I martiri di Piazzale Loreto

Fonte: Wikipedia

10 agosto 1944, ore 5,45. Un autocarro tedesco frena di botto e scarica giù 15 uomini in tuta da lavoro. Fa appena giorno a Milano e piazzale Loreto è quasi un deserto. Su un lato della grande spianata circondata dai palazzi, un pugno di militi della Brigata Nera “Aldo Resega” sorveglia le vie d’accesso. Altri uomini, italiani, fascisti della GNR e della Legione “Ettore Muti” attendono di compiere lo sporco lavoro che gli è stato affidato. I prigionieri stanno fermi, in fila, davanti alle armi. La voce del capitano Pasquale Cardella, che comanda il plotone della “Muti”, urla parole di morte. Poi, un ordine secco mette in moto i quindici uomini, velocemente. Con uno scatto improvviso, prima uno e poi un altro cercano scampo. Un portone spalancato, un angolo da svoltare. Due raffiche e pochi metri di vita. Il resto della fila si sbanda, forma una curva, c’è una staccionata. Fermi così! Fermi lì! Colpi, colpi, e anche quei corpi muoiono a terra.
Lì, tutti insieme… Trascinate nel mucchio quegli altri due. Grida di ebbrezza, risate rabbiose. Un cartello: QUESTI SONO I GAP SQUADRE ARMATE PARTIGIANE ASSASSINI. Lì. Fino a sera. State di guardia. Nessuno li muova. Nessuno li tocchi. Niente fiori, nemmeno candele. Tutti li vedano, tutti devono guardare. Che imparino tutti.
La strage è portata a compimento dopo nemmeno quarantotto ore dalle esplosioni che, la mattina dell’8 agosto, nel tratto di viale Abruzzi che conduce a piazzale Loreto, hanno fatto saltare in aria un camion tedesco, provocando il lieve ferimento dell’autista e la morte di diversi passanti. Tutti italiani.
Malgrado la pattuglia della Wehrmacht non avesse riportato perdite, che avrebbero comportato l’applicazione del bando Kesselring “10 italiani per un tedesco”, l’ordine della rappresaglia arriva. Perché Theodor Emil Saevecke, capitano delle SS, comandante per la Lombardia della SIPO-SD (Polizia e Servizio di sicurezza), va oltre quella legge già così feroce?
La Milano dell’estate del ’44 vive da quasi anno sotto il governo fantoccio della RSI e l’occupazione tedesca. In quei dieci mesi non è rimasta a guardare. Nelle fabbriche gli operai sono arrivati a scioperare, le donne hanno liberato dai treni piombati alcuni rastrellati destinati ai campi di concentramento, è stato costituito il CLN. In città, i GAP sono attivissimi. Ma le modalità di quell’attentato sono inconsuete.
I Gruppi di Azione Patriottica hanno obiettivi precisi, mirati: il gerarca, il collaborazionista, il delatore. Quando vogliono colpire colonne tedesche, cercano di farlo salvaguardando il più possibile la vita dei civili. E, soprattutto, non possiedono i congegni a orologeria utilizzati per i due scoppi a distanza di tempo in viale Abruzzi […] Umberto Fogagnolo, ingegnere alla Marelli, alla caduta del fascismo intuisce che bisogna muoversi subito, anche per preparare la difesa delle fabbriche. Dopo l’armistizio, in contatto con il “Colonnello” Alonzi, stretto collaboratore di Ferruccio Parri, entra nel CLN di Sesto San Giovanni per il Partito d’Azione. L’ingegner “Bianchi” collabora ai piani di liberazione dei prigionieri politici ed è il cervello di moltissime azioni di sabotaggio. Per la scelta di obiettivi strategici è consultato dalle formazioni partigiane di montagna, il suo parere è decisivo. Sergio Fogagnolo, secondogenito di Umberto, spiega: «Venne chiamato a valutare l’ipotesi di far saltare la diga di una centrale idroelettrica. Quella corrente riforniva gran parte della città di Milano e un sabotaggio avrebbe messo in grave difficoltà i tedeschi. Ma mio padre bocciò risolutamente quell’operazione perché pensava anche al dopo. Quanto sarebbe costato, in tempo e danaro, ricostruire un impianto del genere?». È fermato una prima volta a Milano quando, nell’ottobre del ‘43, interviene per difendere un operaio aggredito dai fascisti della “Muti”. Alla Marelli aiuta le persone con cui lavora: guarda alle capacità e alla serietà, ha una concezione moderna e democratica della fabbrica in un tempo in cui pesa fortissima la distinzione in classi. «Lo dimostrano tutte le testimonianze che ho raccolto in questi anni – dice Sergio Fogagnolo –. Aveva un fattorino quindicenne, Bruno, lo spronò a diplomarsi e quando fu richiamato dalla RSI lo aiutò a fuggire in Svizzera». Con Giulio Casiraghi, operaio comunista che ha conosciuto anni di confino, organizza gli scioperi del marzo 1944. Tra i due c’è stima, rispetto e grande amicizia anche se l’ingegnere e l’operaio, formalmente, si davano del lei. Moriranno insieme, a piazzale Loreto. L’ingegnere viene arrestato a luglio. Trentatré anni, sposato, tre figli piccolissimi, è incarcerato nel famigerato 5° raggio a San Vittore e torturato più volte […] (da Patria Indipendente n. 10 del 10 dicembre 2006)
Daniele De Paolis, 10 agosto 1944: i 15 martiri di piazzale Loreto, Patria Indipendente, 1 agosto 2018

Il colonnello Giovanni Pollini, comandante provinciale della Gnr di Milano, aveva ricevuto la sera del 9 agosto 1944 l’ordine del comando tedesco di mettere a disposizione per il giorno successivo un plotone di militi della Rsi da utilizzare per la fucilazione di quindici ostaggi “in base al recente bando del maresciallo Kesselring”.
Il bando prevedeva l’esecuzione di dieci ostaggi per ogni vittima tedesca. Ma nell’attentato all’autocarro della Wermacht alle 8.15 dell’8 agosto 1944 in viale Abruzzi, spunto per la carneficina di piazzale Loreto, non era deceduto nessun tedesco: i sei morti ed i dieci feriti erano stati tutti italiani. Che senso allora aveva richiamare l’ordine di Kesselring e per quale ragione il capitano Theodor Saevecke si era rivolto al colonnello Walter Rauff, responsabile della Sipo-SD dell’Italia nord-occidentale perché strappasse al generale Willy Tensfeld, comandante generale delle SS, l’autorizzazione per una feroce repressione?
Apparentemente nessuno. Ma fra i tedeschi aleggiava in quei giorni il terrore di una prossima insurrezione popolare ed occorreva replicare con un’ulteriore escalation di segno terroristico dopo le precedenti fucilazioni di Greco, Robecco e del campo Forlanini. Ai fascisti a quel punto non era restato che ubbidire, interpretando il ruolo di freddi esecutori, vincolati com’erano, a loro volta, da una circolare del comandante generale della Gnr Renato Ricci che imponeva, se fosse stata richiesta, la collaborazione coi comandi germanici di piazza “per gli impieghi di polizia militare”.
A nulla era servito il preoccupato attivismo del capo della Provincia Piero Parini, il quale aveva tentato invano di mettersi in contatto con i comandanti tedeschi nel tentativo di impedire l’eccidio e, nello stesso tempo, di salvare gli ultimi brandelli di credibilità della vacillante sovranità repubblichina.
Tutti si negarono, Saevecke compreso. Era fallito anche il tentativo, sempre di Parini, di inviare in nottata il comandante Pollini dal colonnello Kolberck, responsabile militare della piazza di Milano, “per fargli presente che le vittime di viale Abruzzi erano tutte italiane e che se rappresaglia si fosse fatta anche le autorità italiane dovevano esprimere il loro avviso”. Alle 5 del mattino del 10 agosto Pollini aveva informato il capo della Provincia che Kolberck non si era fatto trovare. Più o meno negli stessi momenti i quindici morituri stavano per lasciare San Vittore. Nel “Promemoria per il Duce” Parini aveva riferito che gli ostaggi erano stati svegliati alle 4.30 ed in cortile avevano consegnato a ciascuno una tuta per dar loro l’illusione della partenza per il lavoro in Germania. Sul registro del carcere era apparso annotato: “Trasferiti per Bergamo”. Dal diario di Ottavio Rapetti, un giovane di 21 anni detenuto a San Vittore, si era saputo che Vitale Vertemati era apparso conscio della prossima fine: “Entra la guardia con un milite e chiama la matricola 2742 – scrive Rapetti. È la matricola Vitale. Si alza mortalmente pallido, ci guardiamo negli occhi. Ha capito. Vedo che ha molto coraggio. Ci abbracciamo e dice di salutare sua madre”. I quindici prigionieri (il criterio della loro scelta, a parte la comune matrice politica, resterà ignoto, anche se in un primo momento era stato stilato e comunicato con manifesti murali e con i giornali un elenco di ventisei persone da eliminare, fra cui anche una donna di 50 anni) arrivarono in piazzale Loreto alle 5.45 [del 10 agosto 1944] dove ad attenderli c’erano un ufficiale tedesco con quattro soldati. Il colonnello Pollini assistette alla disordinata esecuzione dei quindici martiri disposti a semicerchio, affidata ad un plotone misto della Gnr e della Legione autonoma “Ettore Muti”. Ci fu chi come Eraldo Soncini, un milanese di 43 anni, tentò una disperata fuga ma venne raggiunto dai colpi dei fascisti in una casa vicino alla chiesa di via Palestrina. Per ordine tedesco i corpi rimasero sul terreno, esposti fino al pomeriggio inoltrato. Scrisse il capo della Provincia Parini per il duce: “Cominciarono a transitare per piazzale Loreto gli operai che si recavano al lavoro e tutti si fermavano ad osservare il mucchio dei cadaveri che era raccapricciante oltre ogni dire perché i cadaveri erano in tutte le posizioni, cosparsi di terribili ferite e di sangue. Avvenivano scene di spavento da parte di donne svenute e in tutti era evidente lo sdegno e l’orrore”. Uno spettacolo tremendo che avrebbe dovuto servir da monito, piegare la Milano antifascista. da ANED

Nello stesso periodo, per cause mai chiarite e sulle quali gli stessi comandi delle Brigate Garibaldi hanno da subito esposto i propri dubbi, oltre che la propria estraneità <331, si collocò l’attentato ad un camion tedesco, parcheggiato a viale Abruzzi ed esploso la mattina dell’8 agosto.
La dinamica dell’attentato è particolare, innanzitutto per l’obiettivo scelto.
Il camion era infatti teoricamente adibito al trasporto del cibo verso il mercato rionale del quartiere <332. L’esplosione uccise sei passanti, tutti italiani e nessun militare tedesco. Borgomaneri, in particolar modo, fa riferimento alla volontà di “accattivarsi le simpatie della popolazione” di Milano da parte delle autorità germaniche, sia con la pronta reazione, sia con la pubblicazione dei nomi delle vittime della futura rappresaglia sul Corsera del 10 agosto <333. Le fucilazioni di Piazzale Loreto avvennero all’alba dello stesso giorno e all’uccisione di 15 antifascisti, selezionati tra gli arrestati di San Vittore, su ordine dell’SSPoFü Tensfeld, accolto dai comandi di Rauff e Sävecke <334; mentre sembra che, con intenti particolari, la decisione della rappresaglia fosse stata criticata dal personale diplomatico tedesco a Milano, anche se vanamente <335. La Muti fornì i militi del plotone d’esecuzione, mentre la “Resega” espletò servizio di sorveglianza alla fucilazione ed alla successiva esposizione dei corpi; l’ostentazione dei cadaveri durò fino al pomeriggio inoltrato, causando le critiche della prefettura e della stessa GNR di Pollini, non certo noto per atti di particolare umanità <336. Tensfeld, che aveva dato l’ordine per la rappresaglia, era in quel momento partito per la “zona d’operazioni”, nel Torinese, e non concesse l’inumazione dei 15 martiri fino all’ora prefissata, nella serata successiva.
Scrive a tal proposito Claudio Pavone “Nella guerra condotta in Italia dai nazifascisti (…), tutti i prigionieri furono considerati ostaggi sui quali esercitare la rappresaglia a meno che non si preferisse utilizzarli in scambi o per cercare di salvare la vita nel giorno finale. Ma c’è di più: non solo i familiari dei resistenti, ma tutte le popolazioni civili diventarono potenzialmente ostaggi in mano agli occupanti. La categoria di ostaggio subì in tal modo una dilatazione che si prestò ad aberranti capovolgimenti nell’attribuzione delle responsabilità”. <337
A differenza della rappresaglia per l’attentato di via Rasella, dove la “contabilità” delle vittime fu in qualche modo agganciata al numero degli Altoatesini uccisi, la dinamica dell’esplosione di viale Abruzzi non portò ad proporzione precisa; sull’evento del resto pesano e si addensano numerosi dubbi ed irregolarità <338.
La strage di Piazzale Loreto fu sfruttata da Parini per presentare le proprie dimissioni da capo della provincia. Secondo Ganapini, tuttavia, la decisione fece riferimento non solo alla fucilazione, quanto piuttosto all’impossibilità di perseguire una politica ambigua e spregiudicata tra i poli opposti della condotta amministrativa del prefetto. Ganapini aveva infatti inaugurato quella politica improntata alla difesa del civismo ed all’erogazione di forme differenti di beneficienza, supportate dai funzionari della prefettura meneghina. La strategia del capo della provincia avrebbe portato a risanare le casse milanesi, attraverso il prestito “per la repubblica ambrosiana”, così da poter disporre, delle delle già citate mense per i più indigenti <339. Una politica moderata era stata anche tentata verso le maestranze operaie, pur contrastata dagli squadristi più più intransigenti e dalla federazione del PCI lombarda, come visto. Al tempo stesso fu Parini a fornire i mezzi per rinforzare e “specializzare” la Muti nei suoi suoi servizi di polizia ed il capo della provincia non si ritrasse mai dalla partecipazione alle parate ed alle celebrazioni che vedevano la partecipazione della LAM. Secondo Ganapini invece la nomina di Costa andò ad irritare il prefetto, a causa dell’attivit{ politica del federale, impegnato a raffrontarsi e a limitare, anche violentemente, le proteste delle maestranze operaie <340. Nella fase estiva, la spregiudicata condotta di Parini non era più attuabile, vista la limitazione dei margini di manovra ricercati dal prefetto, stretto tra l’intransigenza degli organi di occupazione, – basti pensare alle polemiche riguardanti gli sregolati rastrellamenti di uomini da inviare o nelle industrie del Reich o nei servizi di lavoro o contraerea tedeschi, come avvenne nel caso dell’azione delle SS all’Arena di Milano, durante una partita di calcio il 2 luglio 1944 <341 – la crescita numerica di attentati e sabotaggi antifascisti e la nascita di numerosi corpi “speciali” di sicurezza <342. A sostituire Parini venne nominato Mario Bassi, “sedicente squadrista” <343, ex-responsabile della Sepral di Trieste e successivamente nominato capo della provincia di Varese. Qui Bassi era stato raggiunto da accuse circa estese malversazioni nella gestione dei beni razionati <344 e una particolare attenzione al “taglieggiamento” delle personalità ebraiche, soprattutto tra gli ex-proprietari di fabbriche della zona <345.
Inoltre Bassi veniva ritenuto eccessivamente giovane ed inesperto dalla cittadinanza, così come confermato dalle relazioni del mese di settembre della stessa prefettura milanese <346. In tale contesto si inserisce la nascita della “Resega”, comandata dal federale Costa e la cui creazione portò ad una tensione tra la sede di San Sepolcro e la prefettura repubblicana <347. Costa in particolar modo riuscì rapidamente a mettere in piedi quella che, almeno dal punto di vista documentario, appare essere la Brigata Nera più numerosa tra quelle della RSI.
[NOTE]
331 Ganapini, Una città, la guerra. Lotte di classe, ideologie e forze politiche a Milano 1939-1951, F. Angeli, Milano, 1988, op. cit. e Borgomaneri, Due inverni, op. cit. pp. 194-197.
332 Anche su questo tratto in realtà pesa qualche dubbio. In particolare le autorità tedesche evidenziarono come il mezzo fosse adibito al trasporto di “avanzi alimentari” per gli indigenti della città, una funzione che i comandi tedeschi non avevano mai espletato, cfr. id. Hitler a Milano, op. cit. p. 124.
333 Id. Due inverni, op. cit. p. 193.
334 Id. Hitler a Milano, op. cit. pp. 125-129.
335 Id. Due inverni, op. cit. p. 194.
336 Ivi, pp. 194-196.
337 Pavone, Una guerra civile, op. cit. p. 488, il riferimento finale è all’addossamento delle responsabilità delle rappresaglie sugli attentatori antifascisti.
338 I 15 antifascisti uccisi furono selezionati sia dalle SS di Rauff, sia tra gli arrestati dell’UPI di Pollini e Bossi.
339 Ganapini, Una città, op. cit. pp. 55, 56.
340 Ivi, pp. 153-155.
341 Lettera di Parini al ministro dell’interno del 3 luglio 1944, in AS MI, G. P. II versamento, b. 367, f. Arena di Milano, sui circa 300 deportati un numero non precisato dai documenti fu effettivamente deportato in Germania, cfr. Klinkhammer, L’occupazione, op. cit. p. 223 e seg.
342 Fuscà, addetto stampa della provincia, nella relazione mensile di agosto, raccoglie varie opinioni sulle dimissioni del Parini, apparse sui quotidiani ed i periodici milanese. Esse appaiono come riferibili variamente a “scontri prolungati” con le autorit{ germaniche, al “massacro degli ostaggi”, ma anche a “dissidi con il vice podestà di Milano”, nel frattempo licenziato, riguardanti alcune malversazioni di Parini a riguardo delle mense pubbliche. Inoltre viene data notizia di un “dossier” segreto su Parini, prodotto dalle SS di Milano, in relazione della prima quindicina di agosto, in NARA, Rg. 59, e. A1-1079, b. 11.
343 Mario Bassi, varesotto, nato nel 1901, venne additato come “falso” squadrista dai comandi della GNR di Varese, in quanto il titolo sarebbe stato dato senza un’effettiva esperienza nelle squadre, ma con motivazioni puramente politiche, cfr. Denuncia della GNR di Varese del 23 novembre 1944, doc. cit. Gli stessi organi statunitensi compresero come il titolo di squadrista non fosse legato effettivamente all’esperienza diretta delle lotte politiche violente del’19-’25, cfr. Informative sul PNF e la MVSN dell’OSS “Fascist background”, sd. ma dell’autunno del’44, in NARA, Rg. 226, e.174, b. 4. f. 41.
344 Denuncia della GNR di Varese del 23 novembre 1944, doc. cit.
345 La questura di Varese, il 1 agosto 1945, invia una denuncia pesantissima contro Bassi, reo di aver ordniato l’avvio verso San Vittore di 4 ebrei della provincia e da qui a Buchenwald, passando per Fossoli, tra cui uno solo sopravvisse, l’industriale “della carta” Elio Nissim, in ibidem, cfr. G. Cardosi,M. Cardosi,G. Cardosi, La giustizia negata. Clara Pirani, nostra madre, vittima delle leggi razziali, Arterigere-Chiarotto, Milano, 2005.
346 Relazione della prima quindicina di settembre, a firma Fuscà del 15 settembre 1944, in NARA, Rg. 59, e. A1 1079, box 11.
347 Il capo della provincia, secondo Vincenzo Costa, “si opponeva all’attività della neocostituita Brigata nera Aldo Resega e manovrava contro il federale stesso”. Citato in Ganapini, Una città, op. cit. p. 154.
Jacopo Calussi, Fascismo Repubblicano e Violenza. Le federazioni provinciali del PFR e la strategia di repressione dell’antifascismo (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2018

Vittorio Gasparini, ucciso a Milano nella strage di Piazzale Loreto il 10 agosto 1944 – Fonte: Comune di Bolzano: memoria del Lager di Bolzano

Mia madre era una donna di piccola statura, minuta, molto graziosa, dotata di un’intelligenza non comune supportata, a dispetto della minuscola corporatura, da un carattere forte e da una volontà di ferro. Molto efficiente e concreta, si poteva definire una donna d’azione.
Su di lei si poteva contare sempre e comunque. E la sua coraggiosa efficienza si dimostrò infatti in occasione dell’arresto di mio padre.
In quei giorni sventurati del luglio 1944 fu abbandonato da tutti. Il Comando Generale della Lombardia non tutelò minimamente il suo alto ufficiale arrestato dalla Gestapo e così i cosiddetti “amici e colleghi”. La sua persona era “bruciata” e qualsiasi rapporto con lui, passato e presente, rappresentava solo un mare di pericolosi problemi.
Nessuno ricordò l’amicizia, la stima e i trascorsi che avrebbero dovuto legarli. Solo un maresciallo dei Carabinieri, di cui non so il nome, fedele a mio padre,
riuscì ad avvertirlo del suo imminente arresto dandogli così la possibilità e il tempo di distruggere tutti i documenti compromettenti, così che fu arrestato per l’avvenuta delazione, ma solo sulla base di gravi sospetti. Non fu mai trovata, anche successivamente, nessuna prova concreta relativa alla sua appartenenza all’attività clandestina.
“Quando la barca affonda i topi scappano” dice un proverbio.
Tutti se ne lavarono le mani e mia madre fu lasciata sola senza neppure una minima informazione al riguardo.
Ma, se pur disperata, da donna d’azione quale era, non si perse d’animo. Con un’amica che parlava tedesco si recò coraggiosamente al Comando della Gestapo e riuscì a sapere che suo marito era stato arrestato e si trovava nel carcere di San Vittore a Milano nel 6° raggio, quello gestito dai tedeschi e riservato ai prigionieri politici.
In quel periodo si trovavano là reclusi oltre Indro Montanelli e sua moglie, il falso Gen. Della Rovere e l’ingegnere aeronautico Vittorio Gasparini, persona di spicco nel CNL di Milano, amico di mio padre, che fu fucilato, per rappresaglia, a piazzale Loreto il 10 agosto 1944 insieme ad altri 14 detenuti politici in quell’agosto di sangue.
Come riuscì mia madre a conoscere la signora Maddalena, madre del giornalista, non so. Fu attraverso di lei che conobbe un secondino, oggi si direbbe guardia carceraria, un certo Tursini, che, per denaro, ma rischiando la vita, si prestava a mettere in contatto i prigionieri con i loro familiari.
Giovanna Pesapane, Mio padre, Ubaldo Pesapane in Nella Memoria delle Cose, Donazioni di documenti dai Lager all’Archivio Storico della Città di Bolzano, a cura di Carla Giacomozzi, Città di Bolzano, 2018-2019

«Il sangue di Piazzale Loreto lo pagheremo molto caro». Sono le parole pronunciate da Benito Mussolini a proposito dell’esecuzione, nel famoso piazzale milanese, di un gruppo di 15 persone tra partigiani e antifascisti, prelevati dal carcere di San Vittore e uccisi all’alba del 10 agosto. Un’esecuzione organizzata come rappresaglia per l’attentato dell’ agosto 1944 ad un camion tedesco, in viale Abruzzi a Milano, dove peraltro nessun tedesco rimase ucciso. Persero la vita, invece, 6 cittadini milanesi. Dopo la fucilazione, da parte di un plotone formato da militari della legione «Ettore Muti», i cadaveri rimasero esposti al pubblico. Un destino che si ripeterà il 29 aprile del 1945, ma i cadaveri saranno quelli del Duce, di Claretta Petacci e di 15 gerarchi fascisti, giustiziati dopo la cattura a Dongo. Qui il racconto nell’Archivio del Corriere della Sera del primo anniversario, sabato 11 agosto 1945 […] Corriere della Sera, 10 agosto 2018

Fonte: Patria Indipendente

Chi erano i 15 fucilati di Piazzale Loreto
Gian Antonio Bravin 36 anni, gappista
Nato a Milano il 28 febbraio 1908, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, commerciante.
Antifascista, subito dopo l’armistizio era entrato nella Resistenza come partigiano nel Varesotto. Era poi rientrato a Milano per mettersi a capo del III Gruppo GAP, le cui azioni diresse sino al 29 luglio del 1944, quando fu arrestato dai fascisti. Imprigionato a San Vittore, Bravin fu messo a disposizione della “polizia di sicurezza” tedesca che, pochi giorni dopo l’arresto, lo prelevò per la rappresaglia di piazzale Loreto.
Giulio Casiraghi 45 anni, comunista
Nato a Sesto San Giovanni (Milano) il 18 ottobre 1899, fucilato a Milano in piazzale Loreto il 10 agosto 1944, operaio elettricista.
Nel 1921 il giovane elettricista aveva aderito al Partito comunista. Attivo antifascista, svolse la sua attività clandestina alle Acciaierie Lombarde, all’Alfa Romeo, alla Marelli, alla Breda e tra i militari delle caserme milanesi. Arrestato, Casiraghi fu condannato dal Tribunale speciale nel 1931 a 4 anni di reclusione. Scontata la pena e ripresa l’attività contro il regime, nel 1935 l’operaio milanese fu di nuovo arrestato. Tornato in libertà, nel 1943 fu tra gli organizzatori dei grandi scioperi del marzo nel capoluogo lombardo. Dopo l’armistizio Giulio Casiraghi partecipò con grande impegno alla Resistenza: organizzò la raccolta di armi e viveri per le formazioni partigiane, provvide alla stampa e alla diffusione dei giornali clandestini. Fu arrestato dalle SS il 12 luglio 1944. Rinchiuso nelle carceri di Monza e a lungo torturato, prima di essere trasferito nel carcere di San Vittore riuscì a scrivere sulla porta della cella un preveggente: “Il mio pensiero alla mia cara moglie e ai miei cari, il mio corpo alla mia fede”. Pochi giorni dopo Casiraghi fu prelevato dal carcere milanese e fucilato in Piazzale Loreto con altri 14 patrioti. Sei mesi dopo il sacrificio di Casiraghi, anche il fratello Mario cadeva in Valle Introna, combattendo con i partigiani. Sulla casa dove i fratelli Casiraghi abitavano, la Città di Sesto San Giovanni (Medaglia d’oro al valor militare), ha fatto apporre, a ricordo, una semplice lapide. Nell’aprile del 2008 la targa è stata danneggiata dalle fiamme; un gruppetto di neofascisti ha appiccato il fuoco alla corona d’alloro che (in occasione delle celebrazioni a Sesto San Giovanni del giorno della Liberazione), era stata collocata, sotto la lapide di via Marconi, dalle organizzazioni della Resistenza.
Renzo Del Riccio 21 anni, socialista
Nato a Sesto San Giovanni (Milano) l’11 settembre 1923, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, operaio meccanico.
Soldato di Fanteria, Del Riccio l’8 settembre 1943 partecipò col suo reggimento a violenti scontri contro i tedeschi a Monfalcone. Tornato al suo paese, riprese il suo lavoro sino al marzo del 1944. Quando fu chiamato alle armi dalla RSI, riparò nel Comasco e si unì a una formazione delle “Matteotti“. Caduto in mano ai tedeschi, nel giugno del 1944 era stato destinato alla deportazione in Germania, ma quando la tradotta giunse a Peschiera, Del Riccio era riuscito a fuggire, a tornare a Milano e a trovare rifugio presso suoi parenti. Denunciato da una spia, il giovane operaio era stato di nuovo arrestato, nel mese di luglio, in viale Monza. Incarcerato in un primo tempo a Monza, Del Riccio era stato poi trasferito a San Vittore, giusto il tempo per essere inserito nell’elenco dei quindici che sarebbero diventati “i Martiri di piazzale Loreto”. A Sesto San Giovanni, dove porta il suo nome un Circolo cooperativo e dove gli è stata intitolata una via, una lapide fatta apporre dal Comune “a imperituro ricordo”, lo definisce “puro fra i puri, patriota idealista”.
Andrea Esposito 46 anni, comunista
Nato a Trani (Bari) il 26 ottobre 1898, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, operaio.
Militante comunista e partigiano della 113ª Brigata Garibaldi, fu arrestato il 31 luglio 1944 nella sua abitazione. Con lui i militi dell’Ufficio politico investigativo della GNR catturarono anche il figlio Eugenio, un vigile del fuoco della classe 1925, che non aveva risposto alla chiamata alle armi della RSI (il ragazzo, quando già il padre era stato trucidato in piazzale Loreto dai fascisti della Muti al servizio dei tedeschi, fu portato da Milano a Bolzano e da qui a Flossenbürg. Da questo lager fu poi trasferito a Dachau e liberato dagli Alleati il 29 aprile 1945).
Andrea Esposito cadde con gli altri quattordici martiri. Su questo tragico episodio della Resistenza italiana, il gappista Giovanni Pesce, Medaglia d’oro al valor militare, ebbe a scrivere nell’agosto del 2002: «È in corso il progetto infido e vergognoso di voler riscrivere alcune pagine della storia patria, sì anche piazzale Loreto. Riproporre la Resistenza, come ha spiegato il ministro Gasparri, in una logica che “accontenti tutti”, che possa proporre la storia in una accezione unificante, tagliuzzare tutto, ridurre la gloria a poltiglia, a polvere, al niente. Il progetto è chiaro, è davanti a noi; a noi impedire che si metta in movimento. Piazzale Loreto, oggi vuol dire questo. È la nostra arma più limpida, il nostro esempio, la nostra sfida. I nostri avversari sanno cosa ha rappresentato quel lontanissimo eppure vicinissimo 10 agosto del ‘44. Lo sanno anche i nostri giovani, quelli che riempiono le piazze d’Italia, che urlano il loro orrore per la violenza gratuita e per i diritti sepolti».
Domenico Fiorani 31 anni, socialista
Nato a Boron (Svizzera) il 24 gennaio 1913, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, perito industriale.
Militante socialista, durante la Resistenza faceva parte delle Brigate “Matteotti“. Fiorani, incaricato della produzione e della diffusione della stampa clandestina, fu arrestato il 25 giugno 1944 a Busto Arsizio, mentre si stava recando all’ospedale a visitare la moglie che vi era stata ricoverata.
Incarcerato a Monza dalla polizia politica, il 7 agosto, proprio pochi giorni prima della strage di piazzale Loreto, l’impiegato fu trasferito nel carcere di San Vittore. Vi sarebbe uscito per affrontare il martirio.
Umberto Fogagnolo 33 anni, azionista
Nato a Ferrara il 2 ottobre 1911, fucilato a Milano, in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, ingegnere elettrotecnico.
Antifascista, pochi giorni dopo la caduta di Mussolini e quando già aveva deciso di impegnarsi nella Resistenza (era in contatto con uno stretto collaboratore di Ferruccio Parri), aveva scritto alla moglie una lettera nella quale diceva: “Ho vissuto ore febbrili ed ho giocato il tutto per tutto. Per i nostri figli e per il tuo avvenire è bene tu sia al corrente di tutto. Qui ho organizzato la massa operaia che ora dirigo verso un fine che io credo santo e giusto. Tu Nadina mi perdonerai se oggi gioco la mia vita. Di una cosa però è bene che tu sia certa. Ed è che io sempre e soprattutto penso ed amo te e i nostri figli. V’è nella vita di ogni uomo però un momento decisivo nel quale chi ha vissuto per un ideale deve decidere ed abbandonare le parole”. Fogagnolo abbandona presto le parole: è fermato per la prima volta a Milano, quando interviene, si era nell’ottobre del 1943, per difendere un operaio aggredito dai fascisti. Era già entrato nella Resistenza a Sesto San Giovanni, rappresentante del Partito d’Azione in quel CLN che teneva in gran conto le opinioni di quell’”Ingegner Bianchi”, dirigente della Società Ercole Marelli, che aveva – sia pure salvando le forme – un rapporto alla pari con gli operai. Fogagnolo, con l’operaio comunista Giulio Casiraghi, è, infatti, l’organizzatore degli scioperi del marzo 1944. Attivissimo in azioni di sabotaggio a Milano e in Lombardia si oppone al progetto di far saltare una diga; un progetto che, sul momento, danneggerebbe gli occupanti tedeschi, ma che avrebbe comportato in seguito un danno enorme per i milanesi. Fogagnolo continuò nella sua lotta sino a che, il 13 luglio del 1944, non fu arrestato dalle SS. Tradotto nel carcere di San Vittore e sottoposto a tortura nel famigerato 5° Raggio, l’ingegnere non si lasciò mai sfuggire una frase che avrebbe potuto danneggiare la Resistenza. Per questo fu uno dei quindici patrioti eliminati a Piazzale Loreto, nell’agosto del 1944. Una lapide, in zona Città Studi, a Milano, ne celebra la figura con queste parole: “I compagni ricordano/ il Dott. Ing./Umberto Fogagnolo/ nobilissima figura/ di lavoratore/ fiero assertore/ dei diritti del popolo/ Spento dal piombo fascista/ vive perennemente/ nella luce della libertà”. A tanti anni dall’uccisione del padre, uno dei tre figli (Sergio, che ha costituito il Comitato denominato “I Quindici” e che si è impegnato nel processo contro il capitano nazista Saevecke, dopo che, dall’armadio della vergogna, sono riemersi i documenti sulle responsabilità dei nazi-fascisti nelle stragi perpetrate in Italia), si è visto annullare dal Consiglio di Stato la sentenza che prevedeva un indennizzo alle famiglie dei Martiri di Piazzale Loreto. Nel 2009 pende ancora un ricorso alla Corte europea di Giustizia.
Tullio Galimberti 22 anni, gappista
Nato a Milano il 31 agosto 1922, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, impiegato.
Dopo l’armistizio era entrato nelle formazioni “Garibaldi” operanti a Milano con compiti di collegamento e, soprattutto, di raccolta di armi per i partigiani organizzati in montagna. Inquadrato nella III brigata d’assalto “Egisto Rubini“, Galimberti alla fine di giugno del 1944 fu arrestato in piazza San Babila a Milano, dove si era recato per un incontro clandestino, da agenti delle SS tedesche e italiane. A San Vittore fu a lungo interrogato e seviziato, senza che da lui i tedeschi riuscissero a ottenere utili informazioni. Se ne liberarono in occasione della strage del 10 agosto 1944, che con questi versi è stata ricordata dal poeta Alfonso Gatto: “Ed era l’alba, poi tutto fu fermo/ la città, il cielo, il fiato del giorno./ Rimasero i carnefici soltanto/ vivi davanti ai morti./ Era silenzio l’urlo del mattino,/ silenzio il cielo ferito:/ Un silenzio di case, di Milano./ Restarono bruttati anche di sole,/ sporchi di luce e l’uno e l’altro odiosi,/ gli assassini venduti alla paura”.
Vittorio Gasparini 21 anni, antifascista
Nato ad Ambivere (Bergamo) il 30 luglio 1913, fucilato a Milano il 10 agosto 1944, laureato in Economia e commercio, Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
Chiamato alle armi nel 1939, aveva prestato servizio nel Battaglione “Edolo” degli Alpini. Nel 1942 era stato nominato capitano, ma esonerato perché mandato, come “mobilitato civile”, presso gli stabilimenti Bombrini-Parodi Delfino di Roma. Subito dopo l’armistizio, Gasparini si era messo a disposizione del Fronte clandestino romano della Resistenza, che l’aveva mandato in missione a Milano. Qui il giovane ufficiale riuscì ad operare per qualche tempo. Poi cadde nelle mani dei nazifascisti, che lo fucilarono in piazzale Loreto con Libero Temolo e altri tredici antifascisti. Questa la motivazione della decorazione al valore: “Si prestava volontariamente a cooperare con il fronte clandestino di resistenza della Marina militare raccogliendo e inviando preziose informazioni militari, politiche ed economiche risultate sempre delle più utili allo sviluppo vittorioso della guerra di liberazione. Arrestato dai tedeschi e torturato per più giorni consecutivi resisteva magnificamente senza mai tradirsi né rivelare i segreti a lui noti, addossandosi le altrui colpe e riuscendo con ciò a scagionare un compagno che veniva liberato. Condannato a morte veniva barbaramente fucilato in una piazza di Milano, poco discosta dalla propria abitazione e dai propri familiari. Elevato esempio di indomito coraggio e di incrollabile forza morale, ammirevole figura di ufficiale e di martire che ha coronato la propria esistenza invocando la Patria”.
Emidio Mastrodomenico 22 anni, gappista
Nato a San Ferdinando di Puglia (Foggia) il 30 novembre 1922, ucciso in piazzale Loreto, a Milano, il 10 agosto 1944, agente di Pubblica Sicurezza.
Faceva servizio a Milano, al Commissariato di Lambrate, dove era stato preso in forza nel 1940. Dopo l’armistizio, il giovane agente era entrato nella Resistenza, tanto che, durante l’oppressione nazifascista, era a capo di una delle formazioni GAP milanesi. Nell’estate del 1944 Mastrodomenico era stato fermato in piazza Santa Barbara da agenti del Sicherheitsdienst (il Servizio di sicurezza germanico), che lo avevano incarcerato a San Vittore. Sottoposto a pesanti interrogatori, l’agente di PS non parlò e i tedeschi decisero di sbarazzarsene quando Teodor Emil Saevecke volle la strage di piazzale Loreto.
Angelo Poletti 32 anni, antifascista
Nato a Linate al Lambro (Milano) il 20 giugno 1912, fucilato a Milano il 10 agosto 1944, operaio meccanico.
Nel 1934 era entrato in contatto con i socialisti del “Centro interno”, fondato a Milano da Morandi, Basso, Luzzatto e Colorni. Ciò spinse Poletti ad organizzare gruppi antifascisti clandestini nella zona di Porta Magenta e all’interno dell’Isotta Fraschini, l’azienda dove lavorava. Subito dopo l’armistizio, l’operaio decise di raggiungere le prime formazioni partigiane e, in Valdossola, si aggregò ai patrioti comandati da Filippo Beltrami. Ma, dopo un certo tempo, Poletti, convinto che avrebbe potuto meglio contribuire alla lotta contro i nazifascisti operando a Milano, tornò in città. Qui divenne il primo comandante della 45ª Brigata Matteotti, che operava a Porta Magenta avendo scelto come base del comando la Cooperativa di Lampugnano. L’operaio antifascista aveva comunque mantenuto i rapporti con le formazioni di montagna. A lui i partigiani facevano sicuro riferimento quando c’erano da riparare armi fuori uso. Poletti provvedeva alla bisogna, servendosi di una piccola officina in via Anfiteatro. I fascisti, forse grazie ad una soffiata, lo sorpresero proprio mentre era al lavoro. L’operaio tentò di fuggire, ma colpito da una pallottola ad una gamba fu catturato e rinchiuso nel carcere di San Vittore. Per giorni e giorni fu ferocemente torturato, senza che i fascisti riuscissero a estorcergli qualche informazione compromettente. Il mattino del 10 agosto, Poletti fu incluso, con Libero Temolo e con Vittorio Gasparini, nel gruppo di 15 prigionieri che i nazifascisti fucilarono per rappresaglia in Piazzale Loreto. Due anni dopo la strage, i suoi compagni della Brigata Matteotti, hanno collocato, al numero 15 di via Trenno, un bassorilievo che ricorda Angelo Poletti.
