale». Era questo un organismo che, nell’intenzione dei dirigenti del partito, avrebbe dovuto raccogliere e dirigere le masse nella lotta contro l’invasore. Ma fu una debolezza, commenta Pietro Secchia, «l’aver troppo fidato sulla prospettiva che le forze badogliane e monarchiche si sarebbero unite al popolo nella lotta contro i tedeschi».
Così in un rapporto, pervenuto in copia alla direzione del P.C.I., e indirizzato al comitato federale di Bologna, denso di considerazioni sugli avvenimenti politici e militari dal settembre al dicembre 1943, anonimi estensori fanno sapere che quando Bologna venne occupata dalle truppe naziste (9 settembre), non vi fu resistenza alcuna da parte della popolazione e dei presidi militari: i tedeschi poterono impadronirsi di Bologna, far prigioniere gran parte delle forze militari italiane con un gruppo di soldati e senza sparare un colpo
[…] I comunisti dunque alla fine di dicembre non avevano uomini da inviare sulle montagne dell’Emilia Romagna.
Anche Giorgio Bocca, in sei o sette pagine della sua “Storia dell’Italia partigiana”, racconta perché la gente dell’Emilia arrivò tardi alla lotta armata: «gli operai emiliani (scrive Bocca) sono piccole isole nel mare della campagna; da soli non possono mettere in movimento la massa contadina». Gli esponenti dei partiti inviati nelle campagne riferivano scoraggiati: «Il contadino non vuole compromettersi; qui perché ha troppa paura del tedesco, là perché dice che, in fondo, per ora il tedesco lo lascia vivere»…
Il sonno dell’Emilia è durato quasi otto mesi, né serve, dopo, riempirlo con statistiche manipolate… Il Partito comunista si preoccupa della regione «ammalata», vi tiene alcuni suoi uomini migliori, Barontini, Alberganti, Boldrini, più tardi Giorgio Amendola; e intervengono i giellisti: Parri da Milano e Ragghianti da Firenze tempestano di lettere e di consigli… e tutti accettano per buona la scusa del terreno inadatto» .
[…] Si dà per certo allora che il Partito comunista «non reagì con prontezza e decisione» alla situazione venutasi a creare dopo l’8 settembre in Emilia Romagna; così come gli altri partiti antifascisti: le prime brigate partigiane organizzate dal Comando Unificato Militare (CUMER) divennero efficienti, sulle montagne dell’Emilia Romagna, solo nella tarda primavera del 1944.
Come reagirono ed operarono invece gli anarchici emiliani e romagnoli, sin dalle prime giornate di quell’infuocato settembre? Non aspettarono le direttive di un partito, non avevano ordini da eseguire; ma già nell’ottobre 1943 avevano bagnato del loro sangue il suolo dell’Emilia Romagna e fatto dono della loro vita per la causa della libertà.
Non tenne per buona la scusa del terreno inadatto l’anarchico Emilio Canzi quando, in ottobre, andò ad organizzare le prime bande partigiane sulle montagne del Piacentino, e di certo non dormiva perché divenne il comandante unico di diecimila partigiani.
Non si curò del terreno l’anarchico Attilio Diolaiti quando, in settembre, organizzò le prime SAP nel Bolognese, e non dormiva perché operò attivamente alla costituzione delle prime brigate partigiane, la «Bianconcini» ad Imola, la «Fratelli Bandiera» e la «Settima Gappisti» a Bologna. Non si curarono del terreno gli anarchici bolognesi, i compagni di Ravenna, di Imola, di Reggio Emilia.
E’ certo non dormivano Silvio Corbari e i suoi compagni beffardi del «camion fantasma», terrore dei nazisti e dei repubblichini.
