I Martiri Partigiani di Villa Pino di Santa Margherita di Fossa Lupara

Memoriale dei Caduti Partigiani di Villa Pino di Santa Margherita di Fossa Lupara. Fonte: Resistenza nel Tigullio e liberazione di Genova, art. cit. infra

Verso la metà di marzo del ’45 «Succo» (Sechi Pietro da Oschiri, ex guardia di finanza aggregatosi alla «Coduri» e divenuto poi co­mandante di distaccamento) informato che in quel di S. Margherita di Fossa Lupara, si trovava in licenza un ufficiale della «X Mas», certo Gandolfo, decise di raggiungerlo con 3 uomini per procedere alla sua cattura ai fini di un eventuale scambio con partigiani catturati. Purtroppo l’ufficiale non intendeva arrendersi e da lì nacque una sparatoria che fu fatale per l’ufficiale della «X Mas» e per suo padre corso in suo aiuto. Padre e figlio rimasero uccisi. La macchina dei fascisti di Chiavari si mise subito in moto. Informati dell’uccisione dell’ufficiale prelevarono dalle carceri 6 partigiani e li condussero in località Pino di S. Margherita di Fossa Lupara, fucilandoli. Per la verità i partigiani che dovevano essere fucilati, secondo la logica delle leggi nazi-fasciste, erano dieci. Ma grazie all’intervento dell’avv. Furnò e di altri difensori che, durante il sommario processo tenutosi a Chiavari, si batterono a fondo per strappare i partigiani dalla fucilazione, riuscirono a salvarne almeno quattro. [N.EVB – I loro nomi erano i seguenti: Alp. Barberis Bernardino, n. 20.06.1924 ad Acqui; Part.no Cerchi Albino, n. 10.11.1922 a Castiglione Chiavarese; Pion. Ovarini Osvaldo, n. 28.04.1924 a Vercelli; Part.no Vada Carlo, n. 26.11.1925 ad Asti. I primi tre furono condannati a 30 di reclusione militare, il quarto “Ordinanza trasmissione del processo a Tribunale ordinario”].
I sei condannati, prima di essere caricati sul camion che li doveva trasportare sul luogo dell’esecuzione, vennero incatenati a due a due e fatti sfilare per le vie di Chiavari scortati dalle Brigate Nere, armate di tutto punto, che li additavano alla popolazione come banditi, traditori della Patria ed assassini. E non solo, spingendoli avanti a forza di calci, pugni, schiaffi e a colpi di calcio di mitra nella schiena, li intimarono di cantare «Giovinezza». I condannati, al contrario, anche se esausti dalle percosse e dalla fame, intonarono «Bandiera Rossa» e ogni tanto scandivano le parole: «Viva i partigiani, viva «Virgola», viva la «Coduri»!». A questo punto i fascisti colti da rabbia rincararono la dose di percosse facendoli salire alla spicciolata sul camion. Molti cittadini di Chiavari che assistettero a tale «sfilata» erano esterefatti; le donne piangevano e si segnavano col segno della croce. I partigiani salutava­no i cittadini innalzando in aria il pugno chiuso, suscitando maggiormente le ire dei fascisti. Il percorso in autocarro da Chiavari a S. Margherita di Fossa Lupara venne coperto velocemente. Presente alla fu­cilazione dei sei vi era anche il cappellano delle carceri di Chiavari, il famigerato padre Illuminato, al secolo Minasso Francesco, molto conosciuto in zona per le sue nefandezze e crudeltà. Costui, alla richiesta di alcuni condannati di essere confortati spiritualmente prima di morire, negò loro