Gorizia non fu liberata né dai partigiani italiani, né dall’esercito jugoslavo, ma i Tedeschi se ne andarono da soli la notte del 29 aprile del ’45

Il fiume Isonzo a Gorizia. Fonte: Wikipedia

Nel 1941, in seguito alle vittorie Jugoslave di Hitler, oltre all’Albania già occupata nel 1939 venne concessa a Mussolini la Slovenia meridionale e la Dalmazia fino al Montenegro e al Kosovo. Tale annessione, però, se da un lato corrispondeva parzialmente alle immutate aspirazioni egemoniche degli Italiani nel mediterraneo, dall’altro stava stretta al Duce, che sospettava le mire dell’alleato sulla città di Trieste e che di fatto si trovava costretto ad accettarne passivamente ordini e concessioni (Cattaruzza 2007:207-211). I fascisti non furono affatto teneri con le nuove terre annesse, applicandovi una politica di assimilazione ancora più dura che nella Venezia Giulia. Si calcola che in 29 mesi di occupazione italiana in Slovenia furono uccisi 5.200 civili e 900 partigiani, mentre 7.000 persone furono internate e 33.000 (Buvoli 2005: 15-17). I campi di concentramento fascisti, in cui furono deportati 33.000 sloveni e croati sono stati una realtà che, al pari delle foibe, si é preferita tacere e che Paolo Rumiz ha ricordato di recente con queste parole:
“Stessi corpi nudi, stessi occhi vuoti, scheletri senza natiche e pance gonfie come tamburi. Certo, non era Auschwitz, non c´erano camere a gas, e nemmeno lavori forzati. Ma si crepava egualmente, come mosche. A fare il lavoro bastava la fame, il freddo, la malaria, le cimici, la scabbia, la dissenteria, il tifo petecchiale. Bastavano le punizioni, le adunate, la paura di essere prelevati come ostaggi per le fucilazioni di rappresaglia. Dentro il filo spinato non c´erano ebrei, polacchi, ucraini. C´erano sloveni e croati, ma la sporcizia e il tanfo erano gli stessi. Sulle torrette di guardia stavamo noi, «italiani-brava-gente», non i tedeschi, ma l´imperativo categorico era identico. Fare terra bruciata, annientare quegli uomini-pidocchi, bonificare le terre del nemico, pulirle etnicamente, offrire spazio vitale alla razza egemone” (Paolo Rumiz, 13 aprile 2008, La Repubblica).
Dalla prospettiva jugoslava, se l’attacco di Hitler del ’41 all’Unione Sovietica aveva costituito un duro colpo per l’ex alleato Stalin, esso aveva fornito l’occasione di passare all’azione per i partigiani, che da tempo stavano preparando la rivolta della Slovenia (Pirjevec 1995:178). Essi si organizzarono nel Fronte di Liberazione (Osvobodilna Fronta, O.F.) che in Slovenia dovette però confrontarsi con la frangia cattolica, che di fatto, tramite i movimenti cristiano-sociali, riscuoteva il favore della maggioranza della popolazione <156.
A Gorizia le azioni belliche nella ex Jugoslavia e lo strozzinaggio effettuato dalla città nei confronti del contado, nonché le misure di assimilazione adottate dal regime, a questo punto avevano inasprito totalmente i rapporti tra la popolazione slovena e italiana. Così, piuttosto che combattere a fianco di Mussolini, molti erano i giovani sloveni che preferivano seguire i partigiani (Fabi 1991:170): piuttosto che dall’amor di patria o dall’ideologia marxista, molti tra gli Sloveni Goriziani che si dettero al monte erano motivati dall’esasperazione <157.
In seguito all’armistizio stipulato dal generale Badoglio con le truppe anglo americane e al crollo temporaneo del regime fascista, sul fronte jugoslavo acquistò forza la formazione partigiana delle truppe del generale Tito, segretario generale del Partito Comunista Jugoslavo, che aveva promesso di conquistare Trieste, Gorizia e l’area giuliana:
“Sotto la bandiera della resistenza armata (…) potevano riconoscersi sia i comunisti internazionalisti che i nazionalisti (…), sia infine i moderati cattolici e i progressisti liberali, che sembravano credere a un avvenire migliore per la Jugoslavia” (Fabi 1991:171).
