Il caso Eni-Petronim, e in misura maggiore e in maniera più chiara l’affare Italcasse-Caltagirone dimostrano che la legge sul finanziamento dei partiti del 1974 aveva completamente fallito i suoi obiettivi principali. Non a caso, probabilmente, i risultati del referendum del 1978 avevano dimostrato una notevole distanza tra elettori e partiti proprio su questo punto. Il problema essenziale era che ciò che la legge si riprometteva di evitare, cioè il finanziamento occulto da parte di centri di potere economico-industriali, e con contropartite altrettanto occulte a beneficio degli stessi centri, non veniva in realtà minimamente scalfito. La ragione principale per la quale gli esponenti dei partiti di governo cercavano contributi finanziari non era quella di finanziare le spese elettorali o quelle necessarie per mantenere la struttura del partito, ma era quella di accrescere la propria influenza nel partito stesso finanziando la propria corrente. In un sistema politico caratterizzato da mancanza di alternanza, caratteristica confermata per il futuro prevedibile dopo la definizione degli equilibri nel Psi e nella Dc tra gennaio e febbraio, la concorrenza politica avveniva non tra partiti ma all’interno dei partiti ed il fattore determinante per permettere ad un leader di emergere o di prevalere non era tanto la sua capacità di far crescere il partito ma la sua possibilità, a qualsiasi titolo, di esercitare un certo controllo interno: a questo scopo il controllo di fonti di finanziamento era fondamentale <139. In queste condizioni anche un significativo aumento dei fondi pubblici destinato ai partiti non avrebbe avuto effetti benefici. A ciò si aggiunge il problema specifico della magistratura ed alla capacità di attrazione che alcuni centri di potere politico continuano ad esercitare su settori decisivi di questa, soprattutto negli uffici giudiziari romani. Eppure il documento elaborato dalla gran maggioranza dei sostituti procuratori della Repubblica costituisce un segnale del fatto che diviene sempre più difficile sottrarre alla giurisdizione penale i centri di potere. E non si tratta in questo caso solo dei giudici di sinistra, dei soliti di Magistratura Democratica, dal momento che hanno aderito al documento, che nella sostanza costituisce una denuncia della conduzione della procura da parte di de Matteo, 34 magistrati su 42 in un distretto giudiziario in cui Magistratura Indipendente, nel 1981, otterrà il 42% dei consensi tra i magistrati mentre Md solo il 17% <140. Permane certamente l’evidente appoggio offerto dai vertici della magistratura romana a politici influenti, che non si esaurirà certamente quando de Matteo dovrà lasciare l’ufficio di capo della procura; ma quel tipo di manovra diviene sempre più difficile ed esposto.
Terrorismo, politica e magistratura nel 1980
All’inizio del 1980 inizia ad operare la commissione d’inchiesta sul caso Moro, fortemente desiderata soprattutto dai socialisti, ma per la quale era stata presentata una proposta anche dal Pci e dalla Dc, per l’iniziativa del deputato padovano Carlo Fracanzani (in realtà non troppo apprezzata dai dirigenti democristiani). La costituzione della commissione è fonte di qualche imbarazzo per il partito socialista che manda a rappresentarlo Scamarcio, Della Briotta, Martelli e Giacomo Mancini. Quest’ultimo, infatti, viene subito accusato dai commissari missini per i suoi rapporti con Piperno ed emerge che, dopo l’estradizione del dirigente di Autonomia dalla Francia, l’ex segretario socialista si
era recato a trovarlo in carcere spacciandosi per un avvocato. In seguito alle polemiche e per il rifiuto di Mancini di dimettersi, la commissione decide di sciogliersi per ricomporsi poco dopo <141 senza l’ingombrante presenza dell’ex segretario del Psi.
A marzo si dimette il presidente del consiglio Cossiga per formare un nuovo governo in cui, questa volta, ritornano i socialisti con una nutrita rappresentanza di ministri. Ma il governo ha appena il tempo di insediarsi che scoppia un nuovo scandalo, questa volta legato all’eversione di sinistra. A partire da febbraio 1980 il brigatista Patrizio Peci comincia a collaborare con i magistrati di Torino e, nel mese di aprile, rivela di aver saputo da un membro di Prima linea che Marco Donat Cattin, figlio del vicesegretario della Dc, appartiene alla stessa organizzazione eversiva; alla fine del mese la polizia identifica e arresta il “piellino”, si tratta di Roberto Sandalo. Alcuni giorni dopo anche Sandalo comincia a collaborare e parla ai magistrati di Marco Donat Cattin, del suo ruolo in Prima linea, e della sua partecipazione all’assassinio del giudice Alessandrini a Milano nel 1979, ma rivela anche di essere stato avvicinato dal padre di questi che desiderava entrare in contatto col figlio, ormai in clandestinità, e che gli aveva spiegato di aver incontrato il Presidente del consiglio per avere informazioni. I magistrati di Torino sentono allora il sen. Donat Cattin ed altri testimoni e, come prevede la procedura, a metà maggio trasmettono gli atti al presidente della Camera perché sia investita la commissione inquirente per la posizione di Cossiga in merito all’ipotesi di reato di
rivelazione di segreti d’ufficio e favoreggiamento.
