I giovani di Bruino si rivolgevano a noi per sapere cosa fare

Bruino (TO) – Fonte: Wikipedia

Anche in Val Sangone nel Settembre del ’43, sotto la guida del Maggiore degli Alpini Luigi Milano, il 9, si raccolgono in vallata i primi gruppi partigiani. Tra gli altri, arrivano dei giovani ufficiali, quali: Giulio Nicoletta, Fassino, Magnone, Bertolani ed ex prigionieri alleati.
Inizia quasi da subito un’attiva partecipazione dei civili alla costruzione della Resistenza nella valle. Il 23 Settembre i tedeschi effettuano il primo rastrellamento, primo, perché nei venti mesi successivi, ne avrebbero effettuati ventisette.
Le prime vittime degli attacchi tedeschi, sono il pittore di Giaveno Guglielmino, ucciso nella sua casa al Colletto del Forno ed una valligiana che non si era fermata all’intimazione di alt dei tedeschi.
Questi episodi di barbarie suscitano nella popolazione, un sentimento di forte solidarietà con i partigiani e di sdegno per il nemico.
Nell’ottobre – novembre ’43, i gruppi partigiani si dispongono al Ciargiur con il Maggiore Milano, alla Dogheria con Cantelli e Bertolani, ed al Palè con Nicoletta e Fassino […]
Il 22 Ottobre, viene catturato il Maggiore Milano, ma non s’interrompono gli attacchi ai presidi ed ai depositi tedeschi, che rispondono con un duro rastrellamento.
Quando Milano fu catturato, l’ufficiale Giulio Nicoletta prese con sé tutti i gruppi di partigiani della vallata e si rifugiò in Val di Susa a Mon Benedetto. Dopo una ventina di giorni ritornarono in vallata e si divisero in quattro gruppi.
Quello di Giulio Nicoletta al Palè, quello di Sergio de Vitis alla Verna, quello di Nino Criscuolo alla Moncalarda e quello di Franco Nicoletta al Col Bione.
Nel Dicembre ’43, continuano gli attacchi ai presidi tedeschi e gli scontri contro i nazifascisti, durante le azioni partigiane per il recupero di armi, vettovagliamenti, ed equipaggiamenti.
Nella valle, le bande partigiane sono sorrette dalla attiva partecipazione dei gruppi di Resistenza civile. I tedeschi allora intensificano le azioni anti partigiane e di terrorismo sulla popolazione.
Nel Gennaio-Febbraio ’44 la vallata è sotto il controllo delle Forze di Liberazione, dopo l’eliminazione delle squadracce fasciste. Iniziano anche le operazioni in pianura.
Nel Marzo-Aprile ’44, le bande sono formate da centinaia di uomini ed includono anche ex prigionieri sovietici, polacchi, cecoslovacchi e angloamericani.
I problemi organizzativi diventano sempre più gravi, ma il CLN tenta in tutti i modi di aggiustare la situazione.
Vengono intensificati e diventano più efficaci i colpi, le imboscate ed i prelievi di materiale nemico. Fra le ritorsioni più inumane ci fu quella dell’eccidio di Cumiana, dove i tedeschi, con l’aiuto delle SS italiane, uccidono 50 civili ed un partigiano pochi minuti prima dell’arrivo del parlamentare partigiano, da loro stessi invitato per lo scambio. Questo scambio avverrà ugualmente, ma solo con i superstiti.
Nel Maggio ’44, vi furono le più gravi perdite subite dalla Resistenza militare e civile in Val Sangone. Le truppe nazifasciste si scatenarono in un enorme rastrellamento, il più grande. Attaccarono dal fondo valle, dalla Val Chisone, e dalla Val di Susa, accerchiando così i partigiani della Val Sangone.
Gli scontri più duri sono avvenuti al Col Bione, sotto il Colle della Russa ed al Pontetto. Si contarono più di un centinaio di morti.
Nel Giugno ’44 affluiscono nuove leve e le formazioni attaccano la polveriera di Sangano. Il comandante De Vitis, dopo aver conquistato la polveriera, ed aver catturato tutto il presidio, sostiene con un gruppo di coraggiosi, il contrattacco tedesco e cade per consentire la ritirata alla sua formazione.
Nel Luglio-Ottobre ’44 colpi, imboscate, sabotaggi e contro sabotaggi, diventano più numerosi. Gli effettivi delle bande sono più di un migliaio e l’organizzazione diventa più efficiente. La vallata è sotto il controllo partigiano. Gli alleati inviano anche una loro missione in vallata. Popolazione e clero, partecipano con entusiasmo all’opera delle bande.
Essendo molto vicini a Torino ed avendo diverse strade di comunicazione con la Francia, fu possibile compiere numerose spedizioni contro le caserme torinesi e ciò permise di catturare anche molti gerarchi fascisti e ufficiali tedeschi. Proprio per questo motivo furono molte anche le puntate del nemico, in una delle quali, venne catturato e impiccato il comandante “Campana” [Felice Cordero di Pamparato]. A comandare la sua brigata viene chiamato il professor Usseglio […]
Nel novembre-dicembre ’44 i nazifascisti iniziarono grandi rastrellamenti e vi sono molti scontri. Il 27 Novembre, vi fu una grossa operazione di rastrellamento, ma i partigiani seppero organizzarsi bene e non subirono gravi perdite.
Purtroppo, vi fu un lancio da parte degli alleati per rifornire i partigiani delle tre vallate, di armi, su alla Maddalena. Era stato stabilito che avrebbero dovuto farlo in situazione di calma, invece fu fatto all’improvviso e così i tedeschi presero tutto o quasi, il materiale. I tedeschi decisero allora di mettere dei presidi in vari paesi ed in varie borgate della vallata e diedero inizio ad uno stillicidio di azioni terroristiche contro civili e partigiani catturati.
Nel Gennaio-Maggio ’45, le formazioni partigiane estesero la loro influenza sulla popolazione con la quale vivevano in simbiosi sia in montagna, sia in pianura.
Veronica Ugazio, Sentieri partigiani in Val Sangone, in Careglio

Mi chiamo Branca Gino e sono un giovane partigiano agli ordini del comandante Nicoletta e di Fassino. Eravamo nella Val Sangone e nella Valle di Susa. Siamo partiti da Rivoli, con Bruno Simioli, noi lo chiamiamo Ribelle, da dove adesso c’è il nuovo ospedale. Abbiamo viaggiato tutta la notte e l’indomani mattina siamo arrivati alla Presa di Pessa. Lì c’era il distretto dei partigiani, dopo Coazze, per andare tra il Colle Braida e Roccia Corta, che per la precisione si chiama Colle Remondetto. Da lì poi ci siamo trasferiti diverse volte. Io ero un giovane partigiano, però non mi sono mai tirato indietro dalle azioni a cui ero stato comandato. Naturalmente io ho fatto delle piccolissime cose e lui, il nostro comandante, ha fatto grandi cose, ed è quello che dava a noi la carica.
Prima di presentarvi il comandante Nicoletta vorrei solo dirvi, perché voi poi lo diciate ai giovani, che la formazione di Nicoletta, la 43° Divisione di Sergio De Vitis, ha avuto cinque medaglie d’oro e altre d’argento e di bronzo perché ha avuto circa trecento morti. Ci sono state grandi difficoltà perché all’inizio eravamo quasi disarmati, dovevamo andare a prendere le armi ai fascisti ed ai tedeschi, come pure le munizioni e il vettovagliamento. Il comandante Nicoletta ed i suoi diretti collaboratori avevano una grossa responsabilità anche per l’approvvigionamento, perché eravamo 1200 uomini, di cui 978 del Piemonte, 79 della Sicilia, 49 del Veneto, 34 della Lombardia; quasi tutte le regioni italiane erano rappresentate nella formazione di Giulio. C’erano anche degli stranieri, polacchi, russi, francesi e argentini, ed era una forza così amalgamata che non c’era mai nessuna distinzione. Là erano tutti partigiani, era l’Italia. Si credeva in quello […]
Intervista rilasciata da Nicoletta Giulio il 14 novembre 2003 presso il laboratorio d’informatica della succursale di Via Sestriere della Scuola Media “Primo Levi” di Cascine Vica – Rivoli (Torino). E’ presente il Sig. Branca Gino