Nel frattempo, l’O.F. sloveno si era di fatto frantumato nelle lotte intestine tra cristiano-sociali e comunisti e questi ultimi erano riusciti ad imporre il 1 marzo 1943 la Dichiarazione delle Dolomiti, “con cui i cristiano-sociali e i liberali s’impegnavano a rinunciare a un‟attività politica autonoma e organizzata, riconoscendone il diritto ai soli marxisti, e riservando a se stessi una non meglio definita attività ideologico-culturale” (Pirjevec 1995:180-181). La Slovenia si apprestava così tramite il voto di delegati che non rappresentavano affatto il suo popolo, ma solo la componente marxista, a sostenere il maresciallo Tito nella creazione della sua Jugoslavia.
Si comprende facilmente dunque quale fosse il clima a Gorizia l’8 settembre del 1943. Da un lato, vi erano gli Italiani in fuga, incalzati dagli ex alleati tedeschi, che si erano trovati in breve tempo privi di una guida e di una nazione <158. Dall’altro, vi erano i partigiani comunisti italiani e gli Sloveni del Fronte di Liberazione sloveno, che non mirava unicamente a liberare Gorizia e il monfalconese da nazisti e fascisti ma a farle diventare slovene. Se nei cantieri di Monfalcone la tradizione comunista era molto diffusa, la popolazione goriziana che, come abbiamo visto, aveva piuttosto una matrice cattolico-sociale, rimase sostanzialmente estranea alle istanze ideologiche e nazionaliste dei partigiani (Fabi 1991:124-125) <159. Così, quando la Brigata Proletaria dei canterini di Monfalcone e i partigiani slavi combatterono fianco a fianco a Merna contro i Tedeschi che stavano occupando la città, non vi fu alcun coinvolgimento da parte degli abitanti di Gorizia che, al contrario, in seguito ai saccheggi che seguirono la battaglia, temevano i partigiani non meno di quanto avessero temuto i precedenti occupanti (175) <160. La minaccia slava era vissuta dalla popolazione italiana come un percolo concreto e terribile: nel frattempo, infatti, in Istria l’esercito jugoslavo aveva iniziato ad eseguire le proprie condanne e vendette nei confronti degli ex fascisti e oppositori, scaraventandoli nelle foibe con modalità affini a quanto vedremo accadere in Italia nel ’45. Ecco perché il 12 settembre, quando le truppe di Hitler legittimate dalla neo costituita Repubbica di Salò entrarono a Gorizia, in molti applaudirono (Fabi 1991, 1993).
I tedeschi, però, non arrivarono da soli e, anche se nazisti e Repubblichini collaboravano nella feroce lotta contro i partigiani comunisti italiani e jugoslavi, nuovi alleati del Fuhrer rivendicavano conquiste e privilegi. Alla fine del 1944 fecero infatti il loro ingresso in città, accanto ai nazisti, “gli orgogliosi e feroci Cetnici, slavi bianchi e monarchici, di cui si diceva non volessero tagliarsi i capelli finché re Pietro II non fosse tornato a regnare” (Fabi 1991:179) <161. Erano questi Serbi cattolici che, contrariamente alle aspirazioni dei Croati e Sloveni, che immaginavano una confederazione jugoslava, intendevano unificare le popolazioni della Slavia meridionale sotto la loro nazione, affidandone la reggenza al loro sovrano. Ostili all’O.F., essi vivevano l’alleanza con Hitler in funzione anticomunista, in modo analogo a quanto stavano facendo le neo costituitasi milizie volontarie bianche collaborazioniste di belogardisti in Slovenia (vedi sull’argomento Pirjevec 1995:181) <162. In città i cattolici sloveni si trovavano divisi tra seguire i partigiani dell’O.F. e scappare nelle campagne o piuttosto assecondare i belogardisti e i domobranci, che, grazie al consenso dei tedeschi, stavano facendo riaprire le scuole slovene e i giornali (Kralj 2006:73) <163. Tale concessione mi é stata così raccontata da un Goriziano, nato nel 1928:
“I Tedeschi sono stati più furbi degli Italiani, perché già nel ’43-’44 per ingraziarsi la popolazione hanno riaperto le scuole slovene durante la guerra. Mentre il Fascismo si é comportato in quella data maniera e si é attirato l’odio, e purtroppo anche l’odio per l’Italia, perché l’Italia era il Fascismo in quegli anni, i Tedeschi per propaganda riaprirono le scuole slovene a Gorizia e si ingraziarono i belogardisti” (b_51 mvs 43‟00”).