La commissione inquirente acquisisce, in maniera piuttosto frettolosa, le deposizioni di Cossiga, Donat Cattin e Sandalo; dopodiché, a maggioranza, vota per il proscioglimento di Cossiga: in tal senso votano i commissari democristiani e socialisti, contro il Pci. I socialisti, fin dall’inizio dell’affaire, dimostrano di non condividere le accuse a Cossiga; del resto sono rientrati nel governo da un mese dopo quasi sei anni e l’emergere di accuse gravi al capo del governo difficilmente potrebbe giovar loro in prossimità delle elezioni amministrative previste per giugno. Il relatore del Psi, Jannelli, dice che Sandalo non è credibile mentre Mancini e Balzamo affermano che tutta la vicenda sembra essere stata strumentalizzata, anche se non dicono da chi; più enigmatico Claudio Signorile che, conversando con AdnKronos, spiega che il comportamento dei commissari socialisti «risponderà, nella loro autonomia, solo alla propria coscienza» <142. Dopo il voto in commissione l’organo del Psi si affretta a negare che vi siano disaccordi nel partito circa la questione: «si è cercato di inventare una contrapposizione tra Craxi e il capogruppo socialista alla Camera Labriola circa l’atteggiamento dei parlamentari del Psi quando ci sarà in aula la discussione sul caso Donat Cattin-Cossiga…», ma si tratta di una «…montatura» <143.
Di ben diverso avviso sono i comunisti; parlando a Napoli in occasione di una tappa della campagna elettorale, Berlinguer afferma che «la commissione inquirente non ha sciolto i dubbi emersi […] Anche perché la maggioranza della commissione ha respinto le proposte dei commissari comunisti di approfondire l’indagine procedendo ai necessari confronti, all’audizione di altri testimoni, all’acquisizione di nuovi materiali». <144
Intanto nella Democrazia Cristiana c’è chi attacca i magistrati di Torino, dai quali è partito il fascicolo riguardante Cossiga. Donat Cattin, in particolare, nel frattempo indotto alle dimissioni dalla carica di vicesegretario del partito, afferma che si tratta di «giudici comunisti». Eppure poco dopo il proscioglimento da parte dell’inquirente, il capo del governo, durante una partecipazione alla trasmissione televisiva Tribuna Politica, risponde ad un giornalista che gli chiede un’opinione circa le affermazioni di Donat Cattin: «ha dichiarato che tre magistrati di Torino sono comunisti. Ha dichiarato che in tema di finanziamento dei partiti non bisogna fare dell’ipocrita purismo. Quale senso dello stato dimostra tutto ciò?». La risposta di Cossiga è che “…per quanto riguarda il finanziamento dei partiti rispondo subito che non si può violare la legge. Se è necessario questa legge può essere cambiata, modificata, ma in nessun modo deve succedere che qualcuno si convinca che il ruolo e l’importanza che un partito ha lo giustifichi in qualche modo della non osservanza […] Per quanto riguarda i tre magistrati di Torino, io credo che questi, sulla base delle leggi vigenti, hanno agito come dovevano”. <145
Il Pci comunque, dopo aver discusso, in maniera animata e «non senza tormento» <146 la questione, decide di promuovere la raccolta delle firme per investire il Parlamento della decisione sul caso Cossiga <147. Entro la fine del mese le firme necessarie vengono effettivamente raccolte ma tra queste non vi sono quelle dei parlamentari socialisti: in una lettera al capogruppo Psi alla Camera, Labriola, Mancini e Landolfi motivano il loro no alla firma con a) «una posizione di principio negativa nei confronti dell’istituto della commissione inquirente»; b) «non possono essere affidati all’inquirente i grandi problemi della vita nazionale <148». La prima motivazione appare in sé certamente ragionevole: in passato la commissione inquirente ha dato prova di rispondere a sollecitazioni di tipo politico più che di ricerca degli elementi di responsabilità dei ministri inquisiti; d’altra parte rimane da spiegare la situazione per la quale tutti i maggiori partiti affermano di voler eliminare l’inquirente (o mantenerla per pochissime ipotesi di reato) ma poi, nonostante la presenza di diversi disegni di legge in questo senso, non si giunge mai ad un voto: sarà necessario un referendum popolare per la sua abrogazione, nel 1987 <149. Ma è la seconda ragione indicata da Mancini e Landolfi a sollevare i dubbi maggiori; essa, nella sua essenza, appare analoga a quella di Piccoli di sei anni prima, secondo cui non si può affidare ai pretori il governo del Paese e più in generale a quella, ricorrente, per cui i magistrati non dovrebbero incidere sulle dinamiche politiche. L’accettazione di tali proposizioni implica infatti, quale conseguenza sul piano logico, un’immunità totale e perpetua di tutti i soggetti con rilevanza politica, in assenza della quale continuerebbero ad esistere conseguenze ed effetti di tipo politico ogni volta che ipotesi di reato emergano circa soggetti di questo tipo e dei giudici, ordinari o meno (come nel caso della commissione inquirente), organizzino un’istruttoria per verificare se tali ipotesi di reato abbiano un fondamento.
L’Avanti però entra anche nel merito delle accuse a Cossiga e spiega che “…la stragrande maggioranza dei giuristi interpellati questa settimana dall’Espresso ha spiegato, con argomenti convincenti sul piano tecnico e morale, che la commissione inquirente ha fatto bene ad archiviare il caso Cossiga […] eppure il grande dibattito pubblico avverrà, e per il fatto stesso di svolgersi avrà le sue conseguenze […] il fronte dei sospetti si rafforzerà tra gli osservatori distratti […] e in tal modo sarà indirettamente favorito il gioco dei terroristi stessi…”. <150
I comunisti si dimostrano molto critici: «Sorprendente è soprattutto la tesi principale di Bettino Craxi, il quale si è dichiarato convinto non solo dell’infondatezza dei dubbi che restano sul comportamento del Presidente del Consiglio, ma anche dal fatto che il processo di accertamento della verità che impegna il Parlamento […] sia una pura perdita di tempo» <151. I comunisti infatti non chiedono il rinvio a giudizio, a differenza dei missini, ma solo un supplemento di indagine da parte della commissione. Ma il Parlamento è di diverso avviso ed il proscioglimento di Cossiga diviene definitivo in seguito al voto. D’altra parte, l’immagine del presidente del consiglio subisce dei danni, anche in virtù della sua deposizione presso la commissione inquirente alla fine di maggio, pubblicata dal settimanale l’Espresso a luglio <152 e che appare, a tratti, impacciata e reticente; anche Leo Valiani, sul Corriere della Sera invita il presidente del consiglio a farsi «un severo esame di coscienza… giacchè le furbizie non servivano più» <153.
[NOTE]
139 Secondo Luciano Cafagna, «fu praticamente questo il mezzo attraverso il quale [Craxi], offrendo dal centro sia spartizione di risorse finanziarie e sia legittimazione politica a procurarsele in loco, riuscì anche ad averlo completamente in mano in pochissimo tempo». L. Cafagna, Una strana disfatta, citato in P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, Einaudi, Torino, 2007. Pag. 350.
140 Elaborazioni sui dati relativi alle elezioni del 1981 per il Csm fornite da S. Pappalardo, Gli iconoclasti. Cit. Pag. 382.
141 Seduta del 25 gennaio 1980, Senato della Repubblica, VIII Legislatura, Atti parlamentari, Doc. XXIII Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, vol. III: verbali delle sedute dal 10 gennaio al 20 giugno 1980, UA: Seduta del 25 gennaio 1980, O.d.g.: 2. Problemi posti dai commissari del gruppo Msi-Dn nei confronti dell’onorevole Giacomo Mancini, pp. 32-33.
142 “Inquietudini e perplessità sulla vicenda Cossiga”, Avanti del 1 giugno 1980
143 “Nessun contrasto nel Psi sul caso Cossiga”, Avanti del 6 giugno 1980
144 “Non consentiremo insabbiamenti, risicata maggioranza salva Cossiga”, Unità del 1 giugno 1980
145 La dichiarazione viene riportata, per esempio, in “Il presidente Cossiga alla TV”, Il Popolo del 6 giugno 80
146 G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer. Cit. Pag. 397
147 Anche Francesco Barbagallo segnala che la decisione di procedere alla raccolta delle firme viene sostenuta da Berlinguer ma che non tutti i dirigenti sono d’accordo. F. Barbagallo, Berlinguer, Carocci, Roma, 2006. Pag. 361.
148 “Il Psi ribadisce il suo no alla firma”, Popolo del 15 giugno 1980
149 Vedere oltre, par. 5.2
150 “Non c’è spazio per strumentalizzazioni”, Avanti del 23 luglio 1980. In realtà molti dei giuristi interpellati in “Colpevole, innocente, colpevole… pasticcione”, L’Espresso, N. 30 del 1980, si esprimono in maniera diversa; soprattutto, come spiega Alberto Dall’Ora, non si tratta di assolvere (come viceversa afferma Giuliano Amato) o condannare: il ruolo del Parlamento, in questo caso è di stabilire se l’accusa sia o meno manifestamente infondata. Un vecchio equivoco ricorrente in questi casi.
151 “Nuove indagini più che mai necessarie”, Unità del 24 luglio 1980
152 “Presidente, dica tutto”, L’Espresso n. 29 del 1980. Il verbale della deposizione è d’interesse anche per il ruolo curioso dei commissari democristiani Pennacchini e, soprattutto, Vitalone, i quali si dimostrano con frequenza spazientiti dalle domande che gli altri commissari rivolgono a Cossiga e li ostacolano in vari modi.
153 “Un taglio netto”, Corriere della Sera del 31 maggio 1980
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, 2013