I membri della missione non furono mai consegnati ai Tedeschi

Il Comandante Barnes dovette tornare alla sua riunione, ma prima di lasciarci promise che se l’OSS avesse avuto bisogno di trasporti operativi poteva contare sulla sua unità. Uscendo ordinò a Mutty di organizzare il mio pernottamento e di definire i dettagli operativi di Bathtub con me. Il Tenente Mutty era un uomo molto intelligente e non ebbe bisogno di grandi spiegazioni per capire la situazione. Era decisamente entusiasta dell’idea di fare audaci incursioni clandestine in acque nemiche, e l’operazione Bathtub offriva molte nuove sfide. Prese quindi un fascio di carte nautiche e cominciò a calcolare distanze, profondità, secche e tutti i possibili fattori che dovevano essere considerati attentamente nel preparare l’operazione. Mi chiese quanti mezzi ci sarebbero serviti. Risposi che avremmo dovuto utilizzare tre motosiluranti le qualLi, arrivando a destinazione, si sarebbero separate per confondere il nemico qualora avesse intercettato la nostra flottiglia. La nave comando avrebbe trasportato gli agenti e si sarebbe diretta subito al punto di sbarco, mentre le altre due si sarebbero dirette rispettivamente verso Nord e verso Sud, in modo che, in caso di allerta, si riuscisse a mettere in allarme il tratto di costa più lungo possibile, mentre la nave comando, con il motore ausiliario, sarebbe arrivata all’approdo per compiere, non vista, la sua missione di sbarco.
Tracciando la rotta da Biserta all’angolo nord-occidentale della Sardegna, il Tenente Mutty giunse alla conclusione che il punto di approdo era fuori portata. Sarebbe forse stato il caso di portare le tre navi al porto di Bona, in Algeria, a circa 100 miglia a Ovest di Biserta. In questo modo avremmo dovuto navigare circa 250 miglia verso Nord prima di piegare a Est e avvicinarci al preciso punto di sbarco. Calcolava che, fra andata e ritorno, il percorso sarebbe stato di circa 600 miglia: per coprire una distanza simile le motosiluranti avrebbero avuto bisogno di navigare con un serbatoio ausiliario esterno, e sarebbero quindi state ancora più vulnerabili se fossero state intercettate e prese di mira dai bombardieri.
Mutty mi chiese quanto tempo ci voleva per approntare la missione: considerando vari fattori, compreso il rientro del Capitano Tarallo dal Cairo con i documenti, stabilimmo che la data dovesse essere il 28 giugno.
Max Corvo, La campagna d’Italia dei servizi segreti americani 1942-1945, Libreria Editrice Goriziana, 2006, p. 79

Pubblichiamo un estratto dell’introduzione al libro di Carla Cossu “L’estate delle spie. I servizi segreti americani in Sardegna nel 1943”, appena pubblicato da Condaghes Edizioni.
* * *di CARLA COSSU
Questo lavoro nasce dalla necessità di approfondire la conoscenza di alcuni episodi che hanno interessato la Sardegna nel 1943, in un’estate davvero cruciale per le sorti dell’Italia. Si tratta in particolare di due missioni segrete americane organizzate dall’Office of Strategic Services (OSS), i cui report ufficiali desecretati, custoditi negli Archivi di College Park, erano ancora inediti. In questa sede essi vengono presentati e commentati.