La posizione tenuta dalla chiesa goriziana durante le lotte partigiane é controversa e apre numerose questioni storiografiche che devono ancora essere risolte. Se da un lato vi furono tra gli Italiani i democristiani e i cattolici popolari che, come Angelo Culot, non disdegnavano le collaborazioni con i comunisti e con l’O.F., dall’altro i sacerdoti e fedeli sloveni, pur nel tentativo di mantenere un difficile equilibrio tra le due posizioni, si divisero tra chi, come Janko Kralj, appoggiava dietro le quinte i domobranci presenti in città, che con il loro peso politico stavano determinando la riapertura della vita culturale slovena dopo il Fascismo e chi, come Egenbelt Besednjak non disdegnava una maggior apertura nei confronti dell’O.F. (Cernic inAA.VV. 2006:83).
Il collaborazionismo tra nazisti e slavi bianchi era visto di mal occhio dai nazionalisti italiani, i fascisti della X Mas e delle altre forze della Repubblica Sociale, e frequenti furono a Gorizia gli scontri tra le due fazioni durante tutta l’occupazione nazista <164. Ciò non impedì che entrambe le fazioni risultassero egualmente efficaci e solidali nel collaborare alla durissima politica di repressione nazista nei confronti dei partigiani dell’O.F. e dei partigiani comunisti italiani, per cui la battaglia dell’8 settembre aveva costituito l’inizio della Resistenza armata (Cernigoi 2006:97).
A Gorizia si stava infatti riorganizzando in segreto un secondo C.L.N., formato da cattolici sociali (DC), da socialisti, da repubblicani e partigiani comunisti sloveni e italiani che collaboravano in modo indipendente con l’O.F. <165. Oltre alla questione nazionale (i comunisti italiani per assecondare il progetto di occupazione jugoslava di Tito dovevano comunque rinunciare ai loro sentimenti nazionali in favore di un forte internazionalismo proletario) vi era il problema di chi avrebbe dovuto giudicare, in seguito alla vittoria del fronte di liberazione, Italiani e Sloveni collaborazionisti (Fabi 1995:183) <166. Se durante questa fase i problemi vengono in qualche modo accantonati dalla comune lotta antifascista, quando arrivò il momento della resa dei conti la situazione si rivelò in tutta la sua drammaticità. Come nota Lucio Fabi, Gorizia non fu liberata né dai partigiani italiani, né dall’esercito jugoslavo, ma i Tedeschi se ne andarono da soli la notte del 29 aprile del ’45, lasciando la città in preda ai saccheggi della popolazione affamata (1995:186-87).
Mentre il C.L.N. cercava disperatamente di ristabilire il controllo della situazione, 20.000 cetnici invasero la città, sterminando ferocemente una cinquantina di persone, senza risparmiare vecchi e bambini. Nella confusione del momento, non il C.L.N. ma la popolazione civile e gli operai di Straccis respinsero i Serbi oltre l’Isonzo (ivi). Mentre ancora si combatteva, il pomeriggio del 1 maggio 1945 l’esercito jugoslavo, con la benedizione di Togliatti e il prudente lassez faire degli alleati, occupò Trieste e Gorizia <167.
Il commissario Boro entrò nel capoluogo isontino ed instaurò con la forza un nuovo, feroce regime. Inutili furono le proteste del C.L.N. di fronte all’arbitrarietà con cui le truppe jugoslave si erano insediate in città e ne avevano preso il potere. Il capo del C.N.L. venne imprigionato e di lui venne fatta sparire ogni traccia. Il C.N.L. venne destituito il 2 maggio dopo che la maggioranza dei suoi membri si era dichiarata contraria all’annessione di Gorizia alla Jugoslavia. Anche questo nuovo regime fu salutato con entusiasmo da una parte della popolazione (il circondario goriziano) e con dolore dall’altra (la parte italiana della città,). Ogni gesto simbolico, dall’esposizione delle bandiere jugoslave all’incarcerazione del vescovo Margotti, al quale gli Sloveni locali imputavano pesanti responsabilità nell’opera di snazionalizzazione fascista, servì nuovamente a rendere chiaro che anche quello era un regime a cui non sarebbe stato possibile opporsi. E, anche in questo caso, furono soprattutto le persecuzioni contro chi era percepito come in qualche modo avverso e nemico alla nuova dominazione, a cui spesso si mescolavano vendette private e vecchi conti in sospeso, che segnarono indelebilmente i ricordi di chi ancora sopravvive. Per quaranta giorni Gorizia, Trieste e la Venezia Giulia vennero “rastrellate” dai partigiani di Tito. Essi si accanivano contro quanti venivano definiti “nemici del popolo”, fossero essi ex fascisti, sloveni bianchi, religiosi o semplici cittadini: molti vennero arrestati e deportati, molti vennero gettati ancora vivi nelle foibe, molti semplicemente scomparvero senza che se ne seppe più niente:
“Vennero prelevati, disarmati, catturati deportati e poi uccisi molti appartenenti alle forze dell’ordine, soprattutto carabinieri, finanzieri e questurini, e anche una parte di quegli esponenti del C.L.N. giuliano e del Corpo dei Volontari della Libertà (CLV) che, specie a Trieste, erano insorti contro i nazisti negli ultimi giorni del conflitto. In questa fase di violenza furono così eliminate non sol le persone in qualche maniera legate all’apparato repressivo esistente durante l’occupazione nazista della regione (…) ma anche diversi antifascisti, partigiani o membri della resistenza, slava o italiana, che non avevano aderito completamente alla causa jugoslava. Vi furono poi non pochi cittadini, del tutto privi di ruoli politici e sociali, che avevano in qualche modo manifestato un orientamento filo italiano (…). Tra questi ci furono anche diversi civili di lingua slovena o croata, generalmente anticomunisti, che avrebbero preferito il mantenimento dello status quo italiano piuttosto che l’incognita di un regime rivoluzionario” (Rumici 2003:4).
Le uccisioni del ’45 in realtà conclusero un ciclo di tre ondate successive di violenze che colpirono l’Istria e Spalato (settembre-ottobre 1943), poi la Dalmazia (autunno 1944) ed infine la Venezia Giulia. Se nella città di Gorizia e nel suo circondario ci furono più di 650 sparizioni effettivamente documentate e più di un migliaio di arresti (Fabi 194), si calcola che tra il 1943 e il 1945 nei territori soggetti alle truppe filo jugoslave scomparirono tra le 4.000 e le 5.000 persone (Cattaruzza 2007: 294). In Slovenia e Croazia la vendetta dei partigiani titini fece soprattutto strage di chiunque fosse sospettato di aver favorito e patteggiato per i belogardisti, che erano stati alleati di Hitler e per i domobranci, che invece erano stati collaborazionisti del regime italiano. Se é vero che a Trieste e a Gorizia nelle cavità di Basovizza e Adjussina furono perseguitati soprattutto gli Italiani, non va dimenticato che morirono pure molti sloveni, sospettati di aver collaborato con il regime o di essere anticomunisti. Come emerso dalle ricerche di Raoul Pupo svolte per la commissione italo-slovena, infatti, l’obiettivo delle violenze erano i reazionari e i fascisti, non gli Italiani in quanto tali (Fogar 2006:24). Quando si parla di foibe non é corretto dunque parlare di genocidio o di pulizia etnica nei confronti degli Italiani <168. Nonostante la Commissione italo-slovena dichiari che
“Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno d eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al Fascismo,alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo”. (2001:12) tra chi le foibe le ha vissute c’é chi la pensa in modo diverso, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo:
I1: “Lì é stata pulizia etnica, culturale é inutile che la girino come vogliono, finché ho fiato gliela racconto io” (a_5 dvi 8‟52”)
Fu quello di Tito un progetto preciso che mirava a eliminare il potere italiano per sostituirlo con il potere comunista per l’affermazione del nazionalismo sloveno e croato. Pertanto nei confronti degli Italiani ci fu una ‘pulizia etnica’ … (lettera al Messaggero Veneto di Lauretta Iuretig, pubblicata l’8 febbraio 2007, pag. XV).
Le polemiche sulle foibe non riguardano solo la tipologia delle persone scomparse, ma anche l’uso stesso del temine, come chiarisce Guido Rumici:
“Negli anni successivi, e soprattutto nel dopoguerra, la parola ‘foibe’ divenne il simbolo del dramma spaventoso che colpì la popolazione giuliano-dalmata (…). Il termine ‘foibe’ e i neologismi ‘infoibati’, ‘infoibare’ ed ‘infoibamenti’ andrebbero perciò utilizzati avendo ben chiaro che non si riferiscono, nello specifico, alla generalità delle uccisioni perpetrate dai partigiani jugoslavi, ance se, nel tempo, hanno contraddistinto l’insieme delle persone deportate ed eliminate (…) nelle varie ondate di violenza messe in opera dagli elementi del M.P.L. di Tito. La maggioranza di queste persone non furono in effetti ‘infoibate’, cioè gettate in un abisso carsico, ma vennero uccise in diversi modi” (2003:6).
[NOTE]
156 L’O.F. non fu affatto unito nelle sue componenti, come descritto da Pirjevec (179). La componente comunista riuscì a prevalere in Slovenia solo con l’inganno, come vedremo tra breve. Per una descrizione più dettagliata delle frange politiche attive in Slovenia tra il ’41 e il ’44 vedi anche Pecar et al., 2006:121-139.
157 Sulle azioni partigiane tra il 1941 e 1942 nelle zone del confine orientale italiano ad opera del Fronte di Liberazione, alleato con i comunisti italiani vedi Cattaruzza 2007:234-238. Per una narrazione più puntuale delle azioni partigiane nell’Isontino e nel monfalconese tra il ’40 e il ’47 vedi Enrico Cernigoi 2006. Nonostante valga la pena di analizzare più da vicino il movimento partigiano nell’area giuliana e le implicazioni nazionaliste e localiste che esso ebbe per l’identità dei giuliani, mi limiterò a tracciarne i tratti generali, senza scendere nella descrizione dettagliata di personaggi e avvenimenti, riportando le interessanti conclusioni a cui é arrivato Cernigoi nel suo lavoro. Nei territori della bisiacheria la politica, così come la chiesa a Gorizia, ha costituito un elemento di coesione tra italiani e sloveni. Enrico Cernigoi, attraverso la raccolta di testimonianze dei sopravvissuti, dimostra che le ideologie venivano comunque filtrate dalla popolazione attraverso la prospettiva locale e così l’internazionalismo socialista e l’austromarxismo in cui i partigiani italiani e sloveni locali credevano si contrappose nelle loro motivazioni al pari del senso di comune appartenenza ecclesiale che aveva cementato i rapporti tra fedeli. Anche tra i partigiani, così come in generale abbiamo visto accadere per la popolazione, vi erano delle differenze tra sloveni e italiani giuliani ed “esterni”, fossero essi dirigenti di partito italiani o partigiani sloveni dell’interno. Più che l’ideologia di per sé, che pure era stata assimilata dai partigiani, incantati dalla prospettiva di una Grande Madre Russia, così come i fascisti lo erano stati dal mito di Roma, alla fine contavano le relazioni umane e il concetto di “patria” non era per i partigiani comunisti isontini, così come lo era stato per i friulani cattolici o per gli Sloveni mandati a combattere durante la Grande Guerra, legato a una lingua o a una nazione, ma piuttosto alla terra che condividevano con le altre etnie, a quell’essere “nati sotto l’Austria, passati sotto l’Italia e la Germania e conquistati da Tito”. I nazionalismi furono portati dall’esterno, da fascisti italiani e da titini jugoslavi, a un a popolazione che da sempre aveva visto convivere italiani e slavi. Se é vero che, come per coloro che si erano appassionati per il Fascismo durante il decennio precedente, non mancavano tra i partigiani