[…] Qui è necessario si parli, in breve, della mancata partecipazione di rappresentanti anarchici nel C.L.N.A.I., di altri eventi politici a ciò attinenti e delle discussioni fra compagni che ne costituirono il corollario. Solo Gino Cerrito ne fa parola; egli vi accenna però con alcune superficiali note, per criticare una parte dei compagni e valorizzare l’altra, mentre il divario scaturiva, semmai, data la generosità con cui tutti si gettavano nella lotta, da ciò che ciascuno aveva in mente circa «la dura lezione della storia». Nel novembre 1943 Alfonso Failla, reduce dai lunghi anni passati nelle Isole di confino, prese a girare la Toscana, la Liguria e la Lombardia, con l’intento di realizzare l’unità di fondo delle formazioni anarchiche che già si battevano sui monti, e dei gruppi che si accingevano a farlo in quelle regioni. Ma il pensiero di Failla, circa la partecipazione anarchica alla guerra di liberazione, era diverso da quello di Binazzi e di altri compagni toscani, liguri e lombardi.
Nel gennaio 1944, dopo aver a lungo dibattuto con i compagni milanesi e preso contatto con il C.L.N.A.I., Failla venne invitato da alcuni esponenti socialisti e «giellisti» (Pertini, Parri…) a entrare a far parte di questo Comitato in rappresentanza degli anarchici.
Alfonso Failla, che negli anni delle sofferenze in carcere e nelle Isole di confino, con Bruno Misefari, Paolo Schicchi, Vincenzo Capuana e altri compagni, aveva dato un suo prezioso contributo alla costituzione della Federazione Anarchica Italiana, era certamente portatore di un
«irriducibile» patrimonio di fede anarchica e di passione rivoluzionaria. I socialisti e gli uomini di
«Giustizia e Libertà», che lo avevano conosciuto nelle Isole di confino, sapevano come egli fosse un uomo di profonda cultura politica e di grande coraggio: poteva quindi ben rappresentare gli anarchici nel governo del C.L.N.A.I.
Non il solo Failla però, fra gli anarchici, era stato interpellato: pressioni e sollecitazioni avevano raggiunto anche altri compagni, fra i quali Giovanni Domaschi, l’anarchico di Verona, amico e compagno di prigionia e di confino di alcuni esponenti socialisti e «giellisti» (Pertini, Rossi, Traquandi, Fancello, Parri, Bauer…), stimato da comunisti come Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro e da Altiero Spinelli, che con lui avevano organizzato la lotta dei coatti nelle Isole di Ponza e Ventotene.
Giovanni Domaschi aveva già fatto una sua esperienza «ciellenista», se così si può dire, partecipando quale rappresentante anarchico in commissioni e delegazioni, composte dai rappresentanti le diverse correnti politiche che si trovavano al confino.
Nel 1936 infatti (prima, durante e dopo l’aggressione all’Etiopia e la proclamazione dell’Impero) le autorità fasciste avevano concentrato a Ponza il maggior numero di oppositori alla dittatura: i più noti, i più «pericolosi»: anarchici, socialisti, comunisti, «giellisti». «Soggiornarono a Ponza, tra gli altri, Camilla Ravera, Terracini, Secchia, Scoccimarro, Pertini, Rossi, Traquandi, Fancello, Bauer…
Gli anarchici erano circa 80, fra questi Giovanni Domaschi, Paolo Schicchi, Bruno Misefari e Alfonso Failla.
Una agitazione promossa dai coatti delle varie Isole (Ponza, Ustica, Tremiti, Ventotene), che non intendevano piegarsi al «saluto romano» imposto dalle autorità fasciste, trovò in prima fila gli anarchici. Per rappresaglia i fascisti adottarono severe restrizioni: furono sequestrate le biblioteche, fu fatto divieto di passeggiare in più di tre, di parlare lingue straniere e persino di salutarsi o di «associarsi in discussioni». Per questa agitazione molti furono gli anarchici arrestati e imprigionati e mandati a Napoli nel carcere di Poggioreale.
Nel 1936 l’ufficio di pubblica sicurezza di Ponza inviava al casellario politico generale una nota (comunicazione n. 0990) nella quale si sottolineava il fatto che, pur diffidati a non associarsi tra loro, i confinati Sandro Pertini, Nello Traquandi, Francesco Fancello, Giovanni Domaschi, Vincenzo Calace, Bernardino Roberto, «manifestano il proposito di presentarsi all’appello serale “insieme” dando segni di fraterna amicizia».
