I partigiani di Bandiera Rossa a Roma

Il marinaio Ettore Arena – Fonte: Giuliano Manzari, Op. cit. infra

A Roma [nella Resistenza] operò il marinaio elettricista Ettore Arena che, inizialmente, si dedicò al sabotaggio dei beni tedeschi e costituì una banda che portava il suo nome; successivamente si immise nella banda Bandiera Rossa, una formazione che diede un elevato contributo di sangue alla Resistenza romana. (103) Il 9 dicembre Arena 1943 fu arrestato e fu tradotto davanti a un tribunale tedesco, che lo condannò a morte. Fu fucilato a Forte Bravetta il 2 febbraio 1944. Davanti al plotone di esecuzione riuscì a strapparsi la benda dagli occhi in segno di sfida. Fu decorato di Medaglia d’Oro al Valore Militare alla memoria. (104)
[NOTE]
(103) La formazione Bandiera Rossa era stata già costituita prima del 25 luglio 1943 da comunisti dissidenti, socialisti indipendenti, repubblicani, cristiano sociali e qualche anarchico. Dopo l’armistizio in essa confluirono anche ufficiali (fra cui Uccio Pisino, di Marina) e militari che si erano battuti per la difesa di Roma. Comprendeva reparti che operarono nel Lazio (bande esterne) e “bande speciali” cittadine che operarono all’interno della Società dei telefoni, della luce, del gas e dell’EIAR. La formazione effettuò alcune azioni spettacolari quali: notte del 30 novembre 1943, assalto alla scorta tedesca del camion che trasportava 11 partigiani che erano condotti a Forte Bravetta per esservi fucilati (comandava la squadra il maresciallo dell’Aeronautica Vincenzo Guarnera, Tommaso Moro); 17 maggio 1944, al bivio dell’Aurelia, cattura del plotone fascista della PAI che si recava al Forte Bravetta per effettuare le fucilazioni: gli uomini della banda indossarono le uniformi ed entrarono nel forte e, all’ordine di fuoco, spararono sui sette tedeschi e sulla trentina di militi della Guardia Nazionale Repubblicana presenti, uccidendoli tutti; lasciarono quindi il forte con i sette partigiani che dovevano essere fucilati. La formazione ebbe da 187 a 224 caduti.
(104) Pesante fu il tributo pagato dal personale delle Forze Armate nella lotta di resistenza a Roma. Dei 74 partigiani che furono fucilati a Forte Bravetta, 22 appartenevano al Fronte Clandestino Militare.
Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale,  Anno XXIX,  2015, Editore Ministero della Difesa

Il numero clandestino di Bandiera Rossa del 7 novembre 1943 (per gentile concessione di Giacomo Edmondo Zolla) – Fonte: Silvio Antonini, art. cit. infra

3.2.2021 – Ieri in occasione del 77° anniversario della morte dei due giovani giornalisti partigiani Enzio Malatesta (Medaglia d’oro al valor militare alla memoria) e Carlo Merli, fucilati il 2 febbraio 1944 a Roma a Forte Bravetta dopo essere stati condannati alla pena capitale da un tribunale germanico, si è appreso che anche un altro giornalista aveva subito la stessa tragica sorte poco più di un mese prima ed esattamente il 30 dicembre 1943: è l’abruzzese Riziero Fantini che aveva scritto per “Umanità nova”, “La Frusta”, “Cronache sovversive” e molte altre testate, in America e in Italia, mentre Merli e Malatesta avevano scritto entrambi per il foglio clandestino “Bandiera Rossa”. Tutti e tre sono stati difensori della libertà e della democrazia e testimoni del loro tempo.
[…] Tra le azioni compiute da «Bandiera Rossa» c’è l’assalto alla scorta tedesca del camion che nella notte del 30 novembre 1943 trasportava undici partigiani destinati ad essere fucilati nel Forte Bravetta. Furono liberati dopo un combattimento. Comandava la squadra partigiana l’ex maresciallo dell’aeronautica Vincenzo Guarnera che aveva assunto come nome di battaglia Tommaso Moro. Malatesta venne arrestato in casa dalle SS assieme al gruppo dirigente di Bandiera Rossa e processato il 28 gennaio 1944 dal Tribunale militare germanico. Malatesta fu torturato e poi fucilato il 2 febbraio 1944 a Forte Bravetta con Merli, Gino Rossi (architetto e tenente colonnello degli alpini che si faceva chiamare Bixio) e altri otto partigiani: Romolo Jacopini, Ettore Arena, Benvenuto Baviali, Branko Bichler, Augusto Parodi, Ottavio Cerulli, Guerrino Sbardella e Filiberto Zolito. Il plotone della PAI sbagliò intenzionalmente i bersagli. Un ufficiale tedesco uccise poi con un colpo alla nuca gli scampati alla raffica. Lo stesso giorno davanti alla base di via Giulia, per strada, venne arrestato Antonello Trombadori, comandante dei GAP Centrali, ma riuscì a salvarsi grazie al silenzio dei suoi compagni arrestati che, nonostante le sevizie, non ne rivelarono l’identità.
Redazione, Per non dimenticare…, www.francoabruzzo.it