le “teste calde”, anche nelle interviste raccolte da Cernigoi ritorna, almeno nelle intenzioni espresse dai soggetti, l’idea che le scelte per l’una o l’altra parte fossero dettate in molti casi dalle circostanze e dalle vicende personali. Dalla ricerca di Cernigoi si ha l’impressione che le varie identità (nazionale, politica, locale) siano state vissute dai locali, a differenza di quanto accade per ‘gli esterni’, come entità intercambiabili. Più che la coerenza politica e ideologica, insomma, é la circostanza e il momento che determina la scelta di manifestare l’una o l’altra. Interessante mi sembrano poi le constatazioni sugli ‘italiani’, termine che viene usato dagli intervistati per indicare in modo dispregiativo l’incapacità dei fascisti di comprendere il complesso tessuto locale.
158 Raoul Pupo, seguendo la linea interpretativa di Ernesto Galli, mette in luce come l’8 settembre abbia causato un spaccatura profonda nel sentimento di unità nazionale degli Italiani. Dopo l’11 settembre, infatti, non si trattava semplicemente di cambiare alleanze, ma di scegliere da che parte stare, dal momento che l’Italia si trovava di fatto cancellata dal punto di vista politico (Pupo 2006:16) . Tale situazione emerge in tutta la sua drammaticità al confine orientale, in cui come abbiamo visto la stessa terra aveva significati economici, culturali e identitari diversi per italiani, tedeschi e sloveni. Se tedeschi e sloveni sanno con chiarezza quello che vogliono, dice Pupo, chi va in crisi sono gli Italiani, privi di coordinamento, sbandano e scappano (21). Unica eccezione, i partigiani che scelgono di combattere.
159 Il movimento comunista clandestino era stato duramente soppresso nell’isontino nel ’34, anche se parecchi cantierini che lavoravano a Monfalcone mantenevano i contatti con il partito. I partigiani isontini erano piuttosto di matrice cattolica
160 Per la descrizione della battaglia dell’8 settembre vedi Bortoli et al., 2006:40-41. L’Isontino si trovava in realtà in una situazione di completa anarchia. A Ronchi, nel cuore dell’emergenza, l’Azione Cattolica aiutò tanto i soldati italiani fuggiaschi gli internati slavi quanto i partigiani, organizzando un servizio di assistenza e cure nella parrocchia.
161 Con il termine “Cetnici” vennero indicati pure i primi partigiani slavi dagli abitanti del Litorale (Kralj in AA.VV.2006:67).
162 Vale forse la pena di accennare brevemente allo strano progetto del Kunsterland, nella cui ottica la collaborazione tra sloveni e nazisti può avere un senso. La strana collaborazione tra nazisti e sloveni si fondava in parte sulla vecchia politica asburgica della contrapposizione tra nemici (appoggiando opposti nazionalismi nella Venezia Giulia i nazisti pensavano di controllare più facilmente la zona) ma anche dalle nuove ambizioni imperialistiche. Creando l’Adriatisches Kunsterland, infatti, vennero rispolverate le vecchie teorie di Von Sbirk per il rilancio del porto di Trieste, in cui vennero coinvolti italiani e sloveni (Cattaruzza 2007:254).
163 La riapertura delle scuole slovene da parte dei tedeschi costituisce un punto storiografico che deve essere ancora chiarito. Oltre a Kralj ne parla in modo più dettagliato anche Peter Cernic, che, citando un articolo apparso il 12 agosto 1944 sul Goriskj List, racconta della realizzazione di un Consiglio culturale presieduto da Anton Kacin avente per finalità la riorganizzazione della scuola. Tale punto é politicamente interessante perché servirebbe a comprendere meglio la collaborazione a Gorizia tra cattolici sloveni e domobranci (Cernic et al., 2006:85).