Sandro Pertini, che era andato a protestare contro il divieto fatto ai confinati di intrattenersi tra loro, veniva arrestato «per cattiva condotta» e tradotto a Napoli. Prima della partenza Giovanni Domaschi riusciva ad avvicinarlo e ad abbracciarlo.
[…] Verso la metà di agosto anche i comunisti e i socialisti tornavano in libertà. Agli anarchici e agli sloveni era riserbato un altro trattamento, ossia il campo di concentramento di Renicci d’Anghiari. Dopo l’8 settembre, con l’inizio della resistenza armata, era dunque logico che gli esponenti socialisti (particolarmente Pertini) e di «Giustizia e Libertà», che intendevano controbilanciare nel
C.L.N. l’influenza delle destre e del centro, si rivolgessero a dei rivoluzionari anarchici come Failla, Domaschi e altri compagni che avevano già intrapreso a Ventotene e altrove, fra i confinati, l’opera di ricostruzione di un organismo anarchico unitario. Ma Domaschi non fece in tempo a dare una sua risposta alle sollecitazioni del C.L.N.A.I.: egli, che già aveva partecipato alla fondazione del C.L.N. di Verona e organizzato i primi gruppi di partigiani anarchici nel veronese, in seguito a una delazione venne catturato dai nazisti che, dopo averlo torturato e seviziato (con le torture gli strapparono un orecchio), lo deportarono in Germania e l’uccisero.
A Milano, Alfonso Failla, aveva bisogno – scrive Gino Cerrito – «del consenso della FAI e comunque del consenso di uno dei gruppi più organizzati e numerosi e ideologicamente uniformi del paese, quello di Genova…» (11). I genovesi, dopo quindici giorni di esitazioni e discussioni sull’opportunità della partecipazione anarchica al C.L.N.A.I., gli accordarono la loro fiducia e il loro consenso.
Il C.L.N.A.I. ricordava però a Failla che la condizione per chiamarlo a far parte di quest’organo di governo e di direzione della lotta, era l’entrata di un rappresentante anarchico nel C.L.N. regionale, in quello provinciale e in ogni C.L.N. comunale e aziendale.
[…] I compagni più vicini alle posizioni di Pietro Bruzzi e al giornale «L’Adunata dei Libertari», consideravano il governo del C.L.N.A.I. come un rappresentante dei partiti «che hanno per finalità precipua la conquista dello Stato e con esso l’esercizio delle autorità costituita», mentre compito degli anarchici era quello di battersi esclusivamente «per la rivoluzione sociale integrale… e contro ogni tentativo di monopolio di essa da parte dei partiti politici autoritari».
Nessuna alleanza, quindi. Inoltre con la partecipazione anarchica al governo del C.L.N.A.I., ed era anche l’opinione di parecchi compagni toscani, liguri, piemontesi, lombardi, interpellati da Alfonso Failla, già si sarebbero poste le premesse di una insanabile spaccatura in tutto il Movimento anarchico italiano.
C’era indubbiamente da svolgere una riflessione critica, serena e approfondita, dei problemi principali della lotta di liberazione in atto, con la considerazione dell’eredità rivoluzionaria spagnola, con una approfondita disamina sulla storia dell’anarchismo in Italia (il suo divenire nelle lotte sociali nei primi decenni del secolo), ma anche col pensiero proiettato nel futuro.
Dalle vicende della rivoluzione spagnola e dai contrasti (perniciosi per la rivoluzione e tutto il Movimento) suscitati dalla partecipazione di quattro rappresentanti anarchici della C.N.T. nel governo centrale spagnolo, presieduto da Largo Caballero, ancora una volta veniva «la lezione della storia»: «Ni Caballero, ni Franco», come a dire: né Mussolini, né Badoglio. Oppure né dittatura fascista, né borghesia di Stato.
[…] Alfonso Failla sapeva ben ascoltare e valutare: il problema posto a Milano della rappresentanza anarchica nel governo del C.L.N.A.I. trovò la sua soluzione in un niente di fatto. […]
Pietro Bianconi, Gli anarchici italiani nella lotta contro il fascismo, Edizioni Fondazione Archivio Famiglia Berneri, Pistoia, 1988