Nel corso del secondo conflitto mondiale – e soprattutto nel terribile biennio 1943-1945 – l’Italia fu davvero un covo di spie i cui scopi – a parte l’ovvia necessità di scoprire i segreti del nemico e proteggere i propri – erano molto variegati, e includevano in particolare la propaganda, il sabotaggio, la simulazione e la dissimulazione di piani e progetti militari, l’infiltrazione dietro le linee nemiche. Lungo tutto il territorio nazionale, isole comprese, oltre alle normali attività di ascolto e sorveglianza, si attivarono e si svolsero innumerevoli “missioni” e operazioni segrete di ogni genere, talvolta accuratamente organizzate, talaltra improvvisate e maldestre, per tacere delle attività diplomatiche, i cui confini con lo spionaggio furono spesso labili e permeabili. Inglesi, americani, tedeschi, italiani e russi (ma per noi svizzeri e jugoslavi), furono i principali attori di questo scenario, in un intreccio talvolta inestricabile di spie in guerra e di guerra delle spie, le quali, quando pur agivano “dalla stessa parte”, operarono spesso in contrapposizione tra loro, riflettendo i diversi orientamenti, le ambiguità e le rivalità tra Paesi in teoria alleati contro l’Asse. (…)
Quando, dopo fortissimi contrasti, iniziò la Campagna d’Italia, peraltro delineata nel 1942 dall’italo-americano Max Corvo, uomo di punta del neonato Office of Strategic Services, gli inglesi ne rivendicarono la leadership, pur non essendo disposti a fornire gli uomini e i mezzi necessari. Dal luglio 1943 all’aprile 1945, quella che per gli italiani, già provati dallo strategic bombing, fu una terribile tragedia, divenne per gli Alleati uno scenario secondario, in vista del vero grande attacco a Occidente, lo sbarco in Normandia.
Gli americani si erano spesso dovuti piegare alla volontà degli inglesi, anche in ordine al primo obiettivo territoriale della Campagna d’Italia, la Sicilia, in quel momento il “premio migliore” per gli interessi britannici. Dunque essi tentarono forse di giocare d’anticipo, con l’operazione Bathtub I – guidata da un antifascista ozierese, Antonio Camboni, emigrato in America – che iniziò il 26 giugno del 1943, e che aveva lo scopo ufficiale di confondere le idee al nemico sui veri obiettivi di un imminente sbarco alleato e di prendere contatto con gli antifascisti sardi per creare una rete resistenziale, come tante volte auspicato da Emilio Lussu. Tuttavia, anche alla luce di quanto avvenne con la seconda missione (Bathtub II), avviata il 13 settembre, ritengo che si sia trattato di una missione esplorativa in vista di future operazioni, poiché Roosevelt, Corvo e il capo dell’OSS, il generale Donovan, non avevano mai del tutto abbandonato l’idea di uno sbarco in Sardegna. Di sicuro gli inglesi non fecero nulla per favorire la missione, anzi frapposero grossi ostacoli, rifiutandosi persino di fornire i mezzi navali necessari, costringendo Corvo, come si vedrà, a utilizzare le motosiluranti americane. La soddisfazione di Corvo e di Donovan per quella che egli definisce «la prima missione autonoma dell’OSS contro l’Italia fascista» fu grande. Dopo l’armistizio, tramontata l’ipotesi di una grande o media operazione per la conquista della Sardegna, gli americani decisero comunque di “prendere al volo” l’isola, e di ottenere la resa delle forze armate in essa dislocate, rimaste intatte (eccezione praticamente unica) a seguito dell’esodo volontario (e quasi totalmente indisturbato) delle truppe tedesche.
La Bathtub II fu per certi versi un’operazione rocambolesca e incredibile, che qualcuno potrebbe definire “un’americanata”, perché il suo team era composto da soli quattro uomini che presero contatto con il capo delle Forze armate della Sardegna, il generale Basso, e gli consegnarono messaggi da parte di Eisenhower, di Badoglio e del Re d’Italia, con i quali, ad armistizio avvenuto, gli si imponeva la resa. Evidente la particolarità della data e degli obiettivi dichiarati della missione, coordinata dal russo-americano Serge Obolensky. Quello che possiamo escludere è che si sia trattato di un’iniziativa personale di Donovan, non avallata dai comandi politici e militari e senza conseguenze importanti, perché essa aprì la strada all’arrivo in massa degli americani nell’isola, con le varie attribuzioni politiche, militari ed economiche, e all’instaurazione di un Alto Commissariato, diretto dal generale sardo Pietro Pinna Parpaglia, coadiuvato da una Giunta, cosa questa del tutto diversa da quanto avvenne nelle altre zone dell’Italia liberate dai nazifascisti e occupate militarmente dagli Alleati.
Dunque anche per la Bathtub II possiamo pensare che gli americani abbiano voluto mettere in chiaro con gli inglesi che non avrebbero accettato altre imposizioni, rimarcando la propria autonomia decisionale in questa specie di “gioco delle isole”, nel corso del quale la Sardegna, grazie all’audacia e all’astuzia di “un team di quattro uomini”, era stata “conquistata”, a differenza della Sicilia, con il miglior rapporto costi-benefici che sia dato immaginare, e senza spargere una goccia di sangue. Probabilmente gli americani vollero dimostrare che non avrebbero permesso agli alleati-rivali di realizzare il progetto di occupare alcuni porti della Sardegna nel dopoguerra, per farne basi utili ai loro commerci e alla loro potenza militare, e che – da quel momento in poi – i rapporti di forza sarebbero cambiati.
© 2020 Condaghes
Redazione, Estate 1943: giochi di spie in Sardegna, La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2021

Sottolineai di esser rimasto molto sorpreso dal fatto che nessun aereo nemico fosse stato inviato ad intercettarci, specie dopo che eravamo stati individuati dall’idrovolante. Probabilmente ciò era dipeso dal fatto che eravamo talmente lontani dalla nostra base che il pilota doveva aver dedotto che eravamo navi amiche. Dissi al generale che se tutta la costa era sorvegliata allo stesso modo in tutta l’isola, uno sbarco in massa sarebbe stato possibile, e subito i Sardi avrebbero potuto dar ragione a Lussu che affermava che l’isola sarebbe caduta come una pera matura. Spiegai al generale perché gli uomini della missione erano partiti in uniforme, e che rinviare l’operazione sarebbe significato mandarla a monte.
Il generale convenne che vi erano varie buone ragioni per sbarcare in uniforme, e che se la missione fosse stata intercettata avrebbe avuto comunque l’effetto importantissimo di allertare il nemico nel posto sbagliato, forse dirottando su quel fronte forze necessarie altrove. Il Generale Donovan era palesemente soddisfatto del mio resoconto, e mi chiese di metterlo in iscritto con tutti i possibili dettagli, evidenziando eventuali debolezze organizzative che sarebbe stato opportuno correggere. Disse che sarebbe rimasto in zona alcuni giorni prima di partire per l’Estremo Oriente, e promise che ci saremmo incontrati ancora prima della sua partenza.
Ritornai al Club des Pins per stare un po’ con ufficiali e soldati. Tarallo era tornato dal Cairo con qualche abito civile italiano, ma senza documenti validi per intraprendere con una certa sicurezza operazioni segrete sul territorio nemico. Durante la mia assenza mi avevano cercato degli ufficiali inglesi: non avevano lasciato alcun messaggio, ma avevano promesso di ritornare per affari urgenti e segretissimi.
Mentre ero impegnato a cercare l’aiuto della Marina e ad accompagnare la missione Bathtub erano successe molte cose. L’11 giugno l’isola di Pantelleria, nel Canale di Sicilia, era stata bombardata fino a che si era arresa alla Prima Divisione britannica. I bombardamenti sull’isola erano stati molto pesanti sin dalla fine della campagna in Tunisia e gli aerei alleati avevano scaricato quasi 7.000 tonnellate di bombe nel corso di 5.200 sortite.
Max Corvo, Op. cit., p. 87

Dopo la svolta nelle vicende del secondo conflitto mondiale, che nello scacchiere mediterraneo tra la fine del 1942 e il maggio 1943 costringe le forze dell’Asse a sgomberare l’intera Africa settentrionale, l’Italia diviene per gli Alleati il “ventre molle” della coalizione avversaria, da mettere per prima fuori combattimento. La scelta della Sicilia come obiettivo dello sbarco, compiuta nella conferenza di Casablanca, scaturisce da complesse discussioni sia sull’apertura del secondo fronte continentale, sempre più vivacemente sollecitato dai sovietici per alleggerire la pressione militare tedesca, sia sulla destinazione più opportuna: se la Grecia, come chiede la Gran Bretagna per anticipare la paventata espansione sovietica nei Balcani, o la Sardegna secondo l’orientamento degli USA.
Il problema può apparire secondario nell’articolato contesto delle operazioni; in realtà anticipa le grandi questioni su cui nella coalizione antifascista si aprirà un acceso dibattito nello scorcio finale della guerra. Si tratta infatti di definire la sistemazione politica, a conflitto concluso, sia dell’Europa, sia nella fattispecie di un’Italia per la quale gli Alleati occidentali prevedono soluzioni diverse – gli inglesi di mantenimento della monarchia e predominio delle forze di conservazione, gli Stati Uniti di rinnovamento democratico a partire dalla dimensione istituzionale – ovviamente funzionali agli equilibri che le due potenze intendono stabilire nell’area.
Sotto questo profilo, nella pianificazione e gestione dello sbarco e delle successive operazioni della Campagna d’Italia cominciano a manifestarsi alcune tra le linee di frattura su cui l’alleanza si dividerà nel periodo successivo, e soprattutto a conflitto concluso. Tali divergenze si manifestano – lo sottolinea Elena Aga Rossi nella sua densa prefazione – anche nella conduzione delle operazioni di intelligence, in particolare con la rivalità fra i servizi inglese e americano nella preparazione dello sbarco in Sicilia.
È noto, anche per i risvolti letterari e filmici della vicenda, che l’individuazione della Sardegna come possibile obiettivo dello sbarco viene fatta trapelare, attraverso la romanzesca operazione Mincemeat, allo scopo di depistare l’organizzazione delle difese tedesche. Per contrastare il temuto sbarco, in Sardegna viene così affiancata al XXX Corpo d’Armata italiano la agguerrita 90esima Divisione Panzergrenadier , già fra le unità di punta dell’Afrika Korps tedesco. Meno noti sono i piani di invasione dell’isola elaborati fin dal 1940 dai Comandi inglesi, allo scopo contingente di stabilire una base operativa verso l’Africa nordoccidentale e la penisola italiana, ma anche per ribadire l’egemonia britannica sul Mediterraneo.
Sostenuta dallo stesso Churchill, l’ipotesi di un attacco all’isola è propugnata da Emilio Lussu, il quale cerca di inserirsi nei progetti inglesi per realizzare il sogno dell’insurrezione antifascista che ha perseguito per tutto il suo lungo esilio. Nel 1943, e nella prospettiva di portare la guerra sul territorio della Festung Europa, occupare la Sardegna avrebbe dovuto indirizzare una pressante minaccia verso l’Italia continentale, in modo da costringere i tedeschi a sgomberare rapidamente la penisola ed attestarsi sulle Alpi a difesa del proprio territorio nazionale.
Lo Special Operations Executive (SOE) inglese invia così in gennaio una missione di due uomini che sbarcano in Ogliastra con il presumibile compito di organizzare gruppi di oppositori armati; vengono trovati in possesso di una lista di indirizzi e riferimenti che porta in carcere un gruppo di ignari antifascisti tra cui l’avvocato nuorese – futuro senatore e ministro democristiano – Salvatore Mannironi. Fortuna non migliore arride ad altre missioni nei mesi di maggio e luglio, con compiti analoghi ma con la sostanziale finalità di distogliere l’attenzione del nemico dall’obiettivo autentico, la Sicilia.
In questo contesto si collocano le due missioni Bathtub (vasca da bagno, bagnarola) organizzate dall’Office of Strategic Services (OSS), il servizio di intelligence statunitense dal quale nel 1947 prenderà origine la CIA. Il servizio segreto americano, intenzionato ad affermare la propria autonomia progettuale e operativa dagli alleati, impiega personale adeguatamente addestrato, fra il quale spiccano elementi nati in Sardegna o da essa originari, reclutati tra l’emigrazione isolana negli States, che parlano perfettamente italiano e sardo. Di particolare rilievo le figure di due ozieresi, Antonio Anthony Camboni e Giovanni John Demontis, negli USA dall’immediato dopoguerra: commerciante di bilance a Chicago, figlio di un socialista schedato, il primo; proprietario di un drugstore a Detroit il secondo. Il loro compito – ufficialmente la creazione di una rete di spionaggio e di gruppi di resistenza attraverso contatti con i “fuorilegge della Sardegna orientale” – è in sostanza quello di convincere, una volta catturati, il controspionaggio italiano dell’imminenza di un’operazione l’isola (dieci giorni più tardi prenderà il via l’operazione Husky sulle spiagge meridionali della Sicilia). Un ulteriore capitolo di quel “gioco delle isole” (l’espressione è dell’autrice del libro) impegnato dagli Alleati prima di scoprire le carte con l’operazione Husky.
La missione è diretta nella zona di Monte Mannu, imponente rilievo vulcanico che sovrasta il litorale a nord di Bosa; da lì dovrebbe dirigersi a Monte Minerva, prendendo contatto con la famiglia Diaz, proprietaria di une tenuta agricola e di sentimenti antifascisti. Il gruppo, giunto da Algeri su motosiluranti, sbarca invece diverse decine di chilometri più in là, a Capo Mannu, in Nurra, sul mare di fuori poco a nord dell’Argentiera. Presa faticosamente terra e scalata non senza problemi la ripida falesia rocciosa, la missione viene intercettata da una pattuglia italiana, alla quale non è difficile presentarsi come un piccolo reparto che ha perso l’orientamento e chiede informazioni sull’itinerario da seguire. Solo più tardi la difesa costiera realizza di trovarsi di fronte a nemici – che vestono tra l’altro la divisa dell’esercito regolare statunitense – e li arresta.
Inizia qui un rocambolesco succedersi di incarceramenti, interrogatori da parte dell’assai poco efficiente controspionaggio italiano, minacce di fucilazione, atti di solidarietà da parte di carcerieri e Carabinieri fra i quali Camboni e Demontis ritrovano diversi compaesani. L’annuncio dell’armistizio sorprende i componenti della missione al porto di Olbia, mentre attendono l’imbarco verso un campo di prigionia della penisola. Vengono invece riportati a Sassari e immediatamente messi in libertà.
Meno vicina al canone della spy story, la vicenda della missione Bathtub II non è peraltro priva di aspetti avventurosi. In una notte di plenilunio, una pattuglia dell’OSS scende col paracadute sulle alture intorno a Siliqua; al comando, niente meno che un principe russo in esilio, Serge Obolensky, che un‘età non più verdissima non ha distolto dall’affrontare un sommario addestramento al lancio ed una missione non priva di rischi. È il 13 settembre, i reparti tedeschi stanno evacuando l’isola, l’eventualità di incontri indesiderati con il nemico non è affatto da escludere. Il capitano riesce a raggiungere l’aeroporto di Decimomannu e poi Bortigali: per il comandante militare della Sardegna, generale Antonio Basso, ha messaggi inviati da Castellano, firmatario italiano dell’armistizio di Cassibile, e persino del comandante delle forze alleate nel Mediterraneo, Dwight Eisenhower. Tutti sollecitano Basso perché impedisca la ritirata delle truppe tedesche in Corsica, dove senz’altro ostacolerebbero la liberazione dell’isola, e dalla quale realizzerebbero un prevedibile passaggio sul continente per rafforzare ulteriormente quel dispositivo bellico che per due inverni inchioderà l’avanzata anglo-americana sulle linee Gustav e Gotica.
[…] Bathtub II comunque diventa l’avanguardia dello sbarco delle forze alleate, riceve come tale le prime accoglienze entusiastiche della popolazione civile e comincia a misurarsi con i problemi dominanti dell’isola nello scorcio finale del conflitto e nell’immediato dopoguerra: dalla neutralizzazione dei residui esponenti fascisti, al sorgere anche tra le Forze armate di nuclei clandestini in collegamento con lo spionaggio della RSI, al trasferimento dalla Corsica delle unità italiane che avevano partecipato alla lotta di liberazione, agli enormi problemi di isolamento e approvvigionamento che travaglieranno la vita economica e civile ben oltre la fine della guerra.
Questo volume si aggiunge a una serie di studi sulla Sardegna nel secondo conflitto mondiale che diviene sempre più numerosa e qualificata. Sempre troppo poco, verrebbe da dire. Non solo per ciò che quella guerra rappresenta nella storia dell’umanità, o anche solo del continente e del nostro Pese; non solo per la rovente attualità dei motivi che l’hanno ispirata e scatenata e per la persistente necessità di una conoscenza approfondita ed analitica delle ragioni dell’uno e dell’altro schieramento e delle rispettive componenti interne; non solo perché da quella guerra, dal modo in cui si è conclusa sono scaturite le caratteristiche fondanti della contemporaneità italiana e sarda; ma anche per un motivo più strettamente legato alla specifica realtà dell’isola.
Con poche eccezioni – e fra esse la prima guerra mondiale – in Sardegna è diffuso, anche fra quanti possiedono una formazione culturale non mediocre, un senso di estraneità nei confronti della “grande” storia, degli avvenimenti e dei processi di maggiore rilevanza del mondo contemporaneo. I portatori dei valori dell’Ottantanove, i nostri progenitori li hanno presi a fucilate a Quartu e a cannonate a La Maddalena, rigettandoli a mare; il Risorgimento è solo il culmine di un processo di colonizzazione straniera che ci riguarda solo come oggetti e vittime; la modernizzazione ci ha semplicemente sfiorati fino a tempi recenti; durante il biennio rosso gli altri volevano fare come in Russia e a noi interessava l’autonomia (o, nella vulgata corrente, un’indipendenza che in realtà era obiettivo di minoranze esigue e nemmeno molto qualificate), il fascismo nostrano non ha nulla a che vedere con quel che ha rappresentato fuori; l’autonomia infine raggiunta si è rivelata da subito il gatto della nota frase di Lussu; nella democrazia repubblicana abbiamo sempre contato e tuttora contiamo quanto il due di coppe; e per di più non ci danno (si notino il verbo e la sue forma) nemmeno il seggio che ci spetterebbe a Strasburgo.
Meglio, assai meglio, rifugiarsi in un passato di glorie remote, vere o presunte: il Medioevo giudicale, la preistoria nuragica o fatti ancora più remoti e meno scientificamente ricostruibili; e quanto meno se ne sa – o quanto meno ciò che se ne sa quadra con il tipo di immagine consolatoria che se ne vuole ricavare – tanto più si cerca di sostituire alla conoscenza storica qualcosa che, comunque lo si voglia definire, conoscenza non è. Che la dimensione del mito e dell’invenzione sia fondamentale nella coscienza e dell’agire umano, nessuno lo mette in dubbio; basta non scambiarle per quello che non sono. Quanto poi su di esse si possa solidamente costruire ciò che in genere si fonda su basi di solida conoscenza e coscienza, è discorso che esula dal nostro.
La seconda guerra mondiale nella memoria collettiva dell’isola è articolata per lo più secondo un’ottica strettamente localistica: i nostri soldati mandati a morire in terra e in mare; i bombardamenti; lo sfollamento, le benedizioni al generale Basso, i tedeschi “buoni”, gli americani ugualmente “buoni” ma anche tanto molesti; una guerra civile che sembra avvenuta all’altro capo del pianeta; la cortina di oblio sui suoi protagonisti locali (dell’uno e dell’altro campo, sia chiaro); l’isolamento, la fame, la miseria, le cavallette, tutt’al più le aspettative di cambiamento profondamente deluse; ma in definitiva, un assai limitato cambiamento delle condizioni di vita materiale, della cultura, del rapporto con lo Stato e le istituzioni.
Ben pochi si rendono conto di quanto in realtà siano originali e preziosi certi tratti della storia sarda di allora, rispetto al panorama italiano ed europeo. L’isola è una delle primissime terre d’Europa che possono smettere di occuparsi della guerra guerreggiata, dell’occupazione tedesca, di un fascismo che sopravvive a se stesso aggravando se possibile le malefatte dell’occupante, di uno scontro civile che comunque lo si voglia considerare è doloroso, lacerante, traumatico, di operazioni belliche portate di borgata in borgata, di paese in paese, di città in città, da un pendio di collina e da una vallata all’altra; e può invece iniziare ad occuparsi del dopo.
Un dopo rispetto al quale rappresenta un formidabile laboratorio. Non solo perché vi riprendono precocemente il libero confronto civile, il dibattito politico e culturale (nessuno oggi sembra ricordarsi che in una Sardegna pur privata del suo centro principale, ridotto a cumulo di rovine, si sviluppa quella straordinaria palestra di elaborazione e scambio di idee che era la rivista “Riscossa”), il tentativo di lasciarsi alle spalle anche la dimensione antropologica di un fascismo che prefiggendosi la costruzione dell’ “uomo nuovo” era giunto a pervadere la vita collettiva e perfino le dimensioni della famiglia e della coscienza individuale; e perché nell’isola cominciano a prendere consistenza i non pochi problemi che a tutto questo sono connessi. Sono fenomeni che, in modi e forme diverse, avvengono anche nel resto del Meridione liberato, e più o meno negli stessi tempi con cui accadono qui.
[…]
Per questo motivo, di studi seri come questo ce n’è necessità ed essi meritano attenzione e valorizzazione adeguate. L’autrice, Carla Cossu, proveniente dall’insegnamento superiore e dalla militanza culturale nell’ANPI, della quale presiede il Comitato provinciale di Oristano, si è negli ultimi anni segnalata per aver messo a disposizione degli studiosi alcuni importanti ed aggiornati strumenti on line, quali gli Atlanti dei partigiani e degli antifascisti della sua provincia. La sua ricerca prende le mosse dalla ricca documentazione archivistica dell’OSS, di recente declassificata e resa disponibile agli studiosi dalla National Archives and Records Administration in forma digitale. Oltre al paziente ed attento scavo nei documenti statunitensi, il volume è corredato da un ricco e curato apparato critico e da un’ampia bibliografia: ciò che richiama all’importanza di adottare impianti metodologici e costumi di ricerca fondati e rigorosi, in un momento nel quale – soprattutto in Sardegna – si parla di storia con sconcertante approssimazione, persino in ambienti culturali di elevato profilo.
[…]
Carla Cossu, L’estate delle spie : i servizi segreti americani in Sardegna nel 1943 (prefazione di Elena Aga Rossi, postfazione di Vindice Lecis, Cagliari, Condaghes, 2020)
Aldo Borghesi, L’estate delle spie: quelle missioni dei servizi segreti Usa in Sardegna nel 1943, Fuori Pagina, 23 gennaio 2021

L’allargamento della missione Bathtub fu proposto a Eddy in un mio messaggio radio del 19 agosto. Suggerivo di mettere alcune motosiluranti della squadra di Barnes a disposizione della missione OSS per la conquista della Sardegna, includendo nella missione personale sia delle Operazioni Speciali (SO) sia dei Gruppi Operativi (OG).
Washington aveva un’idea diversa e stava organizzando il trasferimento della direzione del progetto a Sherman Kent, uno degli alti ufficiali della sezione Ricerca e Analisi (R&A). Il Colonnello Eddy fu informato che egli avrebbe avuto responsabilità generale dell’operazione; Washington si augurava anche che Scamp e la sezione italiana del SI fossero disponibili ad aiutare Kent.
Il 9 settembre, dopo la resa di Badoglio, inviammo un messaggio speciale a “Bathtub I” in Sardegna per avvisare il capo della missione che l’Italia si era arresa, ma i Tedeschi continuavano a combattere, mentre gli Italiani, militari e civili, avrebbero sabotato le linee di rifornimento tedesche. Al capo della missione (Tony Camboni) fu chiesto di promettere aiuti e crediti, qualora necessario. Il messaggio fu decifrato dal servizio informativo italiano che controllava la missione sin dal secondo giorno successivo allo sbarco in Sardegna.
La missione, in effetti, il 31 giugno era stata catturata nel corso di una serie d’incidenti tragicomici verificatisi al momento dello sbarco, dopo un amichevole scambio di saluti in Italiano con una pattuglia di soldati italiani. Lì per lì i soldati italiani non avevano riconosciuto le divise arnericane, perché i soldati Alleati più vicini alla Sardegna erano in Nord Africa. Poco dopo, rendendosi como che c’era qualcosa di strano, mandarono alcuni uomini sulle tracce della missione OSS.
I nostri avevano ricevuto istruzioni di non ingaggiare scontri a fuoco, e furono quindi presi prigionieri dopo una trattativa paradossale con il sottufficiale della pattuglia italiana che aveva lanciato l’allarme e che quasi si scusava. Un maggiore accompagnato da 100 uomini armati fino ai denti fu mandato a prendere in consegna i prigionieri, per tradurli a Porto Torres dove sarebbero stati interrogati. Alle domande del generale risposero “confessando” di essere l’avanguardia della forza d’invasione americana. Furono minacciati di condanna a morte per spionaggio, e l’interrogatorio fu quindi affidato ad un ufficiale del Servizio Informazioni Militari, il Maggiore Faccio. Furono trasferiti a
Sassari e reclusi in celle isolate. Dopo qualche giorno le quattro reclute furono messe nella stessa cella e poterono scambiarsi informazioni. Il 31 luglio andò in onda un messaggio del Tenente Taquay, che fu ritrasmesso alla nostra stazione in Sicilia. Decidemmo di stare al gioco e rispondere al controspionaggio italiano.
I membri della missione non furono mai consegnati ai Tedeschi, ma furono liberati dopo l’armistizio (9 settembre 1943) poco prima di esser imbarcati su un volo che li avrebbe portati sulla terraferma. Ricevettero ordine di indossare abiti civili per non essere riconosciuti dai Tedeschi che erano ancora a Sassari: una scorta di polizia, inoltre, li avrebbe protetti. Sotto scorta furono portati a Macomer, dove incontrarono il Tenente Colonnello Serge Obolensky dell’OSS che, agli ordini dell’AFHQ e del Generale Donovan, era stato paracadutato in Sardegna per stabilire un contatto con il comando militare italiano a Cagliari.
I soldati tedeschi ricevettero l’ordine di evacuare la Sardegna. Con poche eccezioni, riuscirono a partire senza scontri armati con le forze italiane che li esortavano ad andarsene.
Il Generale Theodore Roosevelt, inviato in missione sull’isola, ringraziò personalmente i membri di Bathtub che si erano offerti volontari per infiltrarsi in Sardegna in condizioni così difficili.
La missione di Obolensky in Sardegna, invece, fece tramontare rapidamente la proposta di allargare l’operazione Bathtub. Tutta l’organizzazione stava concentrando la propria attenzione sulla terraferma, dove la 5^ Armata era impantanata nella testa di ponte di Salerno.
Max Corvo, La fine di Bathtub in Op. cit., pp. 161,162