164 Tra gli episodi riportati dal Fabi, l’uccisione a tradimento di 17 soldati italiani durante il cambio della guardia a un posto di blocco a S. Pietro, tenuto alternativamente da italiani e cetnici (1995:185).
165 La questione delle collaborazioni del CNL di Gorizia con l’O.F. é estremamente controversa. Il CNL venne accusato di non essere patriottico, Luigi Pettarin, democristiano, che sosteneva che l’unità della Venezia Giulia fosse più importante della sua collocazione nazionale, vista la particolare composizione etnica del territorio, venne accusato di defezione dagli stessi membri del suo Partito (38) e il Culot, imprigionato e rilasciato indenne dalle truppe titine, venne sospettato di tradimento(40). In realtà, come dimostrato dalla ricostruzione di Santeusanio, la questione territoriale venne rimandata nelle discussioni tra CNL e O.F. alla fine della guerra (Santeusanio et al., 2006: 14-61).
166 Questione nazionale e lotta partigiana nella Venezia Giulia costituiscono un punto delicato anche a livello politico. Il PCI, che si era impegnato a sostenere i movimenti di liberazione antifascisti, non poteva respingere la collaborazione con l’O.F., pur sapendo che con la conclusione vittoriosa la jugoslavi avrebbe rivendicato la Venezia Giulia. I dirigenti nazionali italiani, impegnati in varie fasi nella contrattazione con i partigiani jugoslavi, dimostrano di non capire a pieno il problema, in quanto per essi, nel momento in cui con la vittoria del Comunismo si fosse instaurato il regime anche in Italia, per gli Sloveni e i Croati della Venezia Giulia non avrebbe dovuto essere un problema in quale dei due stati vivere. Il P.C.S. (Particto comunista Sloveno), invece, come abbiamo visto, implicava nella sua denominazione non solo una questione ideologica (l’essere comunista e antifascista) ma anche un modo di vivere la questione nazionale e territoriale in una jugoslavia che doveva essere ancora costruita diverso da quello delle altre forze politiche in gioco, e cioè l’alternativa al panslavismo centrista della Serbia. (Vedi Cernigoi 2006:117-140). Analogalmente, se i militanti sloveni vedevano nel P.C.S. la possibilità di realizzare finalmente la loro nazione, i giuliani che aderivano alle idee del Comunismo lo facevano piuttosto in un‟ottica internazionalista o austro marxista, in cui la questione nazionale passava in secondo piano (44-53).
167 In realtà per tutto il  ’44 c’era stata tensione tra le potenze mondiali attorno alla questione della Venezia Giulia e del comportamento di Tito che, se da un lato faceva comodo a Churchill e a Stalin per la vittoria su Hitler, dall’altro diventava di giorno in giorno più potente. Vedi anche Ugo Gianluigi in AA.VV.(2001:63-78).
168 Tecnicamente questi termini definiscono l’intenzione di colpire un popolo o una razza in quanto tale e non soltanto per assicurarsi il potere. In nessuno degli scritti di Tito e in nessuna delle dichiarazioni dei suoi carnefici vi é l’intenzione di uccidere gli Italiani in quanto italiani, ma di colpire quanti fossero fascisti o ostili al suo regime. Abbiamo visto come durante il Fascismo si fosse creata nell’immaginario degli Sloveni l’associazione tra Fascismo e italianità. Si tratta pertanto di una motivazione diversa dalla politica di sterminio nazista nei confronti degli ebrei e degli zingari, o dal genocidio degli armeni per mano dei turchi.
Chiara Sartori (M.A., Università di Trieste, 2000), Identità Forti: Nazionalismo e Localismo a Gorizia, A Dissertation Submitted in Partial Fulfillment of the Requirements for the Degree of Doctor of Philosophy in the Department of Italian Studies at Brown University, Providence, Rhode Island, 2010