i conforti religiosi, anzi, da come raccontò a suo tempo il partigiano «Salita», scampato fortunosamente all’eccidio, dove aver espresso la seguente frase: «Dio vi ha dato la vita e io ve la tolgo!» impugnò rabbiosamente un mitra e all’ordine dell’ufficiale comandan­te il plotone di esecuzione, iniziò a sparare contro i «Ribelli». Padre Illuminato il 12 marzo ’45, cioè sei giorni prima dell’eccidio di S. Mar­gherita di Fossa Lupara, venne catturato da una pattuglia partigiana al comando di «Riccio» e di «Scoglio» in agguato sull’Aurelia. Ma per il sopraggiungere di un reparto di alpini che attaccarono gli uomi­ni di «Riccio», il Minasso Francesco riuscì a fuggire.
I partigiani fucilati a S. Margherita di Fossa Lupara corrispondono ai seguenti nomi: 1) «Foglia» (Artusio Arosio) della «Centocroci»; 2) «Barone» (Barletta Giuseppe) della «Coduri», costui prima di es­sere fucilato venne sottoposto a sevizie e a torture e persino accecato da un occhio; 3) «Tarzan» (Giacardi Emanuele) della «Coduri»; 4) «Dik» (Marone Luigi) della «Centocroci»; 5) «Aquila» (Sigurtà Ales­sandro) ed ultimo il partigiano «Salita». Questi, un attimo prima che partissero le raffiche del plotone di esecuzione, si lasciò cadere a terra rimanendo illeso sotto i corpi dei suoi compagni. Intriso di sangue si finse morto. Ma l’ufficiale comandante del plotone di esecuzione, prima di abbandonare la scena, esplose il suo colpo di grazia contro i fucilati. Stavolta «Salita» venne colpito al setto nasale; ma non fu colpo mortale. Egli rimase lucido e per alcune ore sotto i cadaveri dei suoi compagni. Perse molto sangue, ma rimase lì finché non sopraggiunse la sera. Rialzandosi cominciò a vagare come un forsennato per il bosco adiacente, finché non venne raccolto da una squadra di partigiani co­mandati da «Riccio» che, essendo stata informata delle intenzioni dei fascisti, si portò in zona nel tentativo di sventare l’esecuzione. Purtrop­po la pattuglia di «Riccio» giunse sul posto ad esecuzione avvenuta. «Salita» fu raccolto mentre vagabondava nel bosco e, portato d’ur­genza all’ospedale di S. Stefano d’Aveto, vi morì alcuni giorni dopo per l’emorragia causatagli dal colpo al setto nasale. Prima di morire rivelò le nefandezze dei fascisti durante l’episodio della fucilazione, della de­tenzione e del processo. […]
(tratto da: A. Berti-M. Tasso “Storia della divisione Garibaldina “Coduri”, pp. 292/93, Seriarte s.d.f., Genova 1982)
a) 18 marzo 1945: Appunto scritto dall’Avv. Enrico Furnò, difensore, assieme agli Avv.ti Rolando Perasso e Giovanni Trucco, dei dieci partigiani processati per i fatti di S.Margherita di Fossa Lupara, apparso a pagina 4 del “Numero Unico” del giornale “Come sul Penna e sul Zannone”, del 2 giugno 1959, stampato e diffuso nel Tigullio, per pubblicizzare l’idea di una storia della Coduri scritta dai suoi partigiani e promossa da “Virgola”, Comandante della Divisione Coduri.
b) “Dio vi ha dato la vita ed io ve la tolgo”: Altro trafiletto apparso sullo stesso giornale…
(inserti dal giornale “Come sul Penna e sul Zannone”, del 2 giugno 1959)
Redazione, Fascicolo n. 40 – Doc. 10, La strage “du Pin”, Resistenza nel Tigullio e liberazione di Genova, luglio 2019