Salvatore Principato 52 anni, socialista
Nato a Piazza Armerina (Enna) il 29 aprile 1892, ucciso a Milano in Piazzale Loreto il 10 agosto 1944, maestro elementare, socialista, figura di primo piano dell’antifascismo milanese durante la dittatura.
Cresciuto a Piazza Armerina, città sensibile alle istanze socialiste di fine Ottocento, s’impegna presto nella lotta politica contro le ingiustizie sociali. Tra il novembre e il dicembre 1911, appena diciannovenne, è coinvolto (ma poi sarà assolto), in un processo per una protesta popolare, (terminata con l’incendio di alcune carrozze), contro il monopolio di una locale impresa di trasporti. Diplomatosi, si trasferisce a Milano nel 1913 e incomincia a insegnare, prima al Collegio privato “Tommaseo” di Vimercate, poi alle scuole comunali, che abbandona quasi subito, perché chiamato alle armi. Combatte sul Carso come semplice soldato (e poi come caporale), ottenendo una Medaglia d’argento per aver catturato, e poi anche salvato, «una quindicina di prigionieri», durante la battaglia del monte Vodice del maggio 1917. Rientrato alla vita civile, riprende l’insegnamento, prima a Vimercate, poi a Milano alla scuola di via Comasina, e in successione alla «Giulio Romano», alla «Tito Speri» e alla «Leonardo da Vinci». A Milano comincia a frequentare gli ambienti socialisti, animati dalla presenza di Filippo Turati e di Anna Kuliscioff, e da subito contrasta il nascente fascismo. Nei primi anni Trenta figura, con l’appellativo di “Socrate”, nelle relazioni dell’ispettore generale di Pubblica Sicurezza Francesco Nudi. L’ispettore lo indica tra i principali referenti milanesi del movimento di «Giustizia e Libertà» e della concentrazione antifascista di Parigi. “Socrate” risulta attivo soprattutto per quel che riguarda la gestione della stampa clandestina e il progetto, con Alfredo Bonazzi, di un «giornaletto» antifascista. È in contatto con Carlo Rosselli e con Rodolfo Morandi, ed è tra gli artefici, nell’aprile 1931, della fuga di Giuseppe Faravelli in Svizzera. Arrestato il 19 marzo 1933, Principato è deferito al Tribunale speciale nell’ambito di un’operazione di polizia molto vasta, che coinvolge i componenti milanesi e genovesi del movimento di «Giustizia e Libertà». È rilasciato dopo oltre tre mesi di carcere. Da allora diventa un sorvegliato speciale dell’O.V.R.A. È reintegrato nell’insegnamento diurno alla «Leonardo da Vinci», ma gli viene impedito di insegnare nelle scuole serali, perché non è iscritto al PNF. Nell’ottobre 1942 Principato figura, con Roberto Veratti, tra i fondatori del Movimento di Unità Proletaria, costituito durante una riunione clandestina in casa di Ivan Matteo Lombardo. Negli anni della guerra, terminata l’esperienza del M.U.P., Principato divenne uno dei punti di riferimento del Partito Socialista di Unità Proletaria, a Milano; in via Cusani 10, con lo schermo di una piccola officina (la Fabbrica Insegne Arredi Mobili Metallo Affini), maschera e gestisce lo smistamento della propaganda antifascista. Fa parte della 33ª brigata Matteotti, è nel secondo e nel terzo comitato antifascista di Porta Venezia e nel Comitato di Liberazione Nazionale della Scuola. Tra i suoi più stretti collaboratori, negli ultimi tempi, sono Dario Barni ed Eraldo Soncini. L’8 luglio 1944, forse tradito da un suo dipendente, Principato è arrestato in via Cusani dalle SS. Imprigionato nel carcere di Monza, è torturato dalla polizia nazifascista, che gli rompe anche un braccio. Ai primi d’agosto viene trasferito a Milano, a San Vittore. Fucilato in Piazzale Loreto, è il più anziano dei Quindici martiri. La moglie, Marcella Chiorri, e la figlia, Concettina, ne continuarono la lotta partigiana fino alla Liberazione.
Andrea Ragni 23 anni, antifascista
Nato a Brescia il 5 ottobre 1921, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, operaio.
Antifascista, pochi giorni dopo l’8 settembre 1943, era entrato in una delle prime Brigate Garibaldi in via di formazione. Catturato dai fascisti, era riuscito a fuggire e a riprendere l’attività clandestina. Nuovamente finito in mano alle SS tedesche, Ragni era stato rinchiuso il 22 maggio 1944 nel carcere di San Vittore. Ne uscì con gli altri quattordici martiri della rappresaglia nazifascista. Il poeta Franco Loi, che allora, bambino, abitava nella zona, ha ricordato così la strage: «C’erano molti corpi gettati sul marciapiede, contro lo steccato, qualche manifesto di teatro, la Gazzetta del Sorriso, cartelli, banditi! Banditi catturati con le armi in pugno! Attorno la gente muta, il sole caldo. Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia, calze sporche.(…) ai miei occhi di bambino era una cosa inaudita: uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati».
Eraldo Soncini 43 anni, socialista
Nato a Milano il 4 aprile 1901, trucidato a Milano, vicino a Piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, operaio.
Già nel 1924 l’operaio socialista aveva dovuto subire l’arresto e le aggressioni dei fascisti, che l’avevano duramente malmenato. Ciò non gli aveva fatto cambiare idea e, alla Pirelli Bicocca, dove lavorava, aveva continuato nella propaganda clandestina contro il regime. Dopo l’armistizio, Soncini era entrato a far parte della 107ma Brigata SAP, organizzata dal suo amico Libero Temolo, e quando questi fu arrestato, ne proseguì l’opera. Tre mesi più tardi anche Soncini cadde nelle mani delle SS. Incarcerato a Monza, senza un’accusa precisa, rivide il compagno di lavoro e di lotta proprio a San Vittore, dove fu trasferito pochi giorni prima dell’eccidio di piazzale Loreto. Con Temolo e con gli altri tredici martiri, l’operaio della Pirelli fu portato nel piazzale alle prime luci del giorno; con l’amico tentò un’inutile fuga. Temolo fu abbattuto subito sul posto; Soncini riuscì ad arrivare nel portone di via Palestrina 9, ma fu raggiunto dai fascisti e trucidato nel sottoscala della casa, per essere poi trascinato nel mucchio degli altri cadaveri. Oltre che sul monumento di piazzale Loreto, Soncini è ricordato, con queste parole, nel cortile dello stabile dove è stato ucciso: “Qui cadde/ assassinato da vile mano fascista/ il compagno Eraldo Soncini/ per la grandezza della libertà d’Italia/ spenta la voce/ più grande/ il suo ideale”.
Libero Temolo 39 anni, comunista
Nato ad Arzignano (Vicenza) il 31 ottobre 1906, ucciso in piazzale Loreto, a Milano, il 10 agosto 1944, operaio.
Negli anni Trenta si era trasferito a Milano da Arzignano, dove la sua famiglia (ricca di undici figli) era molto nota per le idee democratiche del padre fornaio. Nel capoluogo lombardo, il giovane era riuscito a trovare lavoro, prima come assicuratore e poi come operaio alla Pirelli. Nella fabbrica, dove presto i suoi compagni avevano preso ad apprezzarlo per la sua dirittura morale, aveva ripreso i contatti con l’organizzazione comunista clandestina. Durante l’occupazione tedesca Temolo si era impegnato nell’organizzazione delle Squadre di Azione Patriottica sino a che, certamente per una delazione, i fascisti erano andati a prelevarlo nella fabbrica. Era l’aprile del 1944. Rinchiuso nel carcere di San Vittore, Temolo vi rimase mesi senza un’imputazione precisa e senza processo. All’alba del 10 agosto, i secondini si presentarono alla sua cella e gli fecero indossare una tuta blu da operaio, che recava nel taschino il suo nome e cognome. La stessa tuta fu consegnata ad altri quattordici detenuti di San Vittore, tutti rinchiusi perché sospettati di far parte, a vario titolo, della Resistenza. Ai morituri fu dato ad intendere che sarebbero stati trasferiti in un campo di lavoro in Germania. Ma la loro sorte era già segnata. Theodor Emil Saevecke, comandante della polizia nazista di sicurezza a Milano (soltanto verso la fine degli anni Novanta sarebbe stato processato e condannato all’ergastolo in contumacia per le stragi compiute in Italia), aveva intimato ai repubblichini di fucilare quindici italiani, come risposta ad un’azione compiuta il giorno prima dai GAP in Viale Abruzzi a Milano, nonostante nessun militare tedesco fosse stato coinvolto. Con un camion i detenuti furono trasportati in piazzale Loreto e fatti scendere dal mezzo. Temolo e un suo compagno socialista della Pirelli (Eraldo Soncini), che dovevano aver intuito quel che stava per succedere, tentarono contemporaneamente la fuga in due opposte direzioni. Temolo fu subito abbattuto da una raffica di mitra; Soncini, raggiunto nel sottoscala di una casa vicina, fu eliminato sul posto; gli altri tredici furono falciati dai proiettili dei tedeschi e dei militi fascisti della “Muti”. A pochi metri dal luogo dell’eccidio (i corpi delle vittime rimasero sul selciato di piazzale Loreto sino a pomeriggio inoltrato, per “dare una lezione ai milanesi”), sorge oggi un sobrio monumento che reca i nomi dei Caduti: Umberto Fogagnolo (classe 1911), Domenico Fiorani (1913), Vitale Vertemati (1918), Giulio Casiraghi (1899), Tullio Galimberti (1922), Eraldo Soncini (1901), Andrea Esposito (1898), Andrea Ragni (1921), Libero Temolo (1906), Emidio Mastrodomenico (1922), Salvatore Principato (1892), Renzo Del Riccio (1923), Angelo Poletti (1912), Vittorio Gasparini (1913), Gian Antonio Bravin (1908). A Libero Temolo, il Comune di Milano ha dedicato una via nella zona della Bicocca dove allora sorgeva la Pirelli (sul tetto della fabbrica, il giorno dell’eccidio campeggiò la scritta “Libero Temolo”). Una lapide, con la foto dell’operaio antifascista, si trova in via Casoretto. Reca inciso: “Libero Temolo / nel martirio / chiuse la vita breve di anni / densa di opere / per il culto della libertà”.
Vitale Vertemati 26 anni, antifascista
Nato a Milano il 26 marzo 1919, fucilato a Milano, in piazzale Loreto. il 10 agosto 1944, operaio.
Era nato e cresciuto nel popolare quartiere di Niguarda e lavorava come meccanico alla Falk. Convinto antifascista, dopo l’8 settembre 1943 era entrato a far parte della I Brigata GAP “Gramsci”, operante nel capoluogo. Denunciato da una spia, l’operaio fu arrestato e rinchiuso nel carcere di San Vittore. Vertemati seppe resistere alle sevizie e restò in prigione per mesi. Ne uscì soltanto quando i tedeschi decisero di effettuare una rappresaglia per uno strano attentato compiuto contro uno dei loro automezzi, che non aveva tuttavia provocato né morti né feriti tra i militari della Wehrmacht. Con indosso una tuta, (che i nazisti avevano fatto indossare alle loro vittime designate, per illuderle che le avrebbero portate a lavorare per la Todt), Vertemati e altri 14 patrioti, tra i quali Libero Temolo e Vittorio Gasparini, fu portato in piazzale Loreto e fucilato da un plotone di fascisti della “Ettore Muti”. Per intimidire i milanesi, i corpi dei quindici antifascisti massacrati furono lasciati sul selciato dal mattino al tardo pomeriggio; le salme furono rimosse solo per l’intervento del cardinale Schuster. Una lapide, con l’effige in rilievo di Vertemati, è stata posta a Niguarda. Dice: “Indomito cadesti immolando la tua giovinezza/ Questo marmo ricorda l’abitazione del Patriota/ Vertemati Vitale/ Martire della ferocia nazi-fascista/ sacrificato in Piazzale Loreto/ il 10 agosto 1944/ I familiari la Direzione e le Maestranze FALK/ lo ricordano con orgoglio”.
Dal sito www.anpi.it DONNE E UOMINI DELLA RESISTENZA
Daniele De Paolis, Patria Indipendente, 1 agosto 2018