Anche Bruino fu teatro degli eventi che caratterizzarono il periodo resistenziale. Nei giorni successivi all’armistizio i fratelli Franco e Giulio Nicoletta trovarono ospitalità a Bruino, presso la casa di Piero P., il quale aveva già dato rifugio a quattro ex prigionieri inglesi fuggiti dai vicini campi di concentramento.
I giovani di Bruino si rivolgevano a noi per sapere cosa fare. Gli inglesi, invece, volevano star nascosti sino all’arrivo degli Alleati, che secondo loro era imminente. Mio fratello ed io parlavamo e cercavamo di capire che cosa si poteva fare, che cosa era meglio. Abbiamo cominciato così ad essere partigiani, a pensare e decidere in modo autonomo“.
Sebbene nei primi mesi del 1944 fosse stata sancita la pena di morte per i renitenti che non si presentavano alla chiamata alle armi della Rsi, a Bruino nessuno rispose a quell’appello; al contrario, molti giovani delle leve 1924 e 1925 salirono in montagna a combattere nelle formazioni partigiane. Già nei primissimi giorni Giovanni V., Ugo S., Gino R. e Cesare B., tutti di Bruino, si ritrovarono così nella banda A. Catania, comandata dal “Rossi” (nome di battaglia di Fausto Gavazzeni) […] Dopo la Liberazione, il 27 aprile 1945 il comitato si sarebbe riunito il 4 maggio 1945 avrebbe comunicato tramite lettera al Clnp di aver preso possesso dell’amministrazione del Municipio di Bruino, nominando alle principali cariche le seguenti persone: Sindaco: Giuseppe Nizia (Partito comunista); Vice sindaco per Bruino Capoluogo : Nazareno Carosso (Partito liberale) e vice sindaco per la frazione di Sangano: Michele Maletto (Democrazia cristiana).
Anche gli abitanti di Bruino, nei venti mesi che caratterizzarono la lotta resistenziale, dovettero fare i conti con gli orrori che la guerra in corso provocava.
Numerosi furono gli episodi avvenuti nel territorio comunale, alcuni più eclatanti (l’attacco alla polveriera di Sangano, l’uccisione di quattro ufficiali tedeschi e il mitragliamento del trenino tra Bruino e Sangano), altri meno importanti per la cronaca, ma che rimasero impressi in modo indelebile nelle menti degli individui che li vissero in prima persona. Molteplici sono i racconti e le testimonianze, che insieme all’ampia bibliografia, tracciano il quadro degli eventi.
A metà giugno la fase critica seguita al rastrellamento di maggio fu completamente superata e le formazioni ripresero le loro azioni. All’attivismo partigiano faceva riscontro la combattività operaia. Il 17 giugno il comitato d’agitazione della FIAT Mirafiori decideva di scioperare e il giorno 19 dello stesso mese veniva proclamato lo sciopero generale. Il movimento di protesta si estese anche alla provincia, coinvolgendo tra l’altro l’Assa di Susa e le Ferriere di Avigliana. Proprio in quei giorni, fra le formazioni partigiane maturò l’idea di compiere una serie di azioni coordinate tra la val Sangone e le valli adiacenti. L’obiettivo era quello di distrarre le forze nemiche dalla pressione che stavano esercitando sugli operai degli stabilimenti di Torino. L’iniziativa partì dalla delegazione garibaldina della valle di Susa che, parlando a nome del Cln regionale, contattò Giulio Nicoletta: “Venne da me “Majorca” un combattente della guerra di Spagna che comandava la “Felice Cima”. Parlò a nome del comitato di Torino, dicendo che dopo la presa di Roma anche il Piemonte doveva fare qualcosa e che erano necessarie delle azioni per sostenere lo sciopero delle fabbriche torinesi. Io convocai i comandanti delle nostre formazioni e Fassino e De Vitis mi dissero che loro stavano già progettando delle azioni al dinamitificio Nobel-Allemandi e alla polveriera di Sangano, per le quali avevano fatto dei sopralluoghi. Insomma, c’erano le condizioni per coordinare le varie forze e io, da parte mia, avevo sempre sostenuto l’importanza dell’unità d’azione”.
Il piano fu messo a punto nei giorni successivi, coinvolgendo anche i commissari politici delle brigate garibaldine della valle di Susa e alcuni delegati di Maggiorino Marcellin [Butler], comandante della val Chisone. Le bande della val Chisone e delle valli di Lanzo si impegnarono a compiere azioni nei centri principali (Pinerolo, Viù, Castellamonte) per tenere occupate le forze nemiche; le bande della val Sangone e della val Susa concordarono di colpire i centri nevralgici delle rispettive zone: la “Felice Cima” doveva occupare il presidio del castello di Rivoli e la linea ferroviaria; la “Carlo Carli” avrebbe attaccato il dinamitificio Nobel-Allemandi; la “Walter Fontan” sarebbe scesa a Bussoleno bloccando la ferrovia a monte; la “Sergio De Vitis” avrebbe occupato la polveriera di Sangano. Gli altri uomini della Brigata Autonoma val Sangone si sarebbero disposti nelle retrovie, tra Avigliana e Trana, pronti all’intervento in caso di necessità. La data fissata era il 26 giugno.
L’entusiasmo tra i partigiani era notevole. Per la prima volta si predisponeva un piano di elevata portata e un coordinamento di grandi proporzioni. L’ottimismo era anche alimentato dal pensiero che quelle azioni programmate potessero avere una valenza risolutiva ai fini della guerra in corso.
In realtà le cose non stavano proprio così.
Pensavo che la comunicazione arrivasse dal Cln di Torino, invece era dei Garibaldini. Io non sapevo nulla dei contrasti che c’erano nel Cln regionale a proposito dello sciopero e delle resistenze di democristiani e liberali a sostenere l’agitazione. Per noi, usciti da vent’anni di fascismo e dall’esercito regio, il Cln regionale e gli organi direttivi nazionali erano come delle nebulose, eravamo fuori dai loro dibattiti politici. Per cui, quando è arrivata la conferma scritta dell’attacco del 26, ho pensato che fosse di tutto il Cln e non solo di una corrente politica: di li è nato l’entusiasmo eccessivo, la sopravalutazione dei fatti.
L’attacco alla polveriera fu messo in atto dalla banda “De Vitis”. Poco dopo la mezzanotte gli uomini partiti da Piossasco aggirarono la collina di San Giorgio e si divisero in tre gruppi, comandati da Sergio De Vitis, Luciano Vettore e Stefano Maria Nicoletti. Pioveva e la notte buia favorì l’avvicinamento. All’alba gli uomini erano già a ridosso dei camminamenti delle sentinelle.
I partigiani appostati, in attesa dell’attacco, osservano, calcolano le distanze e tentano d’immaginare dove e quale sarà la difesa tedesca. Le sentinelle passeggiano davanti all’ingresso. Sono le sette. Una sentinella lascia la garitta ed entra nel dormitorio per svegliare il cambio. Sergio balza in piedi, tutti gli siamo dietro. Inizia la sparatoria, ma non vogliono arrendersi. Il nostro “vecio” (Pietro Curzel), negli intervalli della sparatoria si sgola a gridare “camerada raus!”. Niente da fare, hanno paura, perciò tengono duro.
Alle 7,15, in seguito alle trattative condotte da una loro ragazza… di servizio, escono dal corpo di guardia disarmati, trascinando quattro feriti, di cui tre gravi [decederanno in seguito). Per catturare il maresciallo comandante che, con un soldato resiste, nella villa più a valle, Sergio deve far scendere gli altri prigionieri e, sotto la tutela della sua pistola-mitra, presentarli come condizione di resa. La presentazione è convincente: scendono tutti e due. La polveriera è nostra.
L’attacco si concluse in mezz’ora senza nessuna perdita: i tedeschi lasciarono diciassette prigionieri (tra cui quattro feriti), sedici fucili mitragliatori, otto pistole, un autocarro, numerose casse di munizioni e riserve alimentari. Sergio De Vitis e i suoi collaboratori avevano calcolato che i tedeschi non avrebbero potuto mandare rinforzi in tempi brevi. Occorreva tenere la posizione fino a sera e attirare le truppe nemiche da Torino per alleggerire la posizione degli scioperanti. Tutto il materiale prelevato dai magazzini fu portato a Forno di Coazze insieme ai prigionieri catturati. De Vitis organizzò la linea di difesa, con l’appostamento di armi automatiche in direzione della stradale Giaveno-Orbassano e con squadre appostate sul costone sopra Sangano. Insieme al tenente Nicoletti e Luciano Vettore, si mise al lavoro per minare l’area. L’obiettivo era di far saltare la polveriera a missione ultimata. Nel frattempo però le altre bande avevano incontrato delle difficoltà. La “Carlo Carli”, anch’essa divisa in tre gruppi, attaccò contemporaneamente la polveriera Nobel-Allemandi e il dinamitificio Valloia e lasciò un presidio alla stazione ferroviaria di Avigliana. Le forze nemiche furono sottovalutate e i partigiani respinti e costretti alla ritirata. Poco dopo giunse in stazione un treno merci con un centinaio di fascisti nascosti al suo interno. La battaglia si fece aspra. Fassino fu ferito e di li a poco catturato, mentre il resto della banda trovò rifugio nelle colline sopra i laghi. La “Walter Fontan”, dopo aver impegnato a lungo le truppe tedesche asserragliate nella caserma di Bussoleno, dovette ritirarsi ad un passo dalla conquista del presidio, per il sopraggiungere di un convoglio blindato tedesco. Anche a Rivoli il tentativo dei partigiani di bloccare i tedeschi non ebbe l’esito desiderato. I partigiani della “Felice Cima” non riuscirono a presidiare la strada statale e la ferrovia, assolvendo così al loro compito tattico principale. Le difficoltà delle operazioni nel fondovalle avevano aperto la strada ai rinforzi tedeschi, che sopraggiunsero nei vari teatri di guerra prima del previsto e molto più numerosi di quanto si aspettassero i capi partigiani.
A Sangano, verso le 14 accadde l’imprevisto. Una colonna di autocarri e autoblindo giunse a Bruino con due o trecento uomini, in prevalenza tedeschi, che, scesi dai mezzi, si disposero ai piedi della collina.
Un attacco di quelle proporzioni e in tempi così stretti non l’avevamo messo in conto. Abbiamo saputo dopo che al mattino era sceso a Sangano dal trenino un soldato del locale presidio, che rientrava dalla licenza: sentiti gli spari, aveva avvertito subito i comandi di Airasca e di Torino e il colonnello Von Klass, responsabile della zona, aveva ordinato di rioccupare la polveriera. Noi pensavamo che un attacco di grosse proporzioni avrebbe potuto esserci solo verso sera, quando contavamo di ritirarci senza accettare lo scontro. Così invece, non è stato possibile evitarlo.
Grazie a tre mitragliatrici piazzate nei punti strategici, i partigiani riuscirono a bloccare i tedeschi per diverse ore. Il combattimento si fece sempre più cruento e la pressione nemica sempre più pesante. Verso le 17 De Vitis ordinò al grosso della formazione di sganciarsi e di ritirarsi verso le Prese di Piossasco, un po’ più a monte. Il comandante, insieme ad un manipolo di uomini, resistette fino all’arrivo de tedeschi e si ritirò risalendo la collina in direzione di Trana. Probabilmente intendeva raggiungere Giaveno per avvisare dell’accaduto le altre formazioni partigiane. Ad un certo punto del percorso il gruppetto venne intercettato da una pattuglia nemica, che nel frattempo aveva aggirato la dorsale del fondovalle senza essere vista. Lo scontro fu imprevisto e molto duro. Sergio De Vitis e sette suoi compagni furono uccisi in quell’agguato. Il primo a cadere fu Giovanni Impiombato, subito dopo lo stesso Sergio De Vitis, colpito da una raffica di mitraglia; di seguito fu la volta di Stefano Maria Nicoletti, Mario Bertucci, Massimo De Petris, Giuseppe Vottero, Bruno Bottino e Pantaleone Mongelli. Teresio Gallo fu catturato vivo e inviato in un campo di concentramento in Germania. Giancarlo Bressi e Arrigo Craveia, due avieri che avevano disertato, furono riportati al loro reparto e fucilati. Eugenio Masiero, sfuggito alla cattura ma ferito, cadde qualche ora dopo alle porte di Orbassano. L’unico a salvarsi fu Luciano Vettore, che riuscì ad uscire dall’accerchiamento. La banda De Vitis subì un grave colpo, in pochi minuti perse dodici uomini, tra cui il comandante.
De Vitis era un ottimo capo, forse quello che conosceva meglio la tecnica della guerriglia. Quando il grosso si è sganciato, lui aveva sicuramente pensato ai tempi necessari per garantire a sé e ai suoi la ritirata. Evidentemente nessuno si era accorto di un reparto che, forse costeggiando il Sangone, aveva aggirato la zona del combattimento ed era salito dall’altra parte. Questo spiega anche perché sono morti tutti: se avessero temuto la presenza di pattuglie nemiche, si sarebbero mossi in ordine sparso e qualcuno si sarebbe salvato. Così, invece, ce l’ha fatta solo Vettore.
Quel pomeriggio gli uomini della Brigata Autonoma Val Sangone rimasero attestati sulla collina sopra i laghi di Avigliana, ignari di ciò che stava accadendo a Sangano. Verso le 16 sopraggiunse da Rivoli Brigida Piol, madre di Agostino, partigiano della “Carlo Carli”, inviata dal Cln di Rivoli per avvisare Giulio Nicoletta che l’azione doveva ritenersi conclusa, in quanto la formazione della val Susa, impegnata a Rivoli, non aveva potuto dare il suo contributo. Il ritardo con cui arrivò la notizia fece infuriare Giulio Nicoletta che, temendo di essere accerchiato dai nemici, cominciò una lunga marcia attraverso i boschi di Montecuneo, camminando con alcune centinaia di uomini alla volta di Giaveno. Determinante fu la strenua difesa del ponte sul Sangone, a Trana, da parte della banda “Campana”, che impedì all’autocolonna tedesca che arrivava da Sangano di tagliare la strada a Nicoletta ed ai suoi uomini. La banda mise di traverso un vagone del trenino e bloccò i tedeschi che non riuscirono a passare. Alcuni passaggi di quegli episodi sono ancora oggi fonte di dibattito e ricerche. Nell’elenco dei morti alla polveriera di Sangano, stilato dal comune di Bruino in un rapporto al comune di Palmi (Reggio Calabria) nei mesi di luglio-novembre 1945, risultano anche i nomi di Ezio Querio e Cesare Arginelli, sui quali sta attualmente compiendo ulteriori ricerche Mauro Sonzini.
A distanza di quasi settantanni, un altro episodio è ancora da chiarire e presenta lati oscuri.
L’attacco della “Felice Cima” ai presidi di Rivoli fu davvero messo in atto come nei piani prestabiliti? E per quali ragioni la notizia del fallimento delle operazioni arrivò così in ritardo?
Nell’azione del 26 giugno sul ponte del Sangone era presente anche Giacobbe Matteo Prade (nome di battaglia “Giaco”), partigiano di Bruino appartenente alla banda “Campana”, che insieme a Carmelo Fiandaca (soprannominato “Carmelo il boia”) riparò e si nascose nella cascina Dalmasso a Bruino, dalla fidanzata Celestina, che divenne in seguito sua moglie. La cascina fu la stessa che fu usata nel periodo della “pianurizzazione”, come nascondiglio di armi e munizioni e dove si trovarono a passare, tornando da Torino qualche giorno dopo la liberazione, Giulio Nicoletta, Giuseppe Falzone ed Eugenio Fassino, appena liberato dal carcere in cui era rinchiuso.
Eravamo qualche giorno dopo la liberazione e ci trovavamo sul ciglio della strada di fronte alla cascina Dalmasso abitata dalla famiglia Germena, quando tutto a un tratto, sopraggiunse un’autocolonna tedesca sbandata e in fuga. Alcuni di noi si nascosero nel fosso al lato della strada, altri nel cortile della cascina dietro agli alberi: Carmelo il boia prese il fucile-mitragliatore che portava sempre a tracollo e lo puntò verso la colonna tedesca pronto a fare fuoco. Giaco lo fermò prontamente e gli intimò di non sparare, evitando così di mettere a repentaglio le loro vite e quelle degli abitanti la cascina. Carmelo non ci pensava mai due volte prima di sparare.
3 Confini

Relazione dell’opera svolta dal Clero nella Guerra 1940 – 1945 nel paese di Trana (Prov. di Torino) opera a vantaggio di sinistrati e sfollati.
Sin dal Novembre 1943 quando i primi bombardamenti obbligarono gli abitanti di Torino allo sfollamento,Trana fu letteralmente presa d’assalto data la sua comodità con Torino.
Per venire incontro alle miserie di tanti sfollati e sinistrati il Parroco mise a disposizione locali sia per abitazione sia per ricovero del mobilio; in seguito per ovviare nell’ambito del possibile a tutte le altre difficoltà (penuria ai viveri, di suppellettili, di vestiario) fondò coll’aiuto di brave persone la Conferenza di S. Vincenzo per la visita dei poveri a domicilio che si rese ammirevole per il suo spirito ai abnegazione e per l’abbondanza dei soccorsi in denaro in derrate alimentari e in vestiario.
In seguito il Parroco si fece propagatore per una raccolta a vantaggio dell’opera “La Carità dell’Arcivescovo” e presentava nelle mani di Sua Em. il Cardinale la vistosa somma di Lire Ventunmila.
Opera svolta dai Parroco in occasione di azioni di rappresaglia La quiete di Trana fu turbata la prima volta il 9 febbraio 1944 quando repubblicani esaltati volevano impiantare nel Palazzo delle Scuole un Comando Repubblicano.
Alle ore 14 dello stesso giorno capitò per le strade di Trana una feroce scaramuccia fra Repubblicani e i Partigiani della Valle Sangone e i repubblicani avuta la peggio lasciavano cinque morti.
Per impedire nuovi conflitti e sopratutto la vendetta sul Paese minacciata dai Repubblicani il Parroco riuscì colla persuasione a far sloggiare da Trana chi era l’anima per l’organizzazione di questo centro repubblicano.
Più tardi e precisamente il 26 Giugno 1944 i Partigiani di Val Sangone in seguito ad una falsa interpretazione di ordini presero possesso di Trana e della vicina Polveriera di Sangano.
Alla sera dello stesso giorno arrivò uno squadrone di tedeschi con autoblinda e carri armati che gettò lo spavento in mezzo alla popolazione con uno sfoggio di scariche di mitraglie e cannoncini.
Vedendo in seguito la loro impossibilita di sorprendere i Partigiani annidati sulle montagne circostanti Trana, entrarono nelle case e prelevarono settanta ostaggi in preferenza padri di famiglia-ostaggi che stavano per essere portati in campi di concentramento.
Il Parroco saputa la cosa intervenne presso il comandante tedesco e assumendosi la responsabilità dell’innocenza dei 70 detenuti riusci ad ottenerne la liberazione fra il giubilo e la riconoscenza commossa di tutta la popolazione in lacrime.
Con questa liberazione si stimava chiusa così triste parentesi, ma invece nelle prime ore del 27 giugno piombava improvvisamente su Trana uno scaglione di tedeschi della SS. della Bermans che bloccato il paese, fatta man bassa sugli averi di molte case radunarono tutta intera la popolazione (compresi i bimbi lattanti, i vecchi e gli ammalati) sulla piazza della Parrocchia e li fra un apparato di forza bruta si venne ala scelta di 40 ostaggi scelti fra i 20 e i 50 anni.
Contro di questi si pronunciò la fatale sentenza: “se entro alle ore 19 di questa sera non saranno restituiti i 14 Tedeschi presi prigionieri dai partigiani alla polveriera di Sangano questi 40 ostaggi verranno fucilati. Grida di strazio e lacrime furono l’eloquente risposta di tutta la popolazione e a queste grida il barbaro tedesco rispose: “Rivolgetevi al vostro Parroco che si dia d’attorno per trovare i nostri 14 compagni, il Parroco fedele al suo mandato percorse prima le montagne di Giaveno e Coazze; poi lasciate persone di fiducia per trattare coi partigiani dell’investigazione e in seguito della resa, egli col medico locale partiva per Torino ingannando il Comando tedesco locale che si rifiutava a tale partenza, a Torino poi si portava ai vari comandi della Repubblica e dei tedeschi per vedere di procrastinare l’ora fatale della resa.
La Provvidenza e l’aiuto visibile della Vergine con condusse a buon esito le pratiche e alle ore 20,45 i quaranta ostaggi potevano ritornare in seno alle loro famiglie.
Dal giugno al dicembre (data dell’ultimo rastrellamento) fu un susseguirsi di ore e di giorni di apprensione .I Partigiani occultati nei boschi di Trana tentavano agguato ai tedeschi e repubblicani che transitavano sulla strada provinciale Torino – Pinerolo – Giaveno, di modo che in parecchie circostanze il Parroco e il Podestà (gli unici rimasti sul posto perché tutti gli altri all’effettuarsi d’ogni imboscata si davano prontamente alla fuga) s’industriavano per rimuovere morti e feriti onde evitare sul paese probabili e feroci rappresaglie.
Nell’agosto una colonna di autocarri accompagnati da autoblinde e carri armati arrivavano a Trana e facevano sosta sul ponte Sangone decisi a rimanere sino a quando non avessero avuto dal Parroco garanzia che i partigiani per tre giorni consecutivi non avrebbero tese imboscate, minacciando nel caso lo scoppio di bombe piene di gas asfisianti che essi intendevano trasportare dalla Polveriera di Sangano alla Stazione di Avigliana. E allora il Parroco per evitare danni alla popolazione prende i sentieri della montagna e sul piazzale della Chiesa della Maddalena sopra Giaveno raduna tutti i Capibanda e con preghiere ed insistenze ottiene la richiesta garanzia.
Al culmine poi di tutto questo interessamento il Parroco accusato di favoreggiamento ai partigiani veniva brutalmente prelevato dai tedeschi dalla Casa Parrocchiale il 4 di dicembre e dopo una notte ai freddo e di sofferenze veniva gettato col podestà di Giaveno nelle camere di sicurezza sottostanti all’ex Caserma dei Carabinieri di Pinerolo. Per 22 giorni il Parroco scontava presso i tedeschi S.S. della Bermans il suo interessamento a vantaggio della popolazione affidata alle sue cure e solo ai 26 dicembre poteva fra il giubilo di tutti ritornare al suo Ministero.
In Fede