La celebrazione a Roma parte da Porta San Paolo, perchè è lì che iniziò l’insurrezione contro i tedeschi.
Visto come sto di salute, anche quest’anno non me la sono sentita di andare, purtroppo. Tanto non se ne accorgerà nessuno, ma sono io che ci tengo.
Perchè per me è una giornata dedicata a mio marito. Si chiamava Filiberto Sbardella ed era il comandante, l’unico rimasto in vita, della formazione partigiana chiamata Movimento comunista d’Italia e poi comunemente Bandiera Rossa.
Era un movimento molto forte nel Lazio ed a Roma in particolare, e presente anche a Milano. Tanto era forte a Roma, che qui il maggior numero di caduti nelle azioni partigiane è proprio di Bandiera Rossa, ma non lo ricorda mai nessuno.
Era al di fuori del CNL, a sinistra, ma comunque con questo si coordinava per le azioni più importanti della guerriglia urbana e nella provincia – era un po’ come la sinistra radicale di oggi, rapportata ai tempi.
Non troverete molto in proposito, perchè dopo la guerra la formazione confluì nell’allora PCI senza chiedere nè medaglie nè posti (altri tempi, eh?) e si cercò di non parlarne più: ci sono riusciti benissimo.
Esiste però un libro su Bandiera Rossa, scritto da Silverio Corvisieri, appena uscito in una seconda edizione, cercatelo se volete conoscere altro, oltre alla storiografia corrente.
La battaglia di Porta San Paolo vide moltissimi partigiani di Bandiera Rossa in azione, e per questo è ancora un appuntamento importante per me, come lo era per Filiberto stesso […]
Carla De Benedetti (moglie di Filiberto Sbardella), Il 25 Aprile. La Liberazione, Venti da sinistra, 25 aprile 2008

I dirigenti di Bandiera Rossa. Da sinistra: Orfeo Mucci, Antonino Poce e Francesco Cretara. (da R. Gremmo, “I partigiani di Bandiera Rossa”, Elf, 1966) – Fonte: Silvio Antonini, art. cit. infra

Un responsabile di zona del Pci, Antonio Bussi, organizza la diffusione de l’Unità nel suo territorio. I gruppi comunisti fanno riferimento a due distinte formazioni: il Pci e il Mcd’I, più noto come Bandiera Rossa dal nome del quotidiano che diffondono i suoi militanti. Bandiera Rossa è molto attiva nelle borgate dove, in qualche caso, è l’unica forza antifascista presente e le sue azioni, soprattutto fino alla fine di febbraio, sono più numerose di quelle attuate dai gruppi del Pci. Tuttavia nonostante l’intransigenza ideologica all’organizzazione (che non accetta a differenza del Pci, alcuna collaborazione con le forze monarchiche e non aderisce al Cln, il Comitato di liberazione nazionale) finiscono con l’aderire antifascisti di ogni tendenza anche di formazione non comunista. Fra questi Gino Rossi, “Bixio”, che entra a far parte del Comitato Esecutivo dell’organizzazione. Architetto, sposato, tenente colonnello dell’esercito, si unisce al Mcd’I, assieme ai soldati che riesce a trattenere dallo sbandamento dell’8 settembre e che organizza sul Monte Circeo. Fornisce all’esercito anglo-americano un piano operativo per l’occupazione delle regioni del Lazio e dell’Abruzzo e tenta di organizzare un centro di resistenza a Borgo Vodice, ma senza successo. Altro esponente di primo piano di Bandiera Rossa è Enzio Malatesta, medaglia d’oro al valor militare, figlio di Alberto Malatesta, ex deputato socialista di Novara. Prima insegnante al liceo Parini di Milano poi direttore della rivista “Cinema e teatro”, all’inizio del conflitto diventa giornalista e redattore capo del “Giornale d’Italia”. Già dal 1942 Malatesta tenta di organizzare, sull’esempio jugoslavo, bande partigiane nella provincia di Roma. La sua casa di piazza Cairoli è un punto d’incontro per tutti gli antifascisti. Durante i “45 giorni” e poi dopo l’8 settembre, avvicina ufficiali dell’esercito rimasti sbandati e intenzionati a combattere. Nei primi di ottobre entra a far parte del Comitato Esecutivo di Bandiera Rossa. Ha il compito di organizzare e mantenere in contatto le cosiddette Bande Esterne che agiscono nelle zone settentrionali di Roma e nel Lazio e di aiutare i prigionieri inglesi evasi: la sua attività costituisce un anello importante nei rapporti tra il movimento e parte del Cln, in particolare i socialisti. I dirigenti del Pci affidano le azioni militari a piccoli nuclei armati: i Gruppi di azione patriottica. Ciascun Gap è costituito da tre/sei combattenti che vivono al di fuori dell’organizzazione del partito, conoscono uno o due compagni al massimo, si chiamano tra di loro con il nome di battaglia e non rivelano il loro cognome. Oltre alle usuali armi da guerra utilizzano bombe confezionate nei laboratori clandestini. Essendo proibita la circolazione degli autoveicoli i gappisti operano in bicicletta e quando, dopo i primi attentati, il divieto è esteso alle due ruote, i gruppi agiscono a piedi oppure, per aggirare i “bandi”, aggiungono una terza ruota alla bicicletta. Il Fmcr (Fronte militare clandestino di resistenza), comandato inizialmente dal colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, organizza ufficiali e sottufficiali dell’Esercito e dell’Arma in stretto collegamento con il Comando supremo di Brindisi e con quello alleato con un’ampia rete di gruppi e di bande operanti anche fuori della città e svolge un’efficace azione di Intelligence. Dopo l’armistizio, un ufficiale d’artiglieria, Fabrizio Vassalli, con mezzi di fortuna giunge dalla Dalmazia in Italia, si offre volontario per attraversare le linee e porta a Roma un cifrario che verrà utilizzato per trasmettere informazioni al comando di Brindisi. Assume il nome di battaglia “Franco Valenti” e la rete informativa che organizza prende il nome di “Gruppo Vassalli”.
Augusto Pompeo (a cura di), Forte Bravetta 1932-1945. Storie, memorie, territorio, SPQR XVI Circoscrizione, Anpi provincia di Roma, 2000

Filiberto Sbadella – Fonte: Wikipedia

Attivista politico e componente del Comitato Direttivo dell’Associazione Italia-URSS, Filiberto Sbardella nel 1943 fu tra gli esponenti più importanti della Resistenza romana nel movimento Bandiera Rossa* in cui figurava come partigiano militante e membro del Comitato di Redazione; componente del Comitato esecutivo del Movimento Comunista d’Italia, già Segretario della Camera del Lavoro romano durante la Guerra, con Antonino Poce, Raffaele De Luca, Orfeo Mucci, Francesco Cretara, Gabriele Pappalardo, Filiberto Sbardella giovane architetto arrivato da Milano attraverso il fratello Mario prese subito contatti con De Luca e strinse rapporti stretti con il gruppo di Salvatore Riso, Carlo Andreoni, Ezio Malatesta, giornalista del Giornale d’Italia. Nel 1944 è tra i militanti dirigenti della formazione partigiana di Armata Rossa che riunisce militanti di Bandiera Rossa, del PCI e dei senza partito, sotto il comando unificato comunista. Assieme a partigiani come il fratello Mario*, e poi Guerrino Sbardella, Otello Terzani, Carlo Lizzani, Celestino Avico, Unico Guidoni, Silverio Corvisieri, Giordano Amidani, Carla Capponi, Gloria e Felice Chilanti, Matteo Matteotti, Sandro Pertini, prosegue imperterrito nell’attività della resistenza romana, fino a giungere poi nel 1944 nell’Esecutivo del Comitato Provinciale dell’ANPI, alla direzione di Voce partigiana, e infine al tesseramento nel PCI.
*Bandiera Rossa: fu un partito politico nonché una brigata partigiana rivoluzionaria che operò durante la Resistenza nella zona di Roma. La denominazione ufficiale era Movimento Comunista d’Italia (MCd’I), ma fu universalmente conosciuto con il titolo del suo giornale, Bandiera Rossa, che ebbe ampia diffusione clandestina durante l’occupazione tedesca. Fu la più grande forza partigiana nella Roma occupata, con una base di circa tremila militanti, in massima parte dislocati nelle borgate della capitale. Fu anche quella che ebbe il maggior numero di caduti: più di 180, di cui più di 50 nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Questa organizzazione non condivideva la linea del PCI, da esso considerata trotskista e per questo attivamente contrastata. Dopo la liberazione di Roma ci fu un rapido declino del MCd’I, che prima del 1950 cessò completamente di esistere. Fra il 1935 e il 1941 fu attivo a Roma un piccolo gruppo di antifascisti di idee comuniste: fra i suoi componenti vi erano Raffaele De Luca, Francesco Cretara, Orfeo Mucci, Pietro Battara, Ezio Villani, Libero Vallieri, Agostino Rasponi, Aladino Govoni, Anna-Maria Enriques. Progressivamente l’influenza di questo gruppo si estese, fino a creare cellule in alcune aziende e in alcune borgate. A questo punto si decise di creare un’organizzazione vera e propria, denominata Scintilla e dotata di un organo di stampa con lo stesso nome. Del periodico Scintilla uscirono, a quanto pare, due numeri, uno a giugno e uno a ottobre del 1942, entrambi scritti a mano e ciclostilati. Nel 1942 esso fu l’unica pubblicazione di orientamento comunista ad apparire a Roma. Il MCd’I fu fondato dopo la caduta del fascismo, nella seconda metà di agosto del 1943, partendo dal gruppo di Scintilla cui si erano aggregati dapprima piccoli nuclei di socialisti e di comunisti, ed al quale in seguito si aggregò un gruppo più consistente, organizzato dal vecchio militante comunista Antonino Poce. Altri gruppi che confluirono con Scintilla furono quelli capeggiati da Salvatore Riso, Ezio Lombardi, ed Ezio Malatesta, che pervenne al MCd’I per il tramite del giovane socialista Filiberto Sbardella. Del costituendo MCd’I entrò anche a far parte l’intellettuale Felice Chilanti, che divenne uno dei principali redattori del giornale omonimo. La riunione fondativa si tenne nella seconda metà di agosto del 1943. Dopo l’occupazione tedesca di Roma, più precisamente nei primi giorni di ottobre, fu messo alla testa del movimento un comitato esecutivo composto da sedici membri: Matteo Matteotti, Aladino Govoni, Giuseppe Palmidoro, Raffaele De Luca, Salvatore Riso, Filiberto Sbardella, Franco Bucciano, Ezio Lombardi, Francesco Cretara, Gabriele Pappalardo, Branko Bitler, Roberto Guzzo, Ezio Malatesta, Carlo Merli, Rolando Paolorossi e Gino Rossi. Il movimento si dotò di due comandi militari: il comando delle “bande esterne”, da cui dipendevano vari gruppi partigiani nel Lazio, in Umbria e nel sud della Toscana, comando retto da Ezio Malatesta e Filiberto Sbardella; il comando delle “bande interne” che operavano nella città di Roma, retto da Aladino Govoni e Antonio Poce. Furono inoltre costituiti: un comitato per la stampa e la propaganda, un comitato assistenza e finanziamento, un comitato servizi tecnici, varie bande speciali, che operavano clandestinamente fra dipendenti dell’Anagrafe, postelegrafonici, vigili del fuoco, ferrovieri e altri pubblici impiegati, direttamente collegate all’Esecutivo. Il MCd’I svolse gran parte della sua opera di orientamento politico attraverso il suo giornale clandestino, Bandiera Rossa, che ebbe una notevole diffusione. Il movimento si dotò anche di un’organizzazione giovanile, denominata COBA, il cui statuto fu redatto dallo scrittore Guido Piovene. In tale organizzazione militò anche Gloria Chilanti, figlia adolescente di Felice, che nel dopoguerra pubblicò un diario della sua esperienza partigiana (…). Le condanne e le fucilazioni non fermarono l’attività partigiana di Bandiera Rossa che, molto intensa, con azioni armate e di sabotaggio, operò da gennaio 1944 per tutti i mesi successivi. Questa attività fu però seguita da una nuova ondata di arresti: furono catturati fra molti altri Aladino Govoni, Ezio Lombardi, Uccio Pisino, e Unico Guidoni. Alla fine di gennaio Poce e Sbardella si fecero promotori della costituzione di un nuovo gruppo armato, denominato Armata Rossa che aveva come scopo dichiarato l’unificazione di tutti i comunisti in un’unica forza militare che avrebbe dovuto lottare assieme agli Alleati. Nei primi mesi del 1944 Armata Rossa divenne una delle più importanti forze della Resistenza romana, contando 424 partigiani durante il periodo della lotta clandestina. L’appello fondativo dell’Armata Rossa puntava all’unità fra il MCd’I, il PCI e il gruppo dei cattolici comunisti. Nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, perpetrato dai nazifascisti il 24 marzo come rappresaglia per l’attentato di via Rasella, fu trucidato un gran numero di esponenti di Bandiera Rossa, il “sarto” Filiberto Sbardella provò a scrivere una lettera a Eugen Dollmann, ma servì a ben poco: fra le vittime vi erano Aladino Govoni, Ezio Lombardi, Eusebio Troiani, Antonio Spunticchia, Giulio Roncacci, Armando Ottaviani, Nicola Stame, Unico Guidoni e Uccio Pisino. Raffaele De Luca, prigioniero dei tedeschi al momento dell’eccidio, si salvò in quanto una guardia carceraria a lui favorevole lo dichiarò troppo malato per essere trasportato al luogo dell’esecuzione. Il 4 giugno 1944 Roma venne liberata senza alcuna insurrezione. Tuttavia in alcune zone della capitale vi furono limitati scontri fra gli Alleati e i tedeschi in ritirata, cui parteciparono anche partigiani di Bandiera Rossa (…). Secondo Corvisieri l’inasprimento dei rapporti tra PCI e Bandiera Rossa raggiunse la punta massima nel mese di aprile. A quel punto Poce e Sbardella si dissero favorevoli alla dissoluzione e si limitarono a chiedere tempo fino al prossimo congresso del MCd’I, in cui si sarebbe deciso del rapporto del movimento con il PCI. Di risposta Raffaele De Luca e Orfeo Mucci, dopo aver accusato Poce e Sbardella di aver capitolato troppo facilmente di fronte all’offensiva del PCI, tentarono un colpo di mano, dichiarando l’espulsione degli stessi Poce e Sbardella dal MCd’I: questi ultimi non accettarono e rivendicarono invece la guida esclusiva del movimento. Si ebbero in questo modo due leadership rivali, ognuna delle quali diramò un proprio bollettino interno con il quale decretava l’espulsione dell’altra. Il nuovo deflusso di militanti fu fatale per l’organizzazione romana del MCd’I, che per la fine dell’estate del 1947 cessò di esistere. Successivamente, Filiberto Sbardella chiese la tessera del PCI, che ottenne qualche tempo dopo. Altri dirigenti passarono ad altri partiti di sinistra, come il PSI e il PSDI. (S. Corvisieri, Bandiera Rossa nella Resistenza Romana, Odradek, Roma, 2005; Sator, Il Comunismo in stato d’accusa ovvero circa i pretesi propositi machiavellici dei comunisti, Scintilla, Roma, giugno 1942)
Redazione, La Resistenza romana, Filiberto Sbardella

La mattina del 2 febbraio avviene la fucilazione degli undici appartenenti alla formazione di “Bandiera Rossa”: Ettore Arena, Benvenuto Badiali, Branko Bitler, Ottavio Cirulli, Enzio Malatesta, Carlo Merli, Augusto Paroli, Gino Rossi, Guerrino Sbardella, Filiberto Zolito e Romolo Iacopini. Il camion arriva sul luogo della fucilazione dopo aver sbagliato strada. Entrato nel forte si ferma dietro una cunetta con il motore acceso e i condannati vengono fatti scendere tre a tre: ogni esecuzione dura circa mezz’ora (il tempo occorrente per togliere le macchie di sangue dalle sedie e dal terreno). La dura repressione di gennaio e febbraio non ferma l’azione partigiana che continua i suoi attacchi anche se le perdite, in tutte le formazioni, sono pesanti.
Augusto Pompeo (a cura di), Forte Bravetta 1932-1945. Storie, memorie, territorio, SPQR XVI Circoscrizione, Anpi provincia di Roma, 2000

Roma liberata, giugno 1944. I partigiani di Bandiera Rossa festeggiano la liberazione. Al braccio la caratteristica fascia rossa con falce e martello. (dalla copertina del libro di R. Gremmo, “I partigiani di Bandiera Rossa”, Elf, 1966) – Fonte: Silvio Antonini, art. cit. infra

Il Mcd’I, noto come Bandiera Rossa, dal nome del periodico che diffondono i suoi militanti, fin dal 1941 è stata una delle formazioni più attive della Resistenza romana e ha dimostrato una consistenza organizzativa e una capacità di azione militare almeno pari, se non addirittura maggiore, in alcuni casi, a quella dello stesso Pci. Ufficialmente, nei nove mesi di occupazione, ha avuto 186 morti, 137 arrestati e deportati, con 1183 combattenti riconosciuti <2. La formazione è stata per molto tempo definita trotzkista soprattutto dai militanti del Pci quando la polemica fra i due movimenti era più aspra, ma il trotzkismo con Bandiera Rossa non c’entra nulla: dividono i due partiti il rifiuto, da parte del Mcd’I, di fare parte del Comitato di Liberazione nazionale e la sua volontà, in caso di fusione da molti suggerita, di confluire nel Partito comunista come organizzazione e non con adesioni individuali.
Una delle tante azioni attribuite alla formazione, probabilmente la più clamorosa, avviene il 6 dicembre 1943.
Quel giorno, di pomeriggio, all’altezza di ponte Garibaldi, poco distante dal Ministero di Grazia e Giustizia e dalla Sinagoga ebraica, tre uomini entrano nel Caffè Grandicelli, ritirano dei pacchi che nascondono negli impermeabili e si allontanano rapidamente. Nel giro di un’ora altri gruppi ripetono la stessa operazione. Poco dopo, all’interno di numerose sale cinematografiche è distribuita un’ingente quantità di volantini che informano la cittadinanza dei delitti commessi dalla «Polizia federale» di Gino Bardi da poco sciolta. Anche in questo caso l’azione è registrata dalle carte d’Archivio:
“Ieri sera, durante lo spettacolo, nelle sale cinematografiche Barberini, Moderno, Odeon, Quattro Fontane, Supercinema, Margherita, Tuscolo, Massimo e Tirreno (quartieri di Magna Napoli, Castro Pretorio, Campo Marzio, Appio, S. Paolo) furono lanciati manifestini di contenuto antifascista, a firma del «Comitato Romano per il movimento comunista italiano – Bandiera Rossa». Detti manifestini furono raccolti da agenti di servizio che non poterono però identificare i diffusori data l’oscurità delle sale durante la proiezione. Sono in corso indagini.” <3.
L’azione è riuscita in pieno ma non coglie impreparata la polizia tedesca. Davanti al cinema Principe, subito dopo il lancio dei manifestini, sono arrestati quattro partigiani da una squadra di SS guidate da Federico Scarpato e da Biagio Roddi, due collaboratori degli occupanti. Nei giorni successivi, grazie anche alle indicazioni di un altro collaborazionista, Ubaldo Cipolla, la caccia ai militanti del Mcd’I continua e porta, in meno di una settimana, all’arresto di una ventina di oppositori. Il 28 gennaio, nella sede del Tribunale di guerra tedesco all’Hotel Flora si svolge il processo che termina con la condanna a morte di undici militanti per «tentati atti di violenza ai danni delle truppe di
occupazione germaniche» e a pene detentive di altri cinque. Fra questi Ettore Arena, giovane operaio originario di Catanzaro e Ottavio Cirulli, un artigiano proveniente da Foggia i quali attendono il giorno dell’esecuzione rinchiusi nel carcere romano.
Le informazioni riguardanti Ottavio Cirulli sono state fornite da due lettere scritte dalla moglie Anna contenute nel fascicolo carcerario conservato nell’AS di Roma e da un’intervista rilasciata nel dopoguerra dalla figlia Maria allora tredicenne.
Nella casa di Ottavio, in via di Donna Olimpia, restano una moglie e cinque figli, uno dei quali di pochi giorni.
Al dolore per la sorte che toccherà al congiunto si aggiungono le difficoltà economiche per la chiusura forzata della bottega. Ricorda la figlia Maria:
“[…] un po’ questo amico di mio padre ci aiutava, i 2 mesi che stava in galera, come facevamo? Ci avevamo un po’ di soldi, ma la bottega è rimasta chiusa. E così noi soli […]” <4
Fra Ottavio e la sua famiglia inizia uno scambio di missive: “lui ce scriveva da Regina Coeli, due volte a settimana, la lettera era tutta vidimata, ci raccontava: dicono che mi debbono fucilare, ma io so’ innocente. […] Dalle lettere lui diceva mandatemi da mangiare alcune cose che a lui non gli erano mai piaciute e ce le chiedeva”.
Amici premurosi aiutano la famiglia in difficoltà e la moglie Anna riesce a far pervenire a Ottavio tutto quello che può trovare: sigarette, “ciriole”. Non l’acqua di colonia perché non è consentito ai detenuti ricevere bottiglie:
“Caro Ottavio ti fo sapere che io ho ricevuto solo una lettera che portava la data del 30 dicembre e lo ricevuta il giorno 5 gennaio, noi da mangiare lo portiamo il martedì e il venerdì fammi sapere lo ricevi sempre ogni due giorni la settimana, la biancheria non lanno fatta ritirare perché vi erano le feste e si ritira domani sabato. Per la bottega le chiavi me l’anno portate e ci sta Mastro Rocco. Per i soldi non te ne preoccupare si tira avanti alla meglio, la signora di Taranto appena abbiamo aperto bottega le scarpe se le prese subito. La robba che hai chiesto te le abbiamo mandato tutto manca solo l’acqua di colonia perché le bottiglie non le fanno passare, e scrivi se ogni due giorni alla settimana ricevi 6 ciriole il martedì e 6 ciriole il venerdì e facci sapere subito se hai ricevuto tutto quanto.
Saluti e baci Anna
Ti bacia Maria Michele Gina Anita e Giuseppino”
La lettera finisce con un’annotazione della figlia più grande:
“Papà adesso stò a vedere se posso venire a colloquio
La tua cara figlia Maria”. <5
Non è facile per Anna ricevere notizie: le lettere dal carcere arrivano con molto ritardo.
[…] La mattina del 2 febbraio Maria si reca a Regina Coeli per ritirare il solito pacco di biancheria del padre. La guardia carceraria le dice che il padre è stato deportato. A casa si teme il peggio e il giorno dopo la mamma, accompagnata da parenti e da amici, apprende di persona al carcere quanto è successo e riceve gli oggetti sequestrati al marito: il danaro, le chiavi della bottega e anche i libri.
“E così il 2 febbraio vado lì, come al solito, e i panni ritornano. C’era la fila delle donne, una guardia mi disse, mi ricordo le parole: ‘Pupe’ va’ da mamma e di’ che papà è partito. L’hanno mandato in Germania a lavora’. E io me ne rivado co’ ‘sta roba. Il pomeriggio a casa, con mia madre, sempre appiccicati a lei, pensavo alle persone che ce guardavano, lì alla fila, con la guardia, allora dentro di me – dicevo – per dire così significa che deve essere successo qualcosa. Allora faccio a mia madre “tocca anda’ a vede’ sa’ perché a me quelli m’hanno guardato, quando m’hanno dato ‘a roba, ‘nnamo a vede’”. E allora il giorno appresso, mia madre con mio zio, e sempre con questo amico di mio padre, vanno lì, a Regina Coeli. Vanno lì, c’era il direttore Carretta, e gli dicono ‘guardi suo marito l’hanno fucilato stamattina. Se fate in tempo domani mattina lo vedete pure: sta al Verano’. E gli hanno dato la roba indietro: ché mio padre studiava musica, ricordo lo spartito e (i libri) d’Inglese, il cappotto. Il 2 febbraio è andato alla fucilazione senza cappotto: se vede che l’ha lasciato a noi, e un po’ di soldi, le chiavi della bottega. Loro sono tornati a casa: piangevano… e così […]”
Mentre avviene il colloquio con l’agente, dall’edificio parte l’autocarro del carcere che trasporta, ammanettati, gli undici militanti di Bandiera Rossa condannati e un sacerdote. All’interno gli agenti di scorta hanno collocato l’occorrente per l’esecuzione: corde, sedie, bende e paletti.
L’autocarro attraversa velocemente il popolare quartiere di Trastevere e imbocca una strada che attraversa la campagna romana. Giunto a via di Bravetta il furgone entra all’interno di un edificio militare dove, su un terrapieno, attendono, sorvegliati da soldati e ufficiali tedeschi, il direttore del carcere, un medico legale e un plotone di agenti della Polizia dell’Africa Italiana comandati anch’essi da un ufficiale. Gli agenti di custodia fanno scendere dal furgone un primo gruppo di cinque, sistemano le sedie una accanto all’altra fissandole al terreno con i paletti, bendano i condannati e li legano alle sedie con le spalle rivolte verso il plotone. Poi i soldati della PAI si dispongono su due file: una mira alla schiena, l’altra alla testa; infine l’ufficiale legge la sentenza e ordina il fuoco. Subito dopo le stesse operazioni sono ripetute con gli altri sei che cadono riversi sui corpi dei loro compagni. Dopo che il medico legale ha accertato i decessi, sono redatti gli atti di morte firmati dallo stesso medico e dal direttore del carcere.
Gli ultimi istanti di vita di Ettore Arena sono registrati da un altro documento conservato nell’AS di Roma: la denuncia presentata al Tribunale di Roma dopo la Liberazione della città dalla madre Maria Calabretta contro il presunto delatore del figlio. Dal documento si apprende che lo stesso 2 febbraio Maria Calabretta, giunta al carcere giudiziario vede il camion della morte partire con a bordo il figlio Ettore e i suoi compagni:
“All’indomani sono ritornata a Regina Coeli, ma con dieci minuti di ritardo mentre passava il carrettone aperto che portava il povero Ettore e compagni a forte Bravetta accompagnati con due macchine con dei tedeschi […]”
All’esecuzione non sono ammessi i congiunti delle vittime e solo alcune ore più tardi Maria Calabretta apprende da un agente di custodia che ha scortato gli undici al forte come è morto suo figlio. “Ettore – ricorda la madre con dolore ma anche con orgoglio – affronta il plotone d’esecuzione con fierezza e dignità e dichiara a voce alta che si è battuto per l’Italia […] Quale fu il comportamento di fronte al plotone di esecuzione? – fiero, superbo, meraviglioso, è
stato il primo a parlare a fronte alta: – ho fatto di tutto per salvare l’Italia, non per salvare l’Italia perché non era forza mia, ma ho contribuito per la salvezza dell’Italia”.
Il giovane chiede da bere, da mangiare e da fumare: gli portano una sigaretta, un bicchiere d’acqua e un pezzo di pane di segale, “il pane tedesco”. Guarda i suoi nemici con disprezzo e vuole abbracciare i suoi compagni – Se è possibile abbiamo bisogno da mangiare, da bere e da fumare! – Gli venne portato un bicchiere d’acqua, una sigaretta ed un pezzo di pane tedesco, ha consumato tutto e mentre spezzava il pane con i denti guardava adirato il nemico in segno di disprezzo, strappava il pane sempre molleggiando sulla punta dei piedi, poi disse: – Permettete ch’io bacio i compagni? –
Ettore affronta la morte tranquillo perché non ha ucciso e non ha derubato nessuno: è stato un patriota, un italiano che ha agito per la libertà contro i fascisti e i nazisti.
Ha ascoltato come si doveva svolgere la fucilazione ed ha fatto una discussione dichiarando che va incontro alla morte sereno e tranquillo di non aver né rubato e né ammazzato solo per aver collaborato da vero patriota e Italiano per la libertà contro i tedeschi e fascisti.
“e poi, quando è giunto il momento, vorrebbe evitare di farsi fucilare alla schiena perché – urla – è un italiano non un traditore e il prete confortatore ha un bel da fare per convincerlo ad accettare la benda e a volgere le spalle al plotone”.
Lo legarono e lo bendarono per la quarta volta, mentre egli divenne implacabile, questo no! – voglio vedere chi mi uccide, perché loro soffriranno più di me se hanno cuore! Fucilatemi al petto e senza benda, non sono un traditore, non sono un vigliacco, sono un Italiano! – Il prete l’ha pregato di fare il completo sacrificio di farsi fucilare alle spalle perché per i tedeschi rappresentava un nemico e allora calmatosi si è seduto alla sedia Il giovane riesce, però, al momento della scarica di fucileria, a voltare il viso e a urlare “Viva l’Italia!” in direzione dei fucilatori.
“e con le mani cercò allontanarsi la benda dagli occhi e appena si è visto un po’ libero, girò indietro la testa e vedendo il plotone pronto per sparare contro di lui gridò con sveltezza «Viva l’Italia!» Testimone della fucilazione è un certo Vassallo abitante in via dei Sabelli 10, attualmente fa servizio a Regina Coeli, prima era agente della Polizia mortuaria”.
Il documento è un dattiloscritto redatto alcuni mesi dopo l’esecuzione ed è stato prodotto per fini giuridici (intende attivare un procedimento penale). Contiene, comunque, elementi interessanti ai fini della ricerca: la partenza del camion della morte da Forte Bravetta, i particolari dell’esecuzione e gli ultimi istanti di vita dei condannati riportati da un testimone credibile (l’agente di Polizia mortuaria). Colpiscono, in modo particolare, la fierezza e l’orgoglio che la madre sente nei confronti di un figlio che ha sacrificato la sua vita per l’Italia. I continui richiami ai valori nazionali costituiscono indubbiamente un espediente che l’estensore del documento (probabilmente l’avvocato di parte civile) utilizza per la sua strategia processuale ma suggerisce un’altra riflessione: nella Resistenza romana il nemico principale e, in qualche modo, visibile è il tedesco occupante (assieme ovviamente ai suoi alleati fascisti) e il tratto dominante della lotta partigiana è il sentimento patriottico e nazionale in piena continuità con l’epopea risorgimentale.
Di diverso tenore gli altri documenti utilizzati in questa sede. Le note della PS e della segreteria del carcere di Regina Coeli certificano in modo burocratico l’azione di Bandiera Rossa e l’avvenuta esecuzione: sono carte emesse per dovere d’ufficio e danno agli eventi una certezza probatoria.
Le due lettere di Anna Cirulli, moglie di Ottavio, sono state scritte negli stessi giorni in cui il partigiano era recluso nel penitenziario, risentono della drammaticità e dell’urgenza del momento, sono scritte in una lingua semplice e riflettono una situazione di difficoltà e di precarietà anche quotidiana: la donna assicura che i figli mangiano tutti i giorni e che la bottega è salva, mentre la figlia chiede di guastare una maglia per ricavarci i calzini. Su tutto emerge la figura della donna in tempi di guerra; la donna che si fa carico dei bisogni dei suoi congiunti, che lotta contro le avversità e che, alla fine delle giornate spese a correre per gli uffici giudiziari e a preparare pacchi per il marito recluso, è stanca e ha i piedi “tutti rotti” […]
2 Nel 1941 a Roma fra i vari gruppi che si richiamavano al comunismo un nucleo di vecchi militanti che avevano resistito alle persecuzioni fasciste si riunì sotto il nome di “Scintilla” e iniziò un’opera di opposizione clandestina al regime. Da quel nucleo ebbe origine il gruppo dirigente che dette vita al Mcd’I nella seconda metà dell’agosto 1943 e che risultò composto, fra gli altri, da socialisti e comunisti “storici”, quali Antonio Poce, Salvatore Riso e il giornalista Enzio Malatesta.
3 ACS, MI, Dgps, Scp Rsi 1943-45, b. 70, fasc. «Comando della Città Aperta», mattinale del 7.12.1943.
4 A. SFERRUZZA, Intervista a Maria Cirulli, in Liberi: storie, luoghi e personaggi della Resistenza del Municipio Roma 16, a cura di A. POMPEO, Roma, Sinnos 2006, p. 176.
5 AS di Roma, Rcdp, b. 8, fasc.336, «lettera della moglie Anna a Ottavio Cirulli», 18.1.1944.
(a cura di) Augusto Pompeo, Testimonianze e documenti della Resistenza romana, Senato della Repubblica

La tessera del Movimento Comunista d’Italia (da S. Corvisieri: “Bandiera Rossa nella Resistenza romana”, Odradek, 2005) – Fonte: Silvio Antonini, art. cit. infra

Al momento dell’azione partigiana di via Rasella, Bandiera Rossa ha numerosi detenuti, in prigione o nelle mani degli aguzzini in via Tasso, perciò è il partito che ha più martiri in quella strage, 1/6 del totale, ma non per questo cessa la sua attività.
Proprio nel trigesimo delle Ardeatine i partigiani di Bandiera Rossa compiono un gesto di singolare coraggio: si recano di sera all’ingresso delle fosse, disarmano i militari della Polizia Africa Italiana (Pai) messi di guardia dai nazisti proprio per impedire adunate, e appendono un grande cartello con la scritta: «I partigiani di Bandiera Rossa vi vendicheranno (24 aprile 1944)».
Sempre in quella terribile primavera romana del ’44, Bandiera Rossa si rende protagonista di un altro fatto clamoroso. Per il 1° Maggio, in una capitale ancora sotto assedio, l’Mcd’i esce allo scoperto e, una volta neutralizzati i locali sgherri fascisti, celebra pubblicamente la festa internazionale dei lavoratori nel quartiere di Torpignattara, con decine di bandiere rosse appese e centinaia di volantini distribuiti alla popolazione: si parlerà della “Repubblica Autonoma di Torpignattara e Certosa”.
Il 4 giugno ’44 arrivano le truppe alleate: l’insurrezione di Roma, auspicata anche dai comunisti intransigenti, non c’è stata. I partigiani di Bandiera Rossa, muniti delle caratteristiche fasce rosse con falce e martello al braccio, riempiono le piazze per festeggiare reclamando però l’instaurazione d’un governo dei lavoratori.
L’Mcd’i è il partito che ha dato il più alto tributo di sangue per la Liberazione del Lazio, con 186 caduti (il 34% del totale) e 137 tra arrestati e deportati; eppure è proprio con la fine della clandestinità che inizia il declino della formazione.
Le motivazioni di questo declino sono molteplici, tra queste l’ovvia opposizione del Pci, come si evince dalle pagine de l’Unità, che – ha detto qualcuno – non tollerava un potenziale concorrente con tratti esteriori tanto simili.
Silvio Antonini, La storia di Bandiera Rossa nella Resistenza romana, Patria Indipendente, 6 dicembre 2009

Di fatto, quando questi dirigenti iniziarono a fare ritorno in Italia nel 1943-45, i militanti che si trovavano in loco e che venivano da un lungo periodo di isolamento avevano già cominciato a mettere in piedi le proprie organizzazioni comuniste prescindendo dalle direttive dei funzionari che si trovavano in esilio. Si consideri ad esempio il caso di Scintilla, il gruppo clandestino formatosi a Roma poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del 1940 che fu all’origine di Bandiera Rossa. Così denominato in omaggio all’Iskra di Lenin, esso comprendeva fra i propri membri di maggior spicco l’incisore cristiano-socialista Francesco Cretara, il falegname originario del quartiere di San Lorenzo Orfeo Mucci, figlio di un sindacalista anarchico, il fioraio comunista Agostino Raponi <6, il tranviere di Torpignattara Tigrino Sabatini, veterano degli Arditi del Popolo, Raffaele de Luca, già sindaco socialista di Paola nel 1921, e il capitano dei granatieri Aladino Govoni, comunista. Scintilla, che a partire dall’agosto del 1942 cominciò a far uscire un proprio giornale, riteneva in maniera piuttosto meccanica che, poiché il fascismo andava considerato, in linea con quanto sostenuto dall’Internazionale comunista nei primi anni Venti, come l’estrema risorsa messa in campo dal capitalismo per garantire la propria sopravvivenza, la sconfitta militare del regime avrebbe comportato un’occasione rivoluzionaria. Di contro, i dirigenti del Pci in esilio a Parigi difendevano una politica di unità nazionale contro il fascismo, una linea di «fronte popolare» che aveva già avuto dei precedenti in Francia e Spagna negli anni fra il 1934 e il 1939. Tale politica «patriottica» mirava a dissipare il sentimento anticomunista in Occidente (e a indurre in tal modo a un’alleanza con l’Urss paesi come il Regno Unito e la Francia) dimostrando che i comunisti non cercavano di fomentare la rivoluzione ma solo di costruire un’ampia coalizione in funzione antifascista. Ora, considerato come tale approccio fosse praticamente inapplicabile nell’Italia mussoliniana, l’impostazione «patriottica» dei dirigenti del Pci che risiedevano fuori dal paese era (al pari dei loro princìpi organizzativi sempre più dettati dall’ottica stalinista) letteralmente estranea ai comunisti che erano rimasti in Italia. Lungi dal concentrarsi sulle larghe alleanze di cui sopra, l’attività di questi gruppi clandestini era decisamente più chiusa in se stessa, sostenuta dalla fiducia nel prossimo avvento del socialismo più che da un reale sforzo di organizzazione di massa.
Fu per questi motivi che, quando si trattò di costituire a Roma una cellula comunista alla fine della guerra civile spagnola, la burocrazia del Pci scelse di non fare affidamento sui compagni di un tempo, vittime di un lungo isolamento. Piuttosto essa optò, avvalendosi allo scopo dell’intermediazione di Giorgio Amendola , per la creazione di un circolo studentesco antifascista composto di giovani imbevuti del pensiero di Croce e Gentile e poco formati alle idee del marxismo. Sin dai primi contatti avvenuti nel 1941-42 [n.d.r.: in questo periodo, tuttavia, Giorgio Amendola non era ancora rientrato, clandestinamente – va da sé! -, in Italia] , questi nuovi quadri provenienti dalle file delle organizzazioni studentesche di regime fecero tutt’altro che una grande impressione sui membri di Scintilla. L’ex commissario della Camera del lavoro di Roma Filiberto Sbardella poteva così esprimere tutto il proprio stupore di fronte a una situazione nella quale degli studenti del Pci come Mario Alicata e Marco Cesarini Sforza, «a contatto con elementi dell’aristocrazia romana e molto vicini a casa Savoia», comunicavano ai suoi compagni che essi non erano «in diritto di discutere le direttive supreme ma solamente di accettarle e metterle in azione» <7. Gli aderenti a Scintilla non erano trozkisti, e anzi rifiutavano con sdegno tale etichetta, ma dovettero assaggiare la nuova cultura organizzativa ormai stalinizzata del Pci venendone messi a dura prova. Paradossalmente, la loro opposizione alla politica di «unità nazionale» era alimentata dal loro culto di Stalin. Se il socialismo aveva trionfato in Russia e stava ora sconfiggendo quasi da solo la Germania nazista, bisognava dedurne che la rivoluzione europea non poteva poi essere così lontana <8. Inoltre, poiché il regime mussoliniano si presentava come un baluardo contro l’imminente bolscevizzazione di tutto il continente e tacciava di «comunismo» qualsiasi opposizione, la stampa fascista che i membri di Scintilla avevano sommamente in odio non faceva altro che alimentare la loro mitizzazione dello Stato sovietico. In realtà, questo genere di trionfalismo si fece sentire anche all’interno del Pci, tanto che Agostino Novella, attivista aderente al partito, nel dicembre del 1943 lamentava quanto fosse difficile far capire ai propri compagni che il fronte popolare non era una mera «astuzia», un preludio alla presa del potere vera e propria <9.
[NOTE]
6 Raponi sarebbe poi rientrato nel Pci all’inizio della Resistenza.
7 L’episodio è raccontato in un articolo non pubblicato del 1945, conservato all’interno del Fondo Corvisieri presso il Museo Storico della Liberazione (b. 29, f. 87).
8 L’articolo «Quando verrà Baffone», comparso su Scintilla nel numero di ottobre 1942, pur insistendo sulla necessità di organizzarsi e criticando l’atteggiamento messianico di chi si aspettava da Stalin una prossima liberazione dell’Italia, mostrava a suo modo anch’esso di essere influenzato dal culto del capo sovietico quando tuonava: «Se questa gente sapesse che è proprio “Baffone” che vuole e che ha predicato sempre che i popoli trovassero in sé la capacità di unirsi alla Associazione socialista si vergognerebbe di aspettare la manna dal cielo».
9 Si vedano i documenti del Fondo Novella presso l’Istituto Gramsci, soprattutto il «Rapporto sulla seconda zona» e «Risultato di questo mese di lavoro». Un sentimento straordinariamente simile traspare nei rapporti stesi dall’attivista delle federazione torinese Arturo Colombi (consultabili presso l’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza).
(traduzione di Marco Zerbino)
David Broder, I partigiani che volevano fare la rivoluzione, MicroMega, rivista, 3/2015