Cappellano alle carceri di Chiavari ed aggregato alla B.N. era padre Illuminato, al secolo Francesco Minasso. Il 18 marzo 1945 accettò di far parte del plotone d’esecuzione che passò per le armi sei partigiani a Santa Margherita di Fossa Lupara. Ma uno dei fucilati sopravvisse e raccontò il fatto.
Ricciotti Lazzero, Le Brigate Nere, Rizzoli, 1983

I giudici della Corte d’Assise d’Appello di Torino dovranno dire se un frate cappuccino, padre Illuminato, che attualmente si trova nell’America del Sud dove svolge la sua normale attività religiosa, è responsabile delle gravi accuse per difendersi dalle quali si sta battendo da trentasei anni. Il religioso è imputato di concorso in omicidio. Per questo reato è stato condannato a 30 anni di reclusione: un terzo della pena è condonato.
Padre Illuminato, al secolo Francesco Minasso, ha cinquantuno anni, è nato a Riva Santo Stefano in provincia di Imperia e dal convento dei Cappuccini a Porta San Bernardino a Genova fu trasferito d’autorità, dai suoi superiori religiosi, nel Perù subito dopo la guerra. Egli infatti, subito dopo l’8 settembre 1943 era diventato cappellano delle brigate nere con il grado di capitano. In tale veste avrebbe partecipato a numerosi rastrellamenti «andando palesemente armato».
L’episodio che ha portato padre Illuminato dinanzi ai giudici ebbe origine il 3 marzo 1945 quando a Santa Margherita di Fossa Lupara vennero uccisi da due partigiani il tenente della X Mas, Rodolfo [Roberto] Gandolfo, e suo padre. I fascisti di Chiavari, allora, convocarono d’urgenze un tribunale militare e decisero di condannare a morte, per rappresaglia, cinque partigiani detenuti come ostaggi. L’accusa sostiene che padre Illuminato non intervenne alla fucilazione soltanto per somministrare ai condannati i sacramenti, ma cooperò alla esecuzione «non esitando a fare uso del mitra, di cui era armato, contro una delle vittime che si era rifiutato di farsi confessare da lui e dicendo di preferire una confessione fatta direttamente davanti ad una medaglietta che teneva al collo».
Sottoposto immediatamente a procedimento penale, subito dopo la fine della guerra, i giudici della Corte d’Assise speciale di Chiavari ritennero padre Illuminato responsabile del concorso in omicidio volontario e lo condannarono a 30 anni di reclusione. Due anni dopo la Corte d’Assise speciale di Pisa confermò la sentenza. Dopo un primo ricorso in Cassazione, i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Chiavari confermarono la sentenza. Ora la Suprema Corte ha ordinato il nuovo processo alle Assise d’appello di Torino.
s.f., Ordinato un nuovo processo per il frate collaborazionista, La Nuova Stampa, 18 ottobre 1958

Fonte: Resistenza nel Tigullio e liberazione di Genova, art. cit.

L’episodio si inquadra in una serie di esecuzioni compiute dalle truppe nazifasciste, ormai prossime al ripiegamento definitivo. La sera del 13 marzo 1945, due partigiani irrompono nell’abitazione del tenente della X Flottiglia Mas Roberto Gandolfo. Durante il tentativo di cattura, uccidono l’ufficiale e il padre di quest’ultimo. Per rappresaglia, il tribunale di guerra della Div. Monterosa, condanna a morte sei prigionieri. Prelevati il 18 marzo dalle carceri di Chiavari, incatenati a due a due i patrioti vengono fatti sfilare per le vie della cittadina e tradotti in località Villa Pino di S. Margherita di Fossa Lupara e qui fucilati.
[…] Estremi e note penali: 16/02/1947 I sez. Trib. Speciale Corte d’Assise di Genova dichiara gli imputati Marcone e Zoli colpevoli di omicidio, saccheggio, sevizie particolarmente efferate per lo Zoli. Marconi Giovanni Vittorio viene condannato, in contumacia, con il beneficio delle attenuanti ad anni 30 di reclusione e confisca della metà dei beni. Zoli Riccardo viene condannato in relazione all’Art.54 c.p.m.g., con la concessione delle attenuanti generiche e di cui all’art. 114 alla pena di anni 30 di reclusione e alla confisca di metà dei beni.
11/03/1949 la Suprema Corte di Cassazione annulla la sentenza per difetto di motivazione relativamente alla mancata concessione al Marcone delle attenuanti e rinvia alla Corte d’Assise di Pisa, anche per la determinazione della pena da infliggere ai due imputati per effetto della soppressione della pena di morte.
Annotazioni: Il partigiano Piana Mario (Salita) sopravvissuto alla fucilazione muore alcuni giorni dopo all’ospedale di S.Stefano d’Aveto.
Il partigiano Barletta Giuseppe a causa delle sevizie subite viene accecato ad un occhio.
Francesco Caorsi e Alessio Parisi, Episodio di Villa Pino di S. Margherita di Fossa Lupara, Sestri Levante, Genova, Liguria – 18 marzo 1945, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia