I partigiani della banda Tom

I funerali della banda Tom nell’ottobre del 1945 – Fonte: Il Monferrato.it

L’ingresso delle truppe alleate entravano a Roma e lo sbarco in Normandia donarono però nuova linfa alla iniziativa partigiana, che si estese alle colline e alla pianura: anche il Basso Monferrato si animò improvvisamente per iniziativa di ex ufficiali di complemento ed ex soldati coadiuvati da alcuni prigionieri alleati evasi di campi di concentramento di Chivasso e Valenza, oltre che dai giovani del posto che spesso continuavano a vivere nelle proprie case. Oltre ai primi gruppi di partigiani tendenzialmente autonomi che poi troveremo raccolti nella divisione Patria (il gruppo del ten. Guaschino, di Renato Guaita) e il primo nucleo della divisione Monferrato, troviamo i garibaldini della banda Fox e la Banda Tom: queste sono le uniche formazioni a vivere completamente alla macchia. Ad esse vanno aggiunte una miriade di gruppi a carattere territoriale, fondamentalmente composti da giovani che continuano ad abitare nelle loro case. Una delle operazioni fondamentali che crearono consenso nella popolazione contadina del Monferrato furono le azioni di difesa della trebbiatura tra i mesi di giugno e di luglio e i sabotaggi degli elenchi annonari per evitare le requisizioni di bestiame. In un certo senso se nelle città uno degli scenari di resistenza erano le fabbriche, nel Monferrato contadino le coltivazioni e gli allevamenti erano il punto di incontro tra la popolazione e i partigiani. La situazione iniziò a diventare insostenibile fin da agosto, e le forze nazifasciste si risolsero a riprendere le azioni e i rastrellamenti anche sulle pendici dell’Appennino. Intanto si consumava il primo eccidio che avrebbe colpito le bande attestate nel triangolo tra Casale, Alessandria e Asti: il 12 settembre venne accerchiato un nucleo della banda Lenti: Pietro Lenti e venticinque giovani vennero portati a Valenza, rinchiusi nelle scuole elementari, interrogati, bastonati e uccisi uno ad uno con un colpo alla nuca.
Intanto, tra luglio e agosto si intensificarono i contatti dei gruppi del Monferrato con i partiti: le trattative per accettare di sottoporsi all’autorità dei comandi vertevano più sulle possibilità di finanziamento, sull’armamento e sui contatti con gli Alleati più che sull’orientamento ideologico espresso dalle singole formazioni. Il quadro complessivo quindi delle formazioni costituite nel Monferrato a settembre del 1944 comprendeva la 79.a brigata Garibaldi Alessandria, il raggruppamento di brigate Matteotti Italo Rossi e la brigata Patria costituita dal gruppo di Gherardo Guaschino attestato in val Cerrina e di Giovanni Sisto (Tristano), sottoposti al comando di Edoardo Martino (Malerba). Intanto nel Monferrato astigiano si gettavano le basi per la costituzione della divisione autonoma Monferrato. Intorno nei dintorni di Alessandria si erano invece organizzate le due brigate Matteotti Val Tanaro e Val Bormida e le due brigate GL Boidi e Mirabelli.
 Lodovico Como, Dall’Italia all’Europa. Biografia politica di Edoardo Martino (1910-1999), Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2009/2010

Vennero catturati in collina, a Casorzo, trasferiti in città, lungo un percorso non breve, incatenati a piedi nudi, costretti a percorrere viuzze e piazze del centro storico, fino alla Cittadella; nessun processo, ma solo i colpi del fucile e della pistola, per sporcare di sangue la neve fresca sul terreno. Il tutto nel silenzio e nell’inazione della gente, impaurita e rinunciataria. Padre Angelo Allara e monsignor Giuseppe Angrisani tentarono di intervenire, ma i tedeschi non si fecero contattare e i fascisti si negarono fino all’epilogo.
Eppure i 13 erano conosciuti, erano sostenuti, ma nessuno osò e si mosse. Assieme ad Antonio Olearo (Tom), vennero uccisi: Augino Giuseppe di Valguarnera (Enna); Boccalatte Alessio di Lu Monferrato; Canterello Aldo di Alessandria; Cassina Luigi (Ginetto) di Casale; Cavoli Giovanni (Dinamite) di Solero; Harboyre Harrj, prigioniero britannico ufficiale della Raf; Peracchio Remo di S. Stefano di Montemagno; Maugeri Giuseppe di Siracusa; Portieris Boris di Genova; Santambrogio Luigi di Cesano Maderno; Serretta Carlo di Genova; Raschio Giuseppe di Alessandria. Dei catturati a Casorzo, solo il giovanissimo Giovanni Damarco evitò la fucilazione. Fu poi incarcerato a Casale ed Alessandria. Si salvarono anche Pagella Claudio e Giuseppe Sogno, ucciso poi a Tortona.
Le vittime, i giovani partigiani, subirono un torto radicale ed incomprensibile; non furono uccisi in azione, in conflitto, per rappresaglia; vennero uccisi solo per testimoniare l’atrocità e determinazione delle truppe tedesche e la vendetta dei fascisti locali; vennero uccisi per piegare ancor più la città. Fu un eccidio premeditato e calcolato per colpire e sopprimere ogni velleità di una nuova coscienza civile. La gente comune, i famigliari: ammutoliti per una strage senza senso, all’alba della Liberazione, di fronte alle mille avvisaglie della sconfitta dei nazifascisti. I genitori, gli amici dei partigiani fucilati, a chiedersi la ragione di tanta violenza, di fronte alle salme posate fra la neve e sangue raffermo.
Dal giovanissimo Santambrogio ai siciliani Augino e Maugeri (giunti a sostenere la Resistenza al Nord), dall’inglese Harboyre (fatto prigioniero e poi unito a Tom nell’esecuzione) ai partigiani della collina e della pianura, dai semplici operai ai contadini: uno spaccato della società attiva, ma annientata dal fascismo.
A gennaio 1945, mezza Italia era già libera, gli alleati erano sbarcati al sud e si respirava aria di pace. Da noi, tedeschi ed italiani fascisti hanno ucciso senza senso e ragione, hanno solo ritardato a duro prezzo ciò che era già scritto, la Liberazione.
Sergio Favretto, Una storia vera di giovani di ieri che i giovani di oggi ben capiscono, casalenotizie, 17 Gennaio 2020 [Alcune pubblicazioni di Sergio Favretto: Il papiro di Artemidoro: verità e trasparenza nel mercato dei beni culturali e delle opere d’arte, LineLab, Alessandria (2020); Con la Resistenza. Intelligence e missioni alleate sulla costa ligure, Seb27, Torino, 2019; Una trama sottile. Fiat: fabbrica, missioni alleate e Resistenza, Seb27, 2017; Fenoglio verso il 25 aprile, Falsopiano (2015); La Resistenza nel Valenzano. L’eccidio della Banda Lenti, Comune di Valenza, 2014; Resistenza e nuova coscienza civile. Fatti e protagonisti nel Monferrato casalese, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2009; Giuseppe Brusasca: radicale antifascismo e servizio alle istituzioni, Atti convegno di studi a Casale Monferrato, maggio 2006; Casale Partigiana, Libertas Club, 1977]

All’alba del 15 gennaio ’45 Casale Monferrato fu svegliata da un barbaro spettacolo: 13 uomini, venivano spinti, incatenati e con i piedi nudi esposti al rigido inverno, tra le vessazioni, le botte e gli insulti dei loro aguzzini, verso la cittadella militare, ove avrebbero subito un sommario processo e l’immediata fucilazione. Al collo di uno di loro un cartello recava una scritta: ‘ecco i leoni di Tom’. La banda Tom fu una formazione partigiana attiva nel monferrato dal ’43 fino al ’45. Il nucleo si dotò di moschetti e pistole sottratti a carabinieri. Pochi mezzi, ma tanta determinazione. Agivano con interventi improvvisi, ripetuti in più luoghi, fra i comuni di Rosignano Monferrato, Casorzo, Grazzano, Vignale, Altavilla, Sala, Ottiglio, Cellamonte, sulle strade provinciali per Alessandria e Valenza, interropendo importanti linee di rifornimento nemiche. La formazione non ricevette lanci dagli Alleati, non fu raggiunta e sostenuta da missioni inglesi. Dovette autorganizzarsi ed autogestirsi. Con gli attacchi alle pattuglie tedesche e fasciste si acquisivano armi e munizioni, si destabilizzava il crescente raccordo fra SS, i soldati della Brigata Nera, la G.N.R. Era guidata da Giuseppe Olearo, detto Tom, nato a Ozzano Monferrato appena ventiquattro anni prima. Gli avvenimenti che portarono alla loro cattura ci insegnano una volta di più il coraggio, la gioia e il sacrificio di tanti giovani ragazzi che hanno combattuto come partigiani e dall’altra parte la codardia, la violenza e la brutalità di chi prestò la propria opera alla perpetuazione del regime fascista. La cattura della banda Tom divenne presto una questione prioritaria per i nazifascisti: per raggiungere questo scopo arrestarono la madre di Tom. I combattenti organizzarono due diverse azioni per la liberare la donna che purtroppo fallirono entrambe. Durante una di queste Antonio Olearo rimase ferito scoprendosi per salvare un compagno. La notte del 14 gennaio, un gruppo scelto della banda, attaccò le stalle dove erano tenuti i cavalli personali del comandante della G.n.r.: sottrassero gli animali e si rifugiarono in una cascina nei pressi di Casorzo. Oltre ad Olearo, ne facevano parte Giuseppe Augino, 22 anni, di Enna, Alessio Boccalatte, 20 anni, partigiano della Brigata Garibaldi Piacibello, Aldo Cantarello, 19 anni, di San Michele Alessandria, Luigi Cassina detto Ginetto o Tarzan, 25 anni, di Casale Monferrato, Giovanni Cavoli detto Dinamite, 34 anni, di Solero, Albert Harbyohire Harry (ufficiale della RAF), 31 anni, Giuseppe Maugeri, 23 anni, di Siracusa, Remo Peracchio, 21 anni, di Montemagno, Boris Portieri, 17 anni, di Genova, Giuseppe Raschio, 21 anni, di San Michele Alessandria, Luigi Santambrogio detto Gigi, 17 anni, di Casale Monferrato e Carlo Serretta detto Scugnizzo, 17 anni, partigiano della Brigata Garibaldi Piacibello. Vennero svegliati nel sonno, incatenati l’uno all’altro e privati delle scarpe gli fecero percorrere dieci chilometri a piedi nudi sulla neve per arrivare a Casale.
infoaut, 14 gennaio 2000

Il Sacrario della Banda Tom – Fonte: Il Casalese

La brigata partigiana comandata da Antonio Olearo (detto Tom, medaglia d’oro al valor militare), fu catturata il 14 gennaio 1945 a Casorzo. Oltre ad Olearo, 24 anni, di Ozzano Monferrato, ne facevano parte Giuseppe Augino, 22 anni, di Enna, Alessio Boccalatte, 20 anni, partigiano della Brigata Garibaldi Piacibello, Aldo Cantarello, 19 anni, di San Michele Alessandria, Luigi Cassina detto Ginetto o Tarzan, 25 anni, di Casale Monferrato, Giovanni Cavoli detto Dinamite, 34 anni, di Solero, Albert Harbyohire Harry (ufficiale della RAF), 31 anni, Giuseppe Maugeri, 23 anni, di Siracusa, Remo Peracchio, 21 anni, di Montemagno, Boris Portieri, 17 anni, di Genova, Giuseppe Raschio, 21 anni, di San Michele Alessandria, Luigi Santambrogio detto Gigi, 17 anni, di Casale Monferrato e Carlo Serretta detto Scugnizzo, 17 anni, partigiano della Brigata Garibaldi Piacibello. Tutti vennero incatenati, obbligati a marciare seminudi e scalzi, interrogati crudelmente e, dopo il trasporto a Casale Monferrato, condotti alla Cittadella dove furono trucidati il 15 gennaio. I loro corpi rimasero due giorni insepolti nella neve.
Piemonte TopNews

Alcuni partigiani della banda Tom – Fonte: La Vita Casalese

Erano tredici i partigiani della Banda Tom, la brigata partigiana comandata da Antonio “Tom” Olearo, 24 anni, medaglia d’oro al Valor militare, che fu catturata il 14 gennaio 1945 e, il giorno dopo, trucidata alla Cittadella di Casale Monferrato. La formazione partigiana contribuì alla lotta contro il nazifascismo nel Monferrato per un anno, e fu organizzata e guidata dai primi mesi del 1944 da Antonio Olearo detto Tom, un fornaio di Ozzano Monferrato che lavorava nel quartiere Borgo Ala di Casale. All’inizio della Seconda guerra mondiale si arruolò nella Guardia di Frontiera e dopo l’8 settembre si unì ai partigiani in Val di Susa. Nell’inverno del 1943 tornò nel Monferrato casalese, raccolse un gruppo di giovani e fondò la sua banda, tra le più attive della zona. Nel corso del 1944 la Banda Tom venne inquadrata nelle Formazioni Matteotti, diventando la Settima Brigata; le sue azioni di guerriglia e sabotaggio si svolsero in tutto il Monferrato. Durante una di queste azioni, nel centro di Casale, la banda si scontrò con una pattuglia fascista e uccise l’ufficiale che la comandava. Era il 29 dicembre del 1944, e come rappresaglia la Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.) ordinò l’arresto della madre di Tom. Nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 1945, dopo un tentativo fallito di liberare la madre, Tom, insieme ad altri compagni, fu sorpreso dai fascisti a Casorzo. Legati con catene e fili di ferro e obbligati a camminare per dieci chilometri a piedi nudi nella neve, vennero poi incarcerati a Casale e torturati. Sempre incatenati e a piedi nudi, nel pomeriggio di domenica 14 gennaio vennero fatti sfilare per le vie del centro cittadino tra percosse e insulti. All’alba del 15 gennaio, senza che a Tom venisse concesso di rivedere la madre, i tredici partigiani furono condotti alla Cittadella, dove furono fucilati; i loro corpi vennero lasciati nella neve per due giorni.
Claudia De Venuto, I partigiani della banda Tom, su Tessere, 30 Settembre 2019

Antonio Olearo “Tom” – Fonte: Temi di storia

[Antonio Olearo] Nacque a Ozzano Monferrato nel 1921 da Pietro ed Emma Deregibus (nativa di Sala Monferrato). Trasferitosi con la famiglia a Casale, fu garzone in una panetteria. Chiamato alle armi nel 1941, venne mandato in un reparto del Genio per Guardia alla Frontiera, in Francia, dove raggiunse il grado di sergente. Dopo l’armistizio del 1943 tornò in patria e si rifugiò in Valsusa, aggregandosi alle prime bande partigiane spontanee. Si distinse subito in varie azioni di guerriglia contro le forze nazifasciste. Nell’inverno 1943-44 passò in Monferrato, dove costituì una delle formazioni partigiane più prestigiose per coraggio e capacità operativa: la VII Brigata “Matteotti” (I Divisione “Italo Rossi”), meglio nota come “banda Tom”, dal nome di battaglia di Olearo. La zona di operazioni della banda si estendeva dal Casalese al Monferrato astigiano e le azioni più eclatanti si svolsero contro i treni della linea Asti-Casale, danneggiando in più punti la ferrovia che alla fine fu resa impraticabile. “Tom” e i suoi uomini agirono in stretto contatto con le altre bande partigiane operanti in zona: la “Lenti”, la banda autonoma del famoso “Tek-Tek” (Luigi Acuto, di Grana), le “Garibaldi”, oltre alla missione americana “Youngstown” di stanza a Santa Maria di Moncalvo. Il 12 gennaio 1945, un’azione contro le carceri di Casale per liberare la mamma di “Tom” che vi era tenuta prigioniera nella speranza di avere da lei qualche informazione sul figlio fallì e la banda tornò nella sua sede, in una cascina di Casorzo. Raggiunti da un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana e della locale Brigata Nera, i partigiani furono catturati e costretti a percorrere vari chilometri a piedi, nella neve, legati con catene e filo di ferro. Portati nella carceri di Casale, furono interrogati, torturati e costretti a sfilare per la città a piedi nudi nella neve: al collo di Olearo fu posto un cartello con la scritta di dileggio “Ecco i leoni di Tom”.
Alessandro Allemano, Ritratto di partigiano: Antonio Olearo “Tom”, Temi di storia, 17 novembre 2014

Era il 14 gennaio 1945.
Ricordo una giornata freddissima, dentro un cielo color del peltro.
Quella banda partigiana, catturata nella notte dalla Guardia Nazionale Repubblicana e da un reparto della Brigata Nera di Alessandria, veniva fatta sfilare per la città affinché tutti la vedessero.
I negozi erano chiusi, e questo consentiva ai più scaldati dei fascisti di picchiare sulle serrande con i calci dei moschetti, per richiamare l’attenzione della gente tappata in casa.
Al capo della banda, i repubblichini avevan dato da reggere un cartello.
C’era scritto: “Ecco i leoni della Banda Tom”.
E Tom, ossia Antonio Olearo, un panettiere di 24 anni, lo reggeva con dignità, il volto tumefatto per le botte, e i piedi, quei piedi!, ridotti ad un ammasso gonfio, senza più forma, macchiato di tutti i colori.
I partigiani scalzi furono condotti nelle carceri di via Leardi e qui, nella notte, condannati a morte da un improvvisato tribunale.
A Tom non fu concesso di salutare la madre, rinchiusa nella stessa prigione.
All’alba del 15 gennaio, Olearo, i suoi compagni e un prigioniero inglese, Harry Harbyohire, tredici in tutto, furono fucilati al poligono di tiro.
I corpi rimasero nella neve per due giorni, sorvegliati da sentinelle affinché i parenti non s’avvicinassero.
Fu possibile fotografarli, ma non seppellirli.
Negli anni che seguirono, non ebbi mai dubbi: i buoni erano i ragazzi come Tom, i cattivi quelli che l’avevano messo al muro con i suoi compagni scalzi.
Continuo a pensarla così ancora oggi.
Anzi, voglio ripeterlo, usando di proposito parole che a qualcuno potranno sembrare vecchie: i senzascarpe stavano dalla parte giusta, i loro fucilatori dalla parte sbagliata.
Su questo punto, per me essenziale, non ho revisioni storiche da fare.
Giampaolo Pansa, Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò, Mondadori, 1991

Il prof. Enzo Barnabà, militante ANPI, residente a Grimaldi di Ventimiglia (IM), nativo di Valguarnera, ed il prof. Celata in visita alla lapide che ricorda i tredici partigiani martiri della Banda Tom – Fonte: ANPI Enna

Giovanni Giuseppe Augino, nativo di Valguarnera [Valguarnera Caropepe in provincia di Enna], subito dopo l’armistizio, appena ventenne, entrò a far parte della Banda Tom che si distinse per l’audacia e l’efficacia delle azioni realizzate nel Monferrato e nell’Astigiano. La banda si integrò poi con la Divisione Matteotti “I. Rossi” diventandone la settima brigata, tra le più attive della zona. Il 14 gennaio 1945, Giovanni fu arrestato assieme ad altri 11 della banda e al comandante Tom. Trasportati a Casale Monferrato vennero brutalmente interrogati, processati e condannati. Il giorno dopo incatenati l’un con l’altro, seminudi e a piedi scalzi nella neve, obbligati a sfilare per le vie cittadine, percossi e insultati furono condotti alla Cittadella Militare dove vennero trucidati. I loro cadaveri rimasero insepolti nella neve per due giorni e poi segretamente sotterrati in un luogo anonimo del cimitero. Il luogo, presto individuato fu cosparso di fiori. Dopo la Liberazione i loro corpi vennero riesumati e decorosamente sepolti. Nel luogo dove si concluse il loro martirio fu posta una lapide che li ricorda.
Redazione, La banda Tom, 1 ottobre 2020, ANPI Enna

Erano rossi i piedi di Tom e dei suoi compagni, la domenica che i fascisti li fecero sfilare per il centro della città. Rossi, e anche violetti, nerastri, giallo-putridi, perché a Tom, e agli altri ragazzi erano stati cavati gli scarponi e le calze, per poi obbligarli a marciare a piedi nudi nella neve o nel fango gelato, lungo chilometri e chilometri, dal paese di Casorzo sino a Casale. Era il 14 gennaio 1945. Ricordo una giornata freddissima, dentro un cielo color del peltro. Quella banda partigiana, catturata nella notte dalla Guardia Nazionale Repubblicana e da un reparto della Brigata Nera di Alessandria, veniva fatta sfilare per la città affinché tutti la vedessero. I negozi erano chiusi, e questo consentiva ai più scaldati dei fascisti di picchiare sulle serrande con i calci dei moschetti, per richiamare l’attenzione della gente tappata in casa. Al capo dclla banda, i repubblichini avevan dato da reggere un cartello.
C’era scritto: Ecco i leoni della Banda Tom. E Tom, ossia Antonio Olearo, un panettiere di 24 anni, lo reggeva con dignità, il volto tumefatto per le botte, e i piedi, quei piedi!, ridotti ad un ammasso gonfio, senza più forma, macchiato di tutti i colori. I partigiani scalzi furono condotti nelle carceri di via Leardi e qui, nella notte, condannati a morte da un improvvisato tribunale. A Tom non fu concesso di salutare la madre, rinchiusa nella stessa prigione. All’alba del 15 gennaio, Olearo, i suoi compagni e un prigioniero inglese, Harry Harbyoire, tredici in tutto, furono fucilati al poligono di tiro. I corpi rimasero nella neve per due giorni, sorvegliati da sentinelle affinché i parenti non s’avvicinassero. Fu possibile fotografarli, ma non seppellirli. Negli anni che seguirono, non ebbi mai dubbi: i buoni erano i ragazzi come Tom, i cattivi quelli che l’avevano messo al muro con i suoi compagni scalzi. Continuo a pensarla così ancora oggi. Anzi, voglio ripeterlo, usando di proposito parole che a qualcuno potranno sembrare vecchie: i senzascarpe stavano dalla parte giusta, i loro fucilatori dalla parte sbagliata. Su questo punto, per me essenziale, non ho revisioni storiche da fare. Quindi, per favore, non aspettatevi da me nessuna di quelle inversioni di marcia oggi alla moda. E neppure uno di quei sofismi che, di questi tempi, certi finti politologi ci propinano con la formula seguente: il partigiano comunista combatteva per affermare in Italia la dittatura sovietica; dunque, quel partigiano era un nemico della democrazia tale quale una SS nazista o un brigatista nero. No, non aspettatevi da me ragionamenti del genere (e del resto, ma è un particolare che non ha peso, Olearo, il capo dei senzascarpe, comandava una formazione Matteotti, ossia socialista). Se siamo qui a raccontarcela, dobbiamo dir grazie anche ai tanti senzascarpe comunisti che, nell’Italia della guerra civile, si fecero fucilare in compagnia di molti senzascarpe di tutt’altra ideologia. E la stranezza del caso italiano, un’anomalia che mi sta bene e mi consente di restare, cocciuto, sulle mie posizioni di sempre. Posso rimanerci anche perché mi sento tranquillo a proposito di uno stato d’animo che riguarda gli altri, i fascisti che hanno perso. Uno stato d’animo di cui debbo parlare dal momento che, in un certo modo, sta all’origine di questo libro. Provo a spiegarlo con una dichiarazione schietta: non ho mai provato odio verso chi è stato con Salò, non conosco l’avversione, per principio, nei confronti di chi ha combattuto con la RSI. Ai giovani di oggi potrà sembrare una dichiarazione ovvia: un conto è il giudizio storico-politico negativo, un altro conto il livore, l’accanimento, l’astio. Sì, tutto normale, banale, logico. Ma per gli italiani della mia generazione, e soprattutto per quelli della generazione precedente, non è quasi mai stato così. Voglio ricordarlo: sono cresciuto in un ambiente che considerava il fascista di Salò il peggio del peggio. Ho ancora nelle orecchie il lessico famigliare di quei due anni di guerra, un lessico gonfio di disprezzo: i repubblichini, la repubblichetta, i disperati, i beccamorti, le testedimorto, gli squadristi della repubblica, la Milizia, la giennerre… Le nostre madri, soprattutto, diventavano furie nel fare o nell’ascoltare certi racconti. Il figlio della lattaia l’hanno preso, torturato e poi spedito in Germania col vagone piombato. La merciaia di via Lanza è stata arrestata perché aveva due ragazzi renitenti alla leva. Sta da tre giorni nella caserma della Milizia e non si sa che cosa le stiano facendo. Il sarto di vicolo Salòmone Olper, ebreo, l’hanno portato via i tedeschi con la moglie e le figlie. Poi è arrivata la brigatanera che gli ha ripulito la casa e il negozio.
Le nostre madri, e anche i padri, parlavano così. E, anche senza volerlo, ci educavano a disprezzare i disperati che si erano messi coi tedeschi, tutti violenti, sadici, gente capace di spararti in bocca per un nonnulla, buoni soltanto a far gli spavaldi, a mettere paura, picchiare, arrestare, mandarti al muro o consegnarti ai tedeschi perché ti spedissero in Germania. Non è stato facile sottrarsi a quest’educazione politico-morale. Per quel che mi riguarda, penso d’esserci riuscito. Non sono mai stato capace di odiare i repubblichini come li sentivo odiare da molti adulti intorno a me. Forse ce l’ho fatta perché, quando Salò esisteva, ero poco più di un bambino e gli orrori di quel tempo non mi hanno segnato per sempre. O forse perché non ho subìto traumi così forti da lasciarmi dentro ferite inguaribili. Così, quando sono stato in età di ragionare su quegli orrori passati, ho cominciato subito a pensare che anche dall’altra parte potevano esserci dei normali esseri umani.
Giampaolo Pansa, Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò, Mondadori, 1991