
Diversamente dal ’68, il “movimento del ’77” fu un fenomeno esclusivamente italiano e rappresentò la conclusione del ciclo di mobilitazioni del 1968-1969. Le cause della nascita di questo movimento vanno ricercate all’interno del contesto socio-politico in cui si sarebbero sviluppate. L’intensa stagione di turbolenze cui si è già fatto riferimento, infatti, contrastava in maniera netta con l’immobilismo del mondo istituzionale. Sul piano propriamente politico, i partiti erano rimasti racchiusi in un intreccio inestricabile di giochi verticistici: nel 1971, ad esempio, in occasione delle elezioni del Presidente della Repubblica, furono necessarie venti votazioni per eleggere Giovanni Leone.
Anche dal punto di vista economico l’Italia avrebbe vissuto una profonda fase di recessione, segnata dalle pesanti ripercussioni della crisi petrolifera che, dal 1973, avrebbe interessato, con intensità diverse, tutta l’Europa. La crisi avrebbe provocato un altissimo tasso di inflazione, il regresso della produzione industriale e un sempre più crescente deficit nel settore pubblico. <88
Nel 1973 Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista, prese l’iniziativa di elaborare una nuova proposta politica, il “compromesso storico”, basata su un preciso disegno politico: in un periodo storico segnato dall’aggravarsi della minaccia terrorista e dalla forza crescente delle violenze extraparlamentari, l’unica possibilità per arginare derive autoritarie consisteva nell’impegno ad uscire da una posizione minoritaria nel sistema e conquistare uno spazio nuovo nel quadro politico e istituzionale. In questa prospettiva, i fatti del Cile <89 rappresentavano un monito da cui prendere spunto per elaborare una proposta politica alternativa rispetto ad un centro-sinistra logoro e, ormai, inefficace. Le lunghe trattative, interne alla sinistra e esterne, rispetto agli altri interlocutori politici, portarono alla formazione, nel 1976, del cosiddetto governo della “non-sfiducia”, guidato da Giulio Andreotti: i socialisti e i comunisti, nonostante non partecipassero direttamente al governo, si impegnarono a non votare contro. Il successivo governo Andreotti avrebbe poi ricalcato la stessa formula <90. Queste esperienze, riunite nella evocativa formula della “solidarietà nazionale”, si sarebbero rivelate molto deboli, non soltanto per la difficoltà a tradursi in scelte concrete, ma per il forte condizionamento che su di esse avrebbe esercitato la radicalizzazione del fenomeno terroristico.
A partire dal 1976, dunque, gli equilibri parlamentari poggiavano su una sorta di grande coalizione che includeva tutti i partiti dell’arco costituzionale dal quale, come noto, sarebbe rimasto escluso solo il MSI. Le ali estreme dello schieramento politico interpretarono questa alleanza come la nascita di un potenziale regime dominato dalla DC e dal PCI e, temendo che questo avrebbe appiattito ogni forma di opposizione, reagirono con violenza.
Una prima manifestazione di questo scollamento si sarebbe avuta nel febbraio 1977: l’Università “La Sapienza” di Roma era in quei giorni occupata in segno di protesta contro una recente proposta di riforma dell’ordinamento; quando Luciano Lama, segretario della CGIL, tentò di tenere un discorso nell’ateneo, fu accolto da una pioggia di insulti e fu costretto a fuggire mentre già erano scoppiati violenti scontri tra gli studenti e il servizio d’ordine del sindacato.
Sebbene questo episodio riguardi prevalentemente gli studenti e i manifestanti di sinistra, lo stesso sentimento di protesta avrebbe coinvolto profondamente anche, e soprattutto, la destra. Quel mondo politico e culturale, infatti, sarebbe stato caratterizzato in quel torno di tempo da un sostanziale ricambio generazionale come conseguenza dell’entrata in politica di una nuova schiera di militanti, quella dei nati dopo il 1955. Questi giovani militanti erano molto lontani dalla memoria storica del fascismo e, in una certa misura, provavano insofferenza verso la ritrita retorica nostalgica.
L’avvento di forze nuove aveva portato con sé anche una sorta di rimozione di quel timore reverenziale nei confronti dei gruppi storici: piuttosto che dalla tradizione dell’estrema destra, questi giovani della nuova generazione si sentivano più coinvolti dalla foga antisistemica dei loro coetanei. Inoltre, la dissoluzione di ON e di AN aveva fatto sì che i nuovi militanti rimanessero senza una guida che impartisse ordini in merito alla definizione dei rapporti gerarchici, all’organizzazione e all’ideologia. In questo modo i giovani neofascisti si sentivano liberi di saggiare nuove forme di militanza.
La sperimentazione di nuove forme di partecipazione e di mobilitazione, però, si sarebbe inevitabilmente accompagnata alla crescita esponenziale della violenza e dello scontro sociale e politico che, non di rado, avrebbe causato scontri con esiti spesso nefasti. In questo senso, un particolare significato, simbolico oltre che storico, avrebbe acquisito la strage Acca Larentia che avrebbe finito per segnare il confine tra un periodo di potenziale trasformazione della nuova destra radicale, che avrebbe richiesto molto più tempo, e il ritorno alla politica della “guerra tra bande”.
Il 7 gennaio 1978, a Roma, furono uccisi due giovani militanti del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del MSI, mentre lasciavano la sezione di Via Acca Larentia. L’agguato fu eseguito da un gruppo di cinque o sei persone armate di pistole automatiche: Franco Bigonzetti, studente di medicina di diciannove anni, rimase ucciso sul colpo; Francesco Ciavatta, diciotto anni, nonostante fosse ferito tentò di fuggire salendo sulla scalinata esterna a lato della sezione, ma fu inseguito dagli aggressori e colpito di nuovo alla schiena. L’ultimo colpo gli fu fatale. Altri tre ragazzi erano stati coinvolti nell’attentato, ma riuscirono a rientrare nella sede del partito abbastanza in fretta da poter chiudere alle loro spalle la porta blindata dell’ingresso, scampando alla sparatoria <91.
Non appena si diffuse la notizia, i camerati dei ragazzi uccisi cominciarono a raggrupparsi in massa davanti al luogo dell’attentato, organizzando una dura manifestazione fronteggiata dai Carabinieri. In seguito, probabilmente a causa del gesto di un giornalista che gettò una sigaretta a terra nel sangue rappreso di uno dei ragazzi uccisi, scoppiarono violenti scontri. Le forze dell’ordine spararono allora alcuni colpi in aria, ma uno di loro, il capitano Edoardo Sivori, sparò ad altezza d’uomo colpendo in piena fronte un altro militante di estrema destra, Stefano Recchioni, di appena diciannove anni <92. I suoi camerati tentarono di raccogliere delle firme per denunciare l’ufficiale, ma i dirigenti del MSI, temendo di compromettere i buoni rapporti con l’Arma, rifiutarono di testimoniare. I giovani militanti interpretarono quella posizione come un segno dell’abbandono e del tradimento da parte del partito e reagirono con un’incontrollabile rabbia, scatenando tre giorni di cieche violenze che si estesero in tutti i quartieri “neri” di Roma <93.
Per molti giovani della destra estrema questo fu il punto di non ritorno. La lotta armata divenne una reale alternativa, quasi una naturale evoluzione. I tradizionali modelli “battaglieri” della destra, si fusero con il clima ad elevato tasso di violenza del post ’77 e da qui nacque un sentimento di impulsività e di rifiuto della razionalità che favoriva le percezioni istintuali e che avrebbe caratterizzato gli anni successivi. Per moltissimi militanti, la scelta della lotta armata a tutto campo fu l’espressione di una pulsione esistenziale elevata a forma di lotta contro il sistema.
Francesca Mambro, protagonista degli anni successivi dello spontaneismo armato, così parlava di Acca Larentia e delle sue conseguenze: «Ad Acca Larentia, per la prima volta e per tre giorni, i fascisti spararono contro la polizia. E questo segnò ovviamente un punto di non ritorno […] rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché fino ad allora erano stati considerati il braccio armato del potere. E poi diventava anche un momento di prestigio.» <94
[NOTE]
88 F. Ferraresi, Minacce alla democrazia, Feltrinelli, Milano, 1995.
89 L’11 settembre 1973 fu destituito, tramite colpo di stato, il governo di Salvador Allende. Augusto Pinochet, comandante dell’esercito e capo congiurati golpisti, instaurò una dittatura che durò fino all’11 marzo 1990.
90 P. Ginsborg, Storia dell’Italia contemporanea, società e politica, 1943-1988, Einaudi, Torino, 1990.
91 N. Rao, Il piombo e la celtica, Sperling & Kupfer, Milano, 2009.
92 Ibidem.
93 F. Ferraresi, Minacce alla democrazia, Feltrinelli, Milano, 1995.
94 G. Bianconi, A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti, Baldini & Castoldi, 1992.
Marzia Minnucci, A destra del MSI. Evoluzione armata della destra radicale, Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2014-2015