Trana 3 ottobre 1945
Gianolio Giuseppe, Priore di Trana per 26 anni
edita in 3 Confini

Il primo contatto con gli alleati in Val Sangone avveniva nell’inverno 1943/1944, quando l’ingegner “Marelli” (Carlo Mussa Ivaldi) si incontrava alla borgata Rosa di Coazze con i comandanti delle bande per organizzare l’espatrio in Svizzera di ex prigionieri inglesi. Però l’organizzazione di ‘Marelli’ non era in grado di assicurare la mediazione. Un secondo contatto veniva avviato in aprile con l'”Organizzazione Franchi” di Edgardo Sogno tramite Ugo Campagna, rapporti personali, più che rapporti del C.N.L. Il risultato era un lancio nella zona del Palè, sopra l’Indiritto, la notte fra il 2 e 3 maggio. La situazione della vallata rifletteva le contraddizioni generali del rapporto fra alleati e movimento partigiano […] La situazione era parzialmente mutata in primavera, con la creazione del governo di unità nazionale nel Regno del Sud e il contemporaneo crescere del movimento resistenziale al Nord. Preoccupati dalle possibili conseguenze politiche di una lotta di liberazione in cui le forze di sinistra erano elemento trainante ma, nel contempo, militarmente interessati ad un’attività che impegnava numerose forze nemiche, gli alleati paracadutavano nell’Italia occupata le prime missioni: si trattava di ufficiali incaricati di assistere gli ex prigionieri, di organizzare lanci di viveri e di armi, di raccogliere informazioni sulla consistenza e sulla disposizione delle forze armate tedesche, ma anche di studiare il movimento partigiano, di verificare l’affidabilità politica, di condizionarne, dove possibile, gli orientamenti […]
In quest’atmosfera generale giungeva in vallata, a fine luglio, il capitano irlandese Patrick O’Regan, con l’incarico di stabilire il collegamento con le formazioni delle valli di Susa, Sangone e Chisone. Il capitano si trasferiva in Val Sangone per la sua centralità geografica rispetto all’area di competenza e si stabiliva presso il comando della brigata. In vallata il capitano restava sino ad ottobre quando, dopo essere passato in Francia, raggiungeva da Marsiglia il comando alleato nell’Italia meridionale; a fine novembre tornava nella zona di Torino stabilendosi in pianura, a None, presso il dottor Michele Ghio, dove rimaneva sino alla Liberazione.
La missione O’Regan (in codice ZUR/4) che si avvaleva della collaborazione di un radiotelegrafista italiano, Mario Nocerino “Renato”) organizzava due primi lanci nella zona della Maddalena, con cibo e vestiario per gli ex prigionieri e alcune casse di sten (“un’arma rustica, a tiro rapido, capace di sopportare anche una caduta a terra o la pioggia senza subire grossi danni”). Si trattava di aiuti deludenti, come annotava il capitano “Leo” (Bruno Leoni), ufficiale italiano addetto ad un’altra missione britannica, entrato in contatto con i partigiani della Val Sangone a fine ottobre.
Gli aiuti diventavano più consistenti durante il secondo periodo di attività di O’Regan in Val Sangone. All’inizio di dicembre c’era un lancio abbondante di armi e munizioni nella zona di Prafieul. In seguito il capitano inglese individuava un’area più adatta allo scopo in pianura, tra Airasca e None: i partigiani della vallata formavano una squadra addetta al recupero del materiale, intitolata a “Edo Dabbene” (caduto durante il rastrellamento di maggio) e comandata da Michele Ghio, ex podestà di None entrato nelle file della Resistenza. Oltreché di aviolanci, la missione ZUR/4, guidata dal capitano O’Regan, si occupava dell’assistenza ai prigionieri alleati, cercando di farli espatriare. Era il caso, a fine dicembre, di dodici aviatori americani, costretti ad un atterraggio di fortuna presso Airasca e salvati da un partigiano della Val Chisone, che li nascondeva in un cascinale presso Cumiana.
La missione O’Regan non era l’unica presente in vallata. Presso il comando della brigata “Campana”[Felice Cordero di Pamparato], al Mollar dei Franchi, c’era la missione POM (O.S.S.) guidata da “Silvio” (Luigi Segre), organizzata dagli americani per avere informazioni dirette sulla situazione locale.
A Balangero c’era, invece il capitano “Leo” ufficiale della missione britannica FERRET, incaricato di organizzare dei campi di transito per raccogliere prigionieri alleati da tutto il Piemonte. Si trattava però di missioni minori. Quella di ‘Silvio’ non era ufficialmente accreditata, quella del capitano ‘Leo’ è durata pochi mesi perché il rastrellamento di novembre-dicembre ha tolto la possibilità dei campi di transito. La Resistenza in Val Sangone, 11 dicembre 2014

Il gruppo di partigiani di Piossasco pur concentrato in Val Sangone si inserisce in diverse squadre partigiane attestate sulle montagne di Giaveno: l’Aquila, il Col del Vento, il Col della Russa, Forno di Coazze… Temendo eventuali attacchi da parte delle truppe nazifasciste in Val Sangone, le forze partigiane predispongono le difese.
Mercoledì 10 maggio 1944, alle ore 3,40, è l’allarme! È scattata una grande operazione di rastrellamento che investe contemporaneamente le Valli di Susa, Sangone e Chisone e vede impegnati, pare, diecimila uomini fra tedeschi e fascisti.
«La tecnica di attacco è fra le più perfezionate: bloccare il fondo valle e contemporaneamente scendere dai passi e dalle creste delle valli laterali per cercare di spingere i partigiani verso il basso e di insaccarli nel paese centrale della vallata, avvalendosi, oltre che della superiorità di uomini e mezzi, di un largo uso di cani poliziotto, di spie, di blocchi sistematici dei canaloni».
La sola Val Sangone è occupata da due reggimenti di Alpini, una Compagnia di «SS» italiani, una di Metropolitani ed un pattuglione di Carabinieri.
L’operazione, che dura dal 10 al 14 maggio, coglie di sorpresa i partigiani:
«Non c’è stata segnalazione, non è partita nemmeno la staffetta da Giaveno a venirci ad avvertire. Sono arrivati di sorpresa, siamo stati presi quasi nel sonno.» (B.P.)
I rastrellatori, «certo sicuri dei posti e delle forze nostre, guidati da molte spie», impegnano in combattimento le forze partigiane che lasciano sul campo centoventicinque caduti. L’azione, condotta con estrema ferocia e con atti di crudeltà inaudita, è la risposta ai primi atti di sabotaggio ed ai primi attacchi partigiani, ripresi con l’inizio della primavera, cui era seguita, il 4 aprile, la strage di cinquantasette civili a Cumiana, mentre si stava trattando la restituzione dei prigionieri e dopo che il parroco del paese aveva ottenuto dai partigiani ciò che i tedeschi chiedevano.
I nazifascisti fucilano sul posto i partigiani sorpresi con le armi in pugno, catturano e torturano i feriti, incendiano case.
Quel 10 maggio 1944 Mario Davide è a guardia del ponte di Sangonetto, da lui minato nelle giornate precedenti.
Nel corso della mattinata, mentre il nemico incalza, fa saltare il ponte, bloccando per un certo tempo l’avanzata e permettendo ai compagni di ritirarsi e di cercare scampo nella fuga.
Data la confusione e la tragicità del momento, le versioni dei testimoni sulle circostanze della sua morte sono contrastanti. La sorpresa ha disorientato i suoi compagni:
«È stato lì che qualche ragazzo, dopo i primi colpi si è ritirato, poi magari ha di nuovo attaccato, ma è mancato quel polso… Diciamolo pure, lui è rimasto solo, si è difeso molto bene, si è difeso come ha potuto, è stato colpito, è stato ucciso lì. Secondo quello che ho potuto sapere io, è stato ucciso lì. L’abbiamo trovato altrove, perché è stato spostato dai borghesi… Se avessero trovato dei morti, dei partigiani, avrebbero bruciato le case. » (B.P.)
«Ha tenuto testa da solo ai carri armati finché non sono scesi a guado nel torrente, poi è riuscito ad andarsene, che non aveva più munizioni… è risalito fino alla frazione Ruata, lì i tedeschi l’hanno incontrato… l’hanno ucciso lì. Per informazioni inesatte da parte dei valligiani è andato a finire in bocca ai tedeschi.»
(A.C.)
Le testimonianze concordano sul fatto che Mario è rimasto praticamente solo a far fronte agli assalitori. Dei valligiani trovano il cadavere e lo nascondono seppellendolo sotto poca terra per evitare rappresaglie.
Alla testimonianza della madre, resa a quarantanni di distanza, diamo più spazio per l’intensità, la drammaticità e la comprensibile passione del racconto:
«L’ultima volta che l’ho visto, sono andata su a trovarlo e lui mi ha detto: ‘Ma, come mai mamma, sono andato soltanto domenica a casa…!’ Mi pareva proprio che il destino mi dicesse: “Vallo a vedere, vallo a vedere… ‘.
Mi ricordo sempre che abbiamo mangiato sotto un pergolato che c’era lì…

Era con una famiglia, marito e moglie già anziani, che lo tenevano come un figlio, gli volevano bene. ‘Se non torno’ — disse a quella famiglia — fatelo sapere ai miei!
‘Otto giorni dopo la disgrazia abbiamo ricevuto la notizia che era ferito gravemente. Siamo partiti nel pomeriggio, io e mio marito, a piedi, e siamo andati su cercandolo da una famiglia all’altra, dove potevo trovarlo ferito. C’erano tedeschi dappertutto, non han chiesto niente. Abbiamo camminato fino a sera, cercandolo; nessuno l’aveva visto, lo chiamavano il ‘Biondo di Piossasco’.
Era ormai notte, non ci restava che tornare indietro. Abbiamo ancora chiesto; c’era un bambino grande così: ‘Il biondo di Piossasco, mia mamma sa dov’è!’.
‘Vostro figlio è morto, l’ha sepolto mio marito!’
‘Ma hanno detto che…’
‘No, no, vostro figlio è morto. Vi indicherei dov’è, ma non osiamo uscire.
Ed io ho detto a mio marito ‘Guarda siamo venuti a trovare nostro figlio morto. Se ci uccidono non importa, andiamo finché lo troviamo.
‘Fateci soltanto vedere dov’è e poi tornate a casa!’ Quella donna ci ha accompagnati un pezzo e poi ci ha detto: Vostro figlio è sepolto lì!
‘C’era ancora la terra fresca; perché era sepolto da pochi giorni. Che fare. C’era il coprifuoco; non potevamo più venire via.
Abbiamo detto alla donna: ‘Vogliamo essere sicuri che sia proprio lui!’ ‘State sicuri, l’ho coperto io, ha poca terra sul viso’. Ma noi non eravamo tranquilli.
È venuto suo marito e l’abbiamo scoperto. Povero bambino, era proprio vero, era proprio lui, sepolto come si trovava, calzato e vestito, con un palmo di terra addosso.
Mio marito aveva una medaglia in tasca, gliel’ha messa in mano e poi gliel’ha chiusa.
Gli ho fatto il segno della croce, prima che lo coprissero. Lo abbiamo dovuto ricoprire come era prima.
‘E adesso dove andiamo. E notte, c’è il coprifuoco, non possiamo più andare né su né giù. ‘ Ci ha ospitati quell’uomo, nella stalla, sulla paglia, ci ha dato un po’ di pane, abbiamo dormito li. L’indomani mattina ci siamo incamminati giù.
Eravamo sicuri che era proprio nostro figlio, l’avevamo visto, l’avevamo toccato, era proprio lui! Ci siamo incamminati a piedi. Nessuno per la strada ci ha parlato; tutti quei tedeschi che erano là ci hanno lasciato fare la nostra strada, tranquilli, se ce l’avessero chiesto non avevamo un pezzo di carta in tasca.
Quando siamo stati giù per la strada di Bruino è uscita gente che ci ha chiesto:
‘Dove siete andati.’
‘Siamo andati a vedere nostro figlio morto’.
‘Ma no! Vostro figlio è scappato in Francia come tanti altri.’
‘Se non l’avessi visto io, di persona, crederei a quello che mi dite!’
Soltanto un anno dopo abbiamo ricevuto l’atto di morte spedito da Falzone.
Ci hanno detto che potevamo andarlo a vedere. Siamo andate io, una mia vicina e mia cognata che, per sua bontà, mi ha dato il lenzuolo per coprirlo.
Siamo arrivate su la sera, ci hanno accompagnato a dormire e al mattino presto siamo andate a disseppellirlo. L’abbiamo ancora visto.
Hanno portato su loro la bara. Nove ne hanno disseppelliti quel giorno!
Li hanno messi nella chiesa, le bare una sopra all’altra. Falzone ci ha sempre detto che ce lo avrebbero dato morto e invece dopo un anno mi ha detto: “Vivo era suo, morto è nostro“.
Quando hanno costruito l’ossario ci hanno di nuovo mandato a chiamare e ci hanno chiesto quali erano gli amici di nostro figlio per metterli vicini. Vicino a mio figlio c’è un suo amico.
I ventisette ragazzi sepolti sotto, sono morti sepolti vivi: hanno sparato loro alle gambe, poi li hanno coperti.
Due altri li hanno fatti uccidere dai cani sulla strada per andare a Sangonetto. Ci sono duecentosettantatre morti partigiani a Forno.»
(L.G.).
Nei mesi successivi le bande partigiane, superata la crisi in cui erano cadute dopo il rastrellamento, ripresero e intensificarono la lotta, fino al 25 aprile 1945, quando le due divisioni della Val Sangone, la De Vitis e la Campana, parteciparono alla Liberazione di Torino. Dal libro:
Diario di Mario Davide
dopo l’8 settembre

Una scelta partigiana
Gruppo di ricerca sulla storia e la cultura locale di Piossasco, 1982
Comune di Piossasco
3 Confini

Intanto erano ricominciati i contatti con gli Alleati (in essere fin dall’inverno del 1943 e che avevano portato ad alcuni lanci di modesta entità a maggio), favoriti anche dalla mutata situazione generale della guerra. Nel corso dell’estate arriva in valle il capitano britannico Patrick O’Regan, incaricato di stabilire contatti con le formazioni partigiane delle tre valli. Grazie alla presenza di O’Regan (il quale, pur con un piccolo intervallo tra ottobre e novembre, sarebbe rimasto in zona fino alla Liberazione) riprendevano anche i lanci di materiale. All’inizio erano quantitativamente modesti poiché, in Val Sangone come nel resto d’Italia, gli Alleati erano ancora diffidenti verso la Resistenza, intimoriti soprattutto da un possibile predominio social-comunista all’interno del movimento. In seguito – in particolare a partire dall’inizio di dicembre – grazie anche alle buone impressioni avute dal capitano O’Regan, i lanci divennero quantitativamente un po’ più abbondanti. Proprio gli Alleati, intanto, si erano resi responsabili di un bombardamento ai danni dello jutificio “De Fernex” di Coazze. L’azione, avvenuta il 28 agosto [1944], non aveva provocato vittime ma aveva causato numerosi danni. Paolo Venco, figlio del direttore dello stabilimento e che all’epoca aveva dieci anni, ricorda così l’accaduto: «Nel pomeriggio, verso le ore 16,30 io (allora appena un ragazzo) e la signora Margherita Usseglio (che prestò servizio per tanti anni presso la mia famiglia) decidemmo di andare a prendere dell’acqua alla rinomata fontana “la Rasciasa” verso Ponte Pietra (…) dopo pochi minuti sentimmo il rumore di aerei che, a bassa quota, sorvolarono la zona sopra al Sangone. Ricordo che gli aerei volarono a gruppi di tre per volta per un totale di dodici velivoli. Immediatamente sentimmo il sibilo delle bombe appena sganciate e dopo pochi secondi attorno a noi scoppiò il finimondo, con zolle di terra e schegge di bombe che volavano da tutte le parti. […] Terminato il bombardamento (durato un paio di minuti) decidemmo di tornare verso casa per vedere i danni provocati dagli aerei; questi ne provocarono veramente tanti, a questo proposito ricordo che arrivammo davanti alla fabbrica e vedemmo un muro crollare, aprirsi e lasciare rotolare giù per il prato sottostante alcuni macchinari. Andrea Mortara, Guerra e Resistenza – Tra memoria e rappresentazione. Il caso di Coazze, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2011-2012, tesi qui ripresa da La Resistenza in Val Sangone

A destra, O’Regan durante una missione nel sud della Francia

Il capitano Patrick Valentine William Rowan O’Regan nasce a Marlborough nella contea del Wiltshire, in Inghilterra, il 2 febbraio 1920. Dopo aver concluso gli studi al Merton College di Oxford, nel 1939 entra nell’esercito. Inizialmente è impegnato in Asia orientale. Nel 1944 entra a far parte del SOE (Special Operations Executive) ed opera in Francia – nel sud-est del paese ed in particolare nella zona di Marsiglia, dove utilizza il nome di battaglia di “Chape” – e nel nord Italia a stretto contatto con i partigiani. Giunge in val Sangone il 31 agosto del 1944, con l’incarico, da parte del comando alleato, di stabilire i collegamenti con le formazioni partigiane delle valli di Susa, Sangone e Chisone. Paracadutato presso il colle May, in Val Chisone, O’Regan si trasferisce poi in Val Sangone, per la sua centralità geografica rispetto all’area di competenza, e si stabilisce presso il comando della brigata. Uomo dal temperamento gioviale, O’Regan si dimostra subito anche molto attivo e coraggioso. Come responsabile della missione alleata ZUR/4 organizza diversi aviolanci di armi, cibo e vestiario e si occupa dell’assistenza ai prigionieri alleati. O’Regan rimane in vallata fino all’ottobre del 1944, quando, passato in Francia, può raggiungere, da Marsiglia, il comando alleato nell’Italia meridionale. Ma, già a fine novembre, si trova nuovamente nella zona di Torino e si stabilisce a None, da dove porterà avanti la sua missione fino alla conclusione della guerra. La Resistenza in Val Sangone, 11 dicembre 2014

L’arrivo del maggiore Neville Darewski “Temple” presso il comando di “Mauri”, nell’agosto del ’44, preceduto da una visita alle formazioni nelle valli Stura, Grana e Gesso e in val Ellero presso Piero Cosa, offriva agli occhi di garibaldini e GL l’impressione che “Mauri” potesse ottenere un vantaggio da quella circostanza; tanto più che il comando della VI divisione non otteneva lo stesso interessamento da parte inglese, almeno fino a quando “Temple” non concorderà con “Andreis” un regolare lancio di armi, interrotto poi verso la fine del ’44. 814
Con l’arrivo del colonnello John Stevens e del capitano Edward Ballard il 19 novembre, 815 il contesto non sembra cambiare. Il primo, in veste di capo delle missioni alleate in Piemonte, si sposta continuamente tra le Langhe e Torino, dove giunge una prima volta il 20 dicembre per esporre il suo progetto di organizzazione delle forze partigiane per la regione, lasciando Ballard quale capo missione presso la I divisione alpina comandata da Bogliolo. 816 A questo poi si aggiunge un altro capitano inglese, Patrick O’Regan “Chape”. I due ufficiali restano nelle Langhe in modo continuativo, stabilendo contatti con tutte le formazioni dell’area. 817
814 Lo ricorda lo stesso “Andreis” in una relazione del 6 febbraio 1945, che fa seguito all’incontro avuto con O’ Regan a Cortemilia il 27 gennaio, in cui scrive: «[…] con il maggiore Temple si avevano presi degli accordi che ora [con O’Regan, NdA] non venivano rispettati […]», in C. Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, vol. III; cit., doc. 588 “Relazione dell’ispettore Andreis ‘sulla riunione tenuta a Cortemilia col rappresentante della missione inglese’”, 6.2.45, p. 334
815 Il capitano Edward Ballard era giunto in Langa con il col. Stevens verso la fine di novembre, in sostituzione di Temple, morto in un incidente d’auto a metà novembre, “Relazione sugli avvenimenti che hanno accompagnato la morte del maggiore Temple”, AISRP, A LRT 1 a
816 M. Giovana, Guerriglia, p. 296
817 Edward Ballard resta nelle Langhe fino alla fase insurrezionale, mentre O’Regan verrà inviato da Stevens nel paese di None, in qualità di capo della missione alleata della IV zona – val Chisone, A. Young, “La missione Stevens e l’insurrezione di Torino”, cit., p. 99

Giampaolo De Luca, Partigiani delle Langhe. Culture di banda e rapporti tra formazioni nella VI zona operativa piemontese, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Facoltà Lettere e Filosofia, Corso di laurea magistrale in Storia e civiltà, Anno Accademico 2012-2013

Val Sangone – «Sì, quella è davvero “Villa dell’Allegria”». L’ha riconosciuta, Eraldo Davide, fratello di Mario, il partigiano piossaschese giustiziato dai tedeschi il 10 maggio 1944 a 21 anni. Quella grotta ritrovata in borgata Prese, sulle alture tra Sangano e Piossasco (“L’Eco” ne parlò a luglio) «fu davvero uno degli ultimi rifugi di mio fratello».
L’Ecoha incontrato Eraldo Davide nella sua casa a Piossasco; il ritratto di Mario è ben visibile sulla credenza in soggiorno e lui guardandolo esclama: «È un bene che qualcuno si ricordi di queste vicende, perchè solo la memoria può evitare che succedano ancora».
I ricordi sono ancora nitidi: “Dopo l’esecuzione dissero ai miei genitori che Mario era stato ferito a piedi andarono da Piossasco a Bruino, poi col treno fino a Giaveno infine nuovamente a piedi, raggiunsero Borgata Ruata (Coazze) per cercare il luogo dov’era stato sepolto». Eraldo aveva 11 anni, essendo nato nel 1933.
“Giunti sul posto, una ragazzina li sentì parlare del “biondo di Piossasco” -prosegue e li accompagnò al luogo dove venne tumulato. Una persona anziana, chiamata dai tedeschi per la sepoltura, gli aveva messo una corona del rosario fra le mani e lo aveva sepolto sotto un sottile strato di terra. Prima che ciò avvenisse, i militari avevano infierito sul cadavere».
Nella “Villa dell’Allegria” Mario aveva vissuto gli ultimi giorni di libertà: «un paio di mesi prima che morisse lo vidi per l’ultima volta, insieme a due dei suoi compagni. Avevo 11 anni, ogni due giorni scendevo dalle Prese di Piossasco a valle, passando dai dirupi “Rubatabò”, per andare a cercare rifornimenti: i bambini davano meno nell’occhio. Impiegavo mezz’ora per scendere di corsa e 40 minuti per salire con lo zaino pieno». Prosegue: «Io rimanevo in borgata (faceva garzone presso gli zìi che abitavano alle “Case Garello”) e i partigiani scendevano per ritirare i viveri».
Eraldo descrive l’ultima azione di suo fratello: «Era stato minato il ponte di Sangonetto a Coazze, ma l’innesco non ha funzionato e lui è tornato indietro per accendere le micce per farlo saltare. Con la squadra è stato sorpreso dai tedeschi, si è difeso usando le bombe e il moschetto, finché non è stato catturato e giustiziato» […] Intanto che il camion della morte riparte, i contorni del riprovevole disegno nazifascista si fanno man mano chiari anche per i ragazzi a bordo: i prigionieri saranno fucilati a gruppi in località diverse, in modo da lasciare alle locali popolazioni un segno forte della determinazione a colpire chiunque osi sfidare il nazifascismo. Forse per questo a bordo del cellulare, forse per richiamare l’attenzione lasciando un ricordo del loro passaggio in modo che i propri cari ne abbiano notizia ma anche per far sapere alla popolazione che stanno affrontando la morte a testa alta, i prigionieri cominciano a salutare i passanti che incontrano lungo il loro passaggio: i passanti però non ne intuiscono subito il motivo.
II camion arriva intanto a Giaveno e si ferma intorno alle ore 13,30 in piazza Molines poco dopo la sartoria dei genitori di Adelaide Garrone vicino al bar Piatti. I soldati affiggono il manifesto vicino alla finestra della latteria. La quindicenne Elda Bramante sta accompagnando la sorellina di sei anni all’asilo quando un soldato le si avvicina, la prende bruscamente per un braccio e la trascina a leggere il manifesto dicendo “Ribelli! Ribelli!”. Nel frattempo dal cellulare vengono fatti scendere 10 prigionieri uno dei quali, baldanzoso, si alza le maniche dicendo: “Fieuj, an tuca a nui! (Ragazzi, tocca a noi)”: li accompagnano sulla piazza e li allineano i ragazzi fanno dei cenni con la mano ma le ragazzine sono terrorizzate. Poi li fanno andare un po’ più in centro alla piazza e li sistemano un po’ distanti gli uni dagli altri. Ne fucilano prima cinque e poi altri cinque che cadono sui primi. Poi un ufficiale provvede al colpo di grazia. Muoiono così [26 maggio 1944] il diciannovenne torinese Mario Groppo (banda Genio), il ventenne piossaschese Ugo Baudino (banda Sergio), il ventitrenne Giovanni Marocco, i fratelli Giorgio e Pietro Marconetto di venticinque e ventitré anni e il venticinquenne Andrea Moine, tutti della frazione Gerbole di Rivalta appartenenti alla banda Sergio, il quarantenne torinese Carlo Belletti (banda Sergio), il ventiduenne torinese Carlo Bruno (banda Cattolica), il ventenne torinese Vincenzo Virano (banda Cattolica) e il ventunenne torinese Giovanni “Gianni” Medici (banda Cattolica). Il soldato che tiene Elda per il braccio, la porta con la sorellina Anna vicino ai cadaveri spiegando loro “Ribelli, kaputt!. Elda ricorda che i partigiani recavano molti lividi mentre Anna ricorda che l’ufficiale che diede il colpo di grazia comperò delle ciliegie a una bancarella, le mangiò e ne sputò i noccioli sui corpi ormai senza vita. Alcuni soldati rimangono di sentinella.
Don Busso dice al podestà di voler restituire ai suoi cari Ugo Baudino, partigiano di Piossasco, uno dei caduti di Giaveno, riconosciuto da un’amica di famiglia. Il podestà se lo fa mostrare e ordina al falegname Vai di preparare una cassa e metterla nella camera mortuaria del cimitero. Alla sera i tedeschi si sparpagliano per le case private obbligando i proprietari a preparar loro, e in abbondanza, la cena. Ed è nottetempo quando, dopo che la sentinella s’è allontanata, in pieno coprifuoco Maria Riva esce dal portone di casa che si affaccia su piazza Molines e, avvicinandosi ai cadaveri, comincia ad imprimersi in mente i particolari di quei corpi, a cercare nelle loro tasche biglietti e oggetti che possano tornar utili a riconoscerli. Rientrata in casa, scrive tutto ciò che si ricorda.
Nel mettere i morti sul carro, il podestà Zanolli tenta di far collocare per primo il corpo di Baudino pur essendo il n° 6 ma il tenente dice “No, prima questo” indicando il n° 1. Il carro funebre si muove accompagnato dal podestà, da Jolini e due uomini che servono per collocare i morti sul carro e deporli nella camera mortuaria. A nessuno è consentito seguire il carro. Malgrado il divieto di sepoltura don Crosetto decide di recitare ugualmente le esequie a bassa voce dal socchiuso portone della canonica e, in accordo con lui, accuratamente celato dietro la porta d’una cappella del camposanto, don Busso, il viceparroco, benedice e assolve furtivamente i corpi al loro passaggio. Anche questa è da considerarsi, a pieno diritto, una forma di Resistenza e di disobbedienza civile. Al cimitero, sempre in presenza del tenente tedesco che si è fatto accompagnare dalle 11 truppe e da un carro armato, il podestà riesce finalmente a disporre prima gli sconosciuti, infine il cadavere di Ugo Baudino. Dopo la chiusura del cimitero, il tenente e i suoi uomini abbandonano finalmente Giaveno.
3 Confini dal libro: Abbracciati per sempre Di Mauro Sonzini, Gribaudo, Savigliano (CN), Anno 2004

Chi giungeva ieri mattina nei sobborghi di Giaveno aveva la subita impressione di trovarsi in un paese deserto: le prime strade erano silenziose, i portoni delle case erano serrati, le finestre chiuse, le serrande dei negozi abbassate, in segno di lutto. Poi, d’improvviso, nella piazza fulgida di sole, tra la chiesa parata di drappi purpurei e i vetusti torrioni striati di pietre grigie e cinti di edera, gli balzava agli occhi uno spettacolo imponente: tutto il popolo era il, silenzioso, commosso; brulicava all’intorno sino agli sbocchi delle vie, sotto i portici angusti, sui balconi, nelle terrazze. Nel centro, dinanzi ad un altare vivido di fiammelle, si scorgevano, chiare contro il bruno della terra, cinquantatre bare: sopra ognuna un nastro s’intrecciava ad un serto di fiori freschi. Ancora una volta Giaveno — cittadella del movimento partigiano piemontese — rendeva degne onoranze alle spoglie di eroici caduti con le armi in pugno contro gli oppressori nazifascisti. Assistevano alla pietosa cerimonia il Cardinale Arcivescovo, il presidente della Giunta regionale, il gen. Trabucchi, il vice-prefetto nonché numerose altre autorità italiane ed alleate. Erano pure presenti, a centinaia, patrioti della Val Chisone e della Val Sangone, giunti nella mattinata dalla città, dai borghi della pianura, scesi a gruppi dalle baite e dai villaggi alpestri — per accompagnare all’ultima dimora i fratelli di lotta. Terminata la messa, il Cardinale è avanzato tra le bare, le ha benedette, sostando a lungo in preghiera. Poi una solenne processione s’è svolta nelle vie centrali del paese. Dietro le associazioni religiose, le corone, gli stendardi, le bandiere dei cinque partiti, sono passate ad una ad una, lentamente, le bare, sorrette a spalla da alpini e da civili: e accanto ad ogni bara camminavano le madri le spose, le sorelle dei martiri, nascondendo tra i veli neri il viso rigato di pianto Sergio De Vitis… Giuseppe Costanzia di Costigliole… Giovanni Medici… Giorgio Galeazzo… Rinaldo Rosa… Molte donne al passaggio delle gloriose spoglie s’inginocchiavano singhiozzando. E gli uomini — mordendosi le labbra – s’irrigidivano sull’attenti. I bimbi, dalle braccia delle loro mamme, gettavano fiori. E altri fiori – tanti fiori – cadevano dalle finestre, venivano lanciati dai vani delle porte, dai ballatoi, dove, tra i gerani, apparivano sempre nuovi volti pallidi dall’emozione. Le campane suonavano a distesa. E nulla certo era più grandioso e più commovente di quella sfilata di morti, in strade strette, buie, affollate di umile popolo — nello sfondo delle grandi montagne già velate dalla dolce nebbia di settembre. — Abbiamo riesumato le salme da tutti i piccoli cimiteri della zona — ci ha detto un capo partigiano — e le tumuleremo definitivamente nell’ossario di Forno di Coazze. Alcune, per volere dei familiari, saranno Invece trasportate a Torino. — Le avete riconosciute tutte? — Purtroppo no. Diciotto ancora sono da identificare. Ci passavano dinanzi, infatti — in quello stesso Istante. Diciotto casse brune, fasciate da un tricolore, con una targhetta di metallo su cui spiccava una parola: «ignoto»… Ignoto tu. piccolo partigiano dai capelli biondi ritrovato supino sull’erba, con una gran rosa di sangue nel petto e gli occhi cerulei sbarrati verso il cielo: ignoto tu, vecchio partigiano, dai capelli grigi caduto riverso tra le rovine fumanti di una baita difesa sino all’ultima cartuccia: ignoto anche tu, martire trafitto ad un muro dalla scarica degli aguzzini, mentre con lo sguardo sereno, già trasumanato cercavi. tra monte e monte, il vasto piano ove tua madre, ignara, t’attendeva… Di questi eroi sconosciuti abbiamo poi scorto, a cerimonia ultimata, gli unici, labili ricordi terreni: un lembo di giacca, una cintura, un fazzoletto scarlatto, un pezzo di camicia grigioverde. Vicino a noi v’era una donna in lutto, che adagio adagio prendeva quel miseri resti di stoffa, li accarezzava, li portava alle labbra; e quasi a giustificare il suo atto, di tanto in tanto si volgeva e, mostrandoli ai presenti, mormorava con dolcezza «Vedete? Potrebbero essere del mio povero figlio…». Tra i valorosi caduti traslati da Giaveno a Torino vi sono pure due partigiani che provenivano dalle maestranze, del nostro giornale. Essi sono; Giovanni Maroncelli e Ugo Franco. Le salme hanno sostato nella notte nella scuola Pacchiotti, vegliate dal famigliari e da compagni di lavoro.
La Stampa, 9 settembre 1945, articolo ricopiato